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Data: 24/03/2014 19:00:00 - Autore: Law In Action - di P. Storani di Paolo M. Storani - (parte prima) La cosa buffa è che mentre sto cominciando la prima puntata di questo pezzullo sono le h.11:15 del 24 marzo 2014 e su LinkedIN chiede di mettersi in contatto con me il Dott. Claudio Rosellini, medico dell'area di Torino esperto in malattie della scrittura; ...fa decisamente al mio caso. Il 13 marzo 2014 è stata depositata dalla felice penna del Consigliere Estensore Marco ROSSETTI della Sez. III Civile, Pres. Libertino Alberto RUSSO, la sentenza n. 5791/2014 (PM Aurelio GOLIA) con cui il Supremo Collegio di Piazza Cavour, nel ribaltare la pronuncia n. 385/2007 emessa il 13.2.2007 dalla Corte d'Appello di Milano, fissa alcuni fondamentali paletti avuto riguardo alla responsabilità professionale dell'avvocato ed alla tutela che deve apprestare la compagnia assicurativa, nella fattispecie la RAS, ora Allianz, che curiosamente nella vicenda non ha svolto attività difensiva. Ordunque, l'avvocato D.G. nel 1989 aveva stipulato con RAS - Riunione Adriatica di Sicurtà una polizza assicurativa a copertura della propria responsabilità professionale. Va subito evidenziato che tale copertura assicurativa era terminata nell'aprile 1998; vedremo in prosieguo perché questo particolare assume rilevanza nella determinazione alla quale è pervenuta la Corte Suprema di Piazza Cavour. Nella vigenza del contratto - per la precisione in data 9.12.1996 - il legale proponeva avanti alla Corte d'Appello di Bologna appello nell'interesse di una ditta cliente che il Collegio petroniano giudicò tardivo; l'impugnante venne condannata alla refusione delle spese di lite a vantaggio della controparte. L'errore professionale era evidente ed inescusabile: il legale aveva impugnato una sentenza sottoposta a correzione di errore materiale facendo decorrere il termine per il gravame dal deposito del provvedimento di correzione anche per i capi della pronuncia che non erano stati corretti. Ovviamente il legale ammetteva la propria responsabilità (imperizia) consistita nella tardiva proposizione dell'appello e spontaneamente si accollava il debito della cliente nei confronti della parte vittoriosa, adempiendolo. Il 30.7.1999 il legale richiedeva al suo assicuratore della r.c. la restituzione della somma versata per tenere indenne la cliente dalle conseguenze del proprio errore professionale: circa ottomilioni di vecchie lire. Nel novembre 2001, non avendo la Compagnia meneghina di Corso Italia adempiuto al pagamento dell'indennizzo contrattualmente dovuto, l'avvocato la citava in giudizio avanti al Tribunale di Milano, che con sentenza n. 12453 del 10.9.2003 rigettava la pretesa attorea: il Tribunale di prossimità riteneva valida ed efficace la clausola dell'art. 14 delle condizioni generali, che prevedeva che l'indennizzo fosse dovuto unicamente "per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta all'assicurato nel corso del periodo di efficacia del contratto". Tale statuizione godeva della conferma ad opera della Corte d'Appello di Milano, però con motivazione diversa: orbene il motivo dirimente non consisteva nell'impedimento frapposto dalla suddetta clausola dell'articolato (14) di polizza, bensì per la differente ragione che, nella specie, l'efficacia del contratto di assicurazione era spirata ad aprile '98 e, pertanto, in epoca anteriore alla sentenza bolognese, depositata nell'ottobre '98, momento in cui - stando all'erroneo ragionamento concettuale della Corte d'Appello di Milano - sarebbe sorta la responsabilità professionale dell'avvocato. Pertanto, ai sensi dell'art. 1917 c.c. il fatto materiale consisterebbe non nella proposizione di un appello all'evidenza inammissibile in quanto tardivo, bensì nella sentenza felsinea che tale tardività aveva dichiarato. La Corte distrettuale si spinge a sostenere: "la proposizione di un'impugnazione ad intervenuta decadenza, anche se configura un errore professionale, non è né può ancora considerarsi in sé produttiva di un evento dannoso, potendo nondimento il processo seguitone trovare, per accadimenti vari, una conclusione che non generi un esito siffatto". Pleonastico porre in risalto che con tale differente pronuncia (eguale l'epilogo primo grado-appello, diversa la sentenza) il ricorrente va a nozze lamentando con un primo motivo che la pronuncia sia affetta da vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. Lo schema decisorio del Dott. Marco Rossetti è esemplare: "la decisione della Corte d'Appello è innanzitutto carente sul piano della valutazione degli elementi di fatto acquisiti nel corso del giudizio". L'Estensore critica l'affermazione della Corte meneghina poc'anzi riportata, condivisibile a livello generale, ma che "andava tuttavia calata nel contesto della concreta fattispecie sottoposta all'esame del giudice di merito, e cioè una fattispecie nella quale l'avvocato dell'appellante aveva commesso un errore evidente ed inescusabile d'imperizia". Talché, prosegue il Dott. Rossetti, "la gravità e, soprattutto, l'indiscutibilità in iure dell'errore commesso dall'avvocato rendeva altissimamente probabile, se non pressoché certo, l'esito dell'appello da questi tardivamente proposto". Domani analizzeremo il ragionamento del prestigioso magistrato sul cosiddetto "giudizio controfattuale, tematica ricorrente sulle colonne virtuali di LIA Law In Action. In sintesi, l'asserzione che il giudizio di appello bolognese avrebbe potuto concludersi "per gli accadimenti più vari", con una pronuncia diversa dalla declaratoria d'inammissibilità non tiene conto della peculiarità del caso concreto. Fine prima parte (la seconda domani, 25.3.2014). Proseguiremo nella disamina ragionata della pronuncia della Cass., Sez. III, 13 marzo 2014, n. 5791, ed avvieremo un'indagine a tutto campo sulla responsabilità professionale dell'avvocato, senza sconfinare, sperabilmente, nella sindrome del burn-out, termine traducibile con "scoppiato, bruciato", come ci insegna Nadia Fusar Poli nel contributo che Studio Cataldi ha ora in homepage e che colpisce nel profondo il lettore tant'è che sta scalando la nostra classifica dei più letti: un lento processo di logoramento psicofisico per cui l'avvocato vorrebbe adottare decisioni drastiche. Mi raccomando, leggete quel brano di Nadia, che termina con questa frase a mo' di suggerimento: "invece di scappare dal vostro lavoro e prima di fare qualsiasi mossa importante (di cui magari potreste poi pentirvi, cominciate ad esaminare più a fondo le questioni che causano lo stress e provate a considerare dei cambiamenti meno drastici. Siete ancora convinti di mollare tutto e di chiudere definitivamente con la legge? Beh, almeno ora lo farete per dei validi motivi ...e non per disperazione!". A domani! Vedi anche: La responsabilità professionale dell'avvocato. Un'anno di pronunce della Cassazione - Con raccolta di articoli e
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