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Data: 26/06/2014 15:00:00 - Autore: Avv. Francesca Ledda Un operaio specializzato nel settore energetico e di istallazione impianti, al suo primo giorno di attività, aveva eseguito lavori di rifacimento di un impianto elettrico presso un locale di una società, posto in aderenza ad una cabina elettrica di proprietà dell'Enel, comunicante con essa attraverso una piccola finestra, sita all'altezza di mt. 2,50 dal pavimento e adeguatamente protetta da tondini di rame. Improvvisamente l'operaio, urtando accidentalmente un cavo portante di energia a media tensione, della potenza di 20.000 volts, veniva folgorato e, subito dopo, soccorso dai colleghi e trasportato presso il vicino ospedale. Purtroppo, dopo circa 40 giorni di degenza, le gravi ferite riportate ne provocavano il decesso. La vedova dell'operaio viene a scoprire che l'Enel – società distributrice dell'energia elettrica e proprietaria della cabina elettrica – non aveva adeguatamente protetto il cavo portante e, per questo, si era rivolta al suo avvocato di fiducia, per agire nei confronti dei responsabili della morte di suo marito. Cosa accade in tal caso?
Approfondimento: In merito vale la pena richiamare il contenuto di una sentenza della Corte di Cassazione III sezione civile, 18 luglio 2011, n. 15733 secondo cui il limite della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose risiede nell'intervento di un fattore esterno, il caso fortuito, idoneo a interrompere il nesso causale, ma l'eventuale condotta colposa del danneggiato può avere effetto liberatorio solo quando si configuri come unica causa dell'evento lesivo, rendendo giuridicamente irrilevante il fatto di chi esercita l'attività pericolosa; altrimenti concorre alla produzione del danno, inserendosi in una situazione di per sé pericolosa;
In ragione di quanto accaduto e, aderendo alla recente giurisprudenza di legittimità, l'Enel potrà rispondere ex art. 2050 c.c., non tanto nella qualità di datrice di lavoro, ma in quanto esercente attività pericolosa. Occorre premettere, ai fini di avvalorare questo mio assunto, una disamina della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose, disciplinata dall'art. 2050 codice civile. In realtà, tutte le attività umane contengono in sé un grado più o meno elevato di pericolosità, ma per delimitare i confini dell'applicabilità della norma di cui all'art. 2050 c.c. si devono prendere in considerazione solo quelle di per sé potenzialmente dannose in ragione della pericolosità ad esse connaturata ed insita nel loro esercizio, a prescindere dal fatto dell'uomo. Nell'interpretazione e nell'applicazione della norma in oggetto di discorso, il nodo centrale è costituito dalla definizione di attività pericolosa: a tal riguardo, con la espressione "attività pericolose" dottrina e giurisprudenza intendono, in modo piuttosto ampio, non solo quelle tipizzate e qualificate come pericolose dal Testo unico di Pubblica Sicurezza o da altre leggi speciali ma, più in generale, anche quelle che comportano la rilevante possibilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, la cui suddetta oggettiva pericolosità ha una potenzialità lesiva rilevabile attraverso dati statistici, elementi tecnici di comune esperienza, notevolmente superiori al normale. Dalle attività pericolose devono essere distinte quelle normalmente innocue, che possono invece diventare pericolose per la condotta di chi le esercita o organizza, per errori o colpe nell'uso dei mezzi adoperati, e che comportano un'eventuale responsabilità secondo la regola generale del neminem ledere di cui all'art. 2043 c.c.: in altre parole nel caso di una condotta pericolosa, si tratta di verificare il grado di diligenza o di perizia dell'operatore; diversamente, nel caso di attività pericolosa, dovrà aversi riguardo alla natura della medesima o al grado di efficienza dei mezzi utilizzati. Ovviamente la valutazione circa l'eventuale pericolosità di una determinata attività deve avvenire secondo una prognosi postuma, sulla base delle circostanze di fatto che si presentano al momento dell'esercizio dell'attività, nel senso che l'onere di allegare e provare gli elementi necessari a consentire il giudizio sulla pericolosità incombe su chi la invoca, non essendo sufficiente indicare il tipo di attività. La prova deve fornirsi, dunque, secondo una prognosi postuma ex ante, ossia sulla base delle circostanze di fatto conoscibili con la normale diligenza o che comunque dovevano essere note all'agente in considerazione del tipo di attività esercitata esistenti al momento dell'evento. Naturalmente, presupposto ineliminabile ed indefettibile è l'accertamento del nesso di causalità tra l'attività pericolosa e il danno subito; il nesso di causalità deve essere adeguato, ovvero è necessario che tra l'antecedente (esercizio dell'attività pericolosa) e le conseguenze (danno) vi sia un rapporto di sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica per cui l'evento appaia come una conseguenza normale dell'antecedente. La prova dell'esistenza del nesso di causalità è a carico del danneggiato, il quale deve dimostrare che l'esistenza tra una relazione diretta tra danno e rischio specifico dell'attività pericolosa o dei mezzi adoperati, poiché, diversamente il danno cagionato può essere riconosciuto solo in base alla regola generale del neminem ledere di cui all'art. 2043 c.c., sempre che ne ricorrano i presupposti di applicazione. Il nesso di causalità, naturalmente e sempre a condizione che il danneggiante ne dia la prova, potrebbe essere interrotto dal caso fortuito, consistente nella forza maggiore, nel fatto del terzo e nella colpa del danneggiato, tutti elementi che consentano di condurre all'elemento esterno il danno occorso anziché allo svolgimento dell'attività pericolosa. Sempre sotto l'aspetto probatorio, l'esercente dell'attività pericolosa ha l'onere di dimostrare, se vuole esentarsi dalla responsabilità civile, di aver predisposto tutte le misure idonee a prevenire il danno. Dunque, a colui che esercita attività pericolosa non sarà sufficiente fornire la prova negativa di non aver violato le norme di legge, bensì sarà necessaria fornire la prova positiva di aver cioè impiegato ogni cautela e misura atta ad evitare il danno. Quanto, poi, alla natura giuridica della responsabilità di cui all'art. 2050 c.c., la dottrina maggioritaria, unitamente alla giurisprudenza di legittimità, ha affermato la natura di responsabilità oggettiva per cui, allo stato, chi pone in essere un'attività pericolosa deve organizzarla preventivamente secondo le modalità idonee ad evitare che la pericolosità si traduca in danno e, nel caso in cui l'attività assuma la forma di impresa, il soggetto chiamato a rispondere sarà colui che ha il controllo dell'attività al momento del danno, sul solo presupposto della oggettiva mancanza delle misure protettive idonee, non essendogli sufficiente per ottenere l'esonero la prova di essere personalmente incolpevole. Premesso ciò, con riguardo al caso in esame, la problematica essenziale da affrontare consiste nel verificare chi, per i danni che hanno provocato la morte dell'operaio, sia responsabile e a che titolo. Nello specifico, è da accertare se l'incidente accaduto sia in qualche modo da ricollegarsi, in base ad un rapporto di causa – effetto, alla responsabilità della società distributrice della energia elettrica, proprietaria della cabina, oppure alla ditta committente dei lavori di rifacimento dell'impianto elettrico, affidati al lavoratore. Di recente, è intervenuta la Corte di Cassazione la quale ha statuito che “il limite della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose risiede nell'intervento di un fattore esterno, il caso fortuito, idoneo a interrompere il nesso causale, ma l'eventuale condotta colposa del danneggiato può avere effetto liberatorio solo quando si configuri come unica causa dell'evento lesivo, rendendo giuridicamente irrilevante il fatto di chi esercita l'attività pericolosa; altrimenti concorre alla produzione del danno, inserendosi in una situazione di per sé pericolosa” (Cass. Civ. sez. III, 18.07.2011, n. 15733). Alla luce di tale ultimo orientamento giurisprudenziale emerge chiaramente che il comportamento posto in essere dall'operaio non sia da considerarsi come assolutamente straordinario, anomalo ed imprevedibile, e che sia perfettamente collegato all'attività lavorativa da egli espletata. Infatti, ove anche vi sia stato un comportamento colposo e avventato del lavoratore, questo ben avrebbe potuto concorrere al verificarsi dell'incidente con eventuali mancanze di protezione alla cabina da parte dell'Enel, senza cioè connotarsi come causa esclusiva! La Suprema Corte regolatrice richiama il consolidato principio di diritto in base al quale, il limite della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose ex art. 2050 c.c. risiede nell'intervento di un fattore esterno, il caso fortuito. Ci può essere concorso colposo del danneggiato, ma permane la responsabilità di chi esercita attività pericolosa, se non ha adottato misure preventive adeguate, come nel caso di specie, nel quale l'Enel non ha disposto la chiusura di aperture alla cabina elettrica, quali appunto la finestrella, non adeguando così gli sbarramenti, volti a impedire l'accesso di estranei. Un eventuale comportamento colposo dell'operaio dovuto ad imprudenza, negligenza o imperizia, non andrebbe ad eliminare la responsabilità ex art. 2050 c.c. a carico dell'Enel, sulla quale incombe l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare le conseguenze dannose, non essendo sufficiente un semplice concorso di colpa del lavoratore per interrompere il nesso di causalità. Tuttavia, la condotta imprudente del lavoratore, non presentando i caratteri di un comportamento abnorme e conseguenza di un rischio elettivo, potrebbe invece rilevare come concausa della morte dello stesso e, in tal caso, la responsabilità del proprietario della cabina elettrica potrebbe essere proporzionalmente ridotta, ai sensi della norma di cui all'art. 1227 c.c. . Nel caso in questione, tuttavia, sussiste il nesso di causalità immediata e diretta tra la circostanza che la cabina elettrica fosse stata posta in opera dall'Enel senza la piena osservanza delle norme di sicurezza e i danni subiti dal lavoratore e tramutatisi in ferite mortali in seguito alla potente scarica elettrica, atteso che l'atteggiamento mostrato dal malcapitato, al suo primo giorno di lavoro, dimostra come egli non avrebbe superato eventuali cautele predisposte dall'ente erogatore dell'energia e legittimo proprietario della cabina. Ergo, e in conclusione, da un punto di vista strettamente processuale, la moglie potrà citare in giudizio, ex art. 163 c. p. c., l'Enel, al fine di ottenere, ai sensi dell'art. 2050 c.c., la condanna al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, con l'onere di provare l'esistenza del nesso di causalità tra l'attività pericolosa e l'evento morte. Tuttavia, l'Enel, in persona del Presidente p. t., costituendosi con comparsa di risposta, ex art. 167 c. p. c., potrebbe liberarsi dalla responsabilità presunta, deducendo che l'accaduto sia da attribuirsi esclusivamente alla condotta imprudente del lavoratore, dimostrando non solo di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l'evento (adeguata protezione dell'apertura della finestrella, in modo da impedire l'ingresso da parte di estranei; chiusura regolare della cabina con apposizione di cartelli vietanti l'ingresso a persone non autorizzate), ma anche di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge (disposizioni CEI 11-1 recepite nella L. 186/1968 e disposizioni di cui all'art. 340 del D. P. R. n. 547 del 1955, concernenti i sistemi di protezione delle aperture delle cabine elettriche, tali da impedire contatti con parti in tensione elettrica). Inoltre, la società distributrice dell'energia elettrica convenuta potrebbe sostenere, a tutela delle sue ragioni, un concorso di colpa della ditta proprietaria del locale (attiguo alla cabina in uso all'Enel) e committente dei lavori di rifacimento dell'impianto elettrico, affidati all'operaio. |
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