Data: 26/03/2014 18:45:00 - Autore: Avv. Alessandro Olivari
Avv. Alessandro Olivariolivari.alessandro@gmail.com
La clausola della buona fede trova, all'interno del nostro codice civile, una pregnante rilevanza assurgendo non soltanto a criterio oggettivo di interpretazione dell'assetto contrattuale secondo quanto dispone l'art. 1366 c.c., ma anche permeando, quale canone valutativo ed in stretta correlazione con la clausola della correttezza di cui all'art. 1175 c.c., la fase precontrattuale della formazione del contratto (art. 1337 c.c.) ed il comportamento attuativo di quanto sotteso nell'assetto degli interessi (art. 1375 c.c.).
In ambito giurisprudenziale e dottrinale il ruolo della buona fede ha trovato una sensibile evoluzione, segno dell'importanza sempre maggiore che tale clausola ha assunto.
Per quanto qui d'interesse, rileva osservare come tale evoluzione abbia innescato una rilettura (costituzionalmente orientata) del ruolo primario della buona fede:
- quale criterio di valutazione delle condotte dei paciscenti e di integrazione degli obblighi gravanti sulle parti, anche ulteriori a quelli discendenti dalla fonte contrattuale (cfr. Cass. Civ. Sez. Unite, 18.12.2007 n. 20106);
- quale clausola posta a tutela dell'esercizio arbitrario ed abusivo delle pretese creditorie, espandendo la propria vis quale limite funzionale alle pretese e, più in generale, all'esercizio di diritti del creditore, formalmente ammessi, ma attuati mediante devianza da ratio e funzione per i quali sono stati previsti (cfr.: Cass. Civ. Sez. Unite 15.11.2007 n. 23726);
- e, infine, quale strumento di controllo dell'autonomia contrattuale, ossia quale regola idonea a valutare la ragionevolezza di singole clausole, in funzione degli opposti interessi dei paciscenti (cfr. Cass. Civ. 18.09.2009 n. 20106)
In tal senso, la clausola della buona fede risulta idonea non soltanto ad integrare gli obblighi gravanti sulla parti ma anche a paralizzare – mediante lo strumento dell'abuso del diritto, coniato dall'exceptio doli generalis, azione conosciuta dal diritto romano) – tutte quelle pretese che risultino esercitate in maniera abusiva ovvero finalizzate al conseguimento di obiettivi (secundum legem, ma attuati contra ius) ulteriori ed esorbitanti rispetto alla funzione prevista dal Legislatore, pertanto non più meritevoli di tutela.
Nel solco di tale evoluzione, tesa a tutelare quelle posizioni soggettive c.d. di sofferenza illegittimamente compromesse dai comportamenti del creditore, si inserisce il riconoscimento, da parte della più attenta Giurisprudenza, del c.d. abuso del diritto anche nei rapporti di locazione (cfr.: Cass. Civ. Sez. III, 31.05.2010 n. 13208; Cass. Civ. Sez. III, 22.03.2012 n. 4541).
Precisamente: i principi di diritto enunciati dalla Giurisprudenza di legittimità, confermano la tutela del debitore-conduttore nelle ipotesi di comportamento abusivo del creditore-locatore sotto due diversi profili:
I) da una lato, incidendo sul comportamento delle parti nella fase patologica del rapporto, negando ad esempio la richiesta di risoluzione contrattuale avanzata dal locatore qualora possa preservare il vincolo aliunde e con esso gli interessi della controparte;
II) da altro lato, riconoscendo un preciso legame tra pretestuosa richiesta di risoluzione contrattuale e asserito inadempimento, in termini di scarsa importanza di quest'ultimo, avuto riguardo agli interessi sottesi al vincolo contrattuale.
Così si legge nella Sentenza della Terza Sezione Civile del 31.05.2010 n. 13208 (confermata, nel merito, da: Cass. Civ. Sez. III, 22.03.2012 n. 4541):
“il principio della buona fede oggettiva, intesa come reciproca lealtà di condotta delle parti, deve accompagnare il contratto in tutte le sue fasi, da quella della formazione a quelle della interpretazione e della esecuzione (confr. Cass. civ. 11 giugno 2008, n. 15476; Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106), comportando, quale ineludibile corollario, il divieto, per ciascun contraente, di esercitare verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati (confr. Cass. civ. 16 ottobre 2003, n. 15482) nonché, il dovere di agire, anche nella fase della patologia del rapporto, in modo da preservare, per quanto possibile, gli interessi della controparte, e quindi, primo tra tutti, l'interesse alla conservazione del vincolo”.
E ancora:
“In tema di buona fede nell'esecuzione del contratto, la slealtà del comportamento della parte che invochi la risoluzione del contratto per inadempimento pur avendo altre vie per tutelare i propri interessi, non può non ripercuotersi sulla valutazione della gravità dell'inadempimento stesso, che dell'abuso del creditore della prestazione costituisce l'interfaccia. Non par dubbio infatti che il giudizio di pretestuosità della condotta dell'attore in risoluzione si risolve nel riconoscimento della scarsa importanza dell'inadempimento, avuto riguardo all'interesse dell'altra, a un interesse, cioè, che poteva essere preservato senza ricorrere al mezzo estremo dell'ablazione del vincolo”.
Coordinate, queste, rilevanti nei procedimenti per convalida di sfratto, come quelli esaminati nella parte narrativa delle sentenze citate, laddove il medesimo conduttore risulti a sua volta creditore del locatore in forza delle opere eseguite sull'immobile oggetto di locazione (ancorché non formalizzate nel contratto di locazione).
Precisamente: si tratta di una duplice rilevanza relativa sia al merito dell'opposizione avanzata dal conduttore (compensazione del credito relativo al canone di locazione), sia relativamente ai “gravi motivi” (richiesta abusiva di risoluzione del contratto) che precludono l'emissione dell'ordinanza provvisoria di rilascio di cui all'art. 665 c.p.c.
AVV. ALESSANDRO OLIVARI PH.D.
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