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Data: 29/07/2014 18:00:00 - Autore: Roberto Cataldi L'imprescindibile dialogo tra il giudice e le parti di Roberto Cataldi - C'è una regola processuale secondo cui il giudice non può anticipare in alcun modo il contenuto della sentenza. Pena il rischio di ricusazione. Si tratta di un principio comprensibile che va a vantaggio di tutte le parti. Ma quando si trasforma una dichiarazione di principio in un dogma assoluto si rischiano delle distorsioni, che possono generare effetti contrari rispetto a quelli che il legislatore ha cercato di stabilire. Una cosa dunque va chiarita in partenza: evitare di rendere dichiarazioni che anticipino l'esito finale del giudizio non significa che il giudice non debba intervenire in alcun modo nella discussione tra le parti, che non possa esprimere le sue perplessità, i suoi dubbi, e che non possa richiamare l'attenzione delle parti su aspetti che ritiene decisivi ai fini del decidere. Spesso accade che, durante la discussione, il giudice per non manifestare espressamente il suo convincimento - cosa vietata dalla legge - rimanga "muto" davanti agli avvocati e alle parti in causa, impassibile come la maschera di una tragedia greca. Un comportamento di questo tipo, tutt'altro che raro, può portare il giudice a compiere errori al momento della stesura della sentenza che avrebbe potuto evitare se soltanto avesse partecipato alla dialettica processuale esponendo i suoi dubbi e invitando gli avvocati a discuterne nel contraddittorio. Solo attraverso una partecipazione attiva alla discussione il giudice ha la possibilità di ridurre al minimo la possibilità di errore e di evitare provvedimenti a sorpresa che non giovano di certo all'accertamento della verità e alla giustizia. Il dialogo tra il giudice, gli avvocati e le parti dovrebbe perciò entrare a far parte della normale dialettica processuale, nel corso della quale ogni discussione dovrebbe liberarsi da schemi troppo rigidi e lontani dalle aspettative dei "non addetti ai lavori" che sono pur sempre i protagonisti principali del procedimento. Le tante trasmissioni televisive che trattano il tema della giustizia hanno il merito di far conoscere a un pubblico molto ampio le dinamiche che regolano il dibattimento in tribunale e le fasi che portano all'emanazione della sentenza. Oltre a programmi come Forum e ai suoi vari Sportelli e alla new entry Verdetto Finale - che uniscono fatti reali a una vera show fiction (intesa nel senso di totale finzione) - resiste ancora con ottimi risultati il vetusto e veritiero "Un Giorno in Pretura", nonostante l'età e nonostante la pretura sia rimasta solo nel titolo. Queste trasmissioni ci mostrano quanto il rapporto tra chi decide e gli altri protagonisti del processo possa funzionare bene, anche se a ben guardare la realtà è molto diversa. Nel processo reale il dialogo tra magistrati e avvocati talvolta risulta assente o incompleto. Resta una distanza tra chi decide e chi discute, un disaccordo paragonabile a quello che c'è tra le parti in causa. Disaccordo che può rivelarsi un ostacolo che impedisce o rallenta l'individuazione della soluzione del caso. Nella migliore delle ipotesi il giudice resta in silenzio ad ascoltare quello che dicono le parti o i loro difensori, raccogliendo le loro argomentazioni senza neppure fare domande che potrebbero permettergli un maggiore approfondimento di quanto sta ascoltando. Peggio ancora, in certi casi alcuni magistrati intervengono al solo scopo di invitare gli avvocati a essere più concisi. Cosa questa che potrebbe anche essere compresa se la discussione dovesse protrarsi per tempi ingiustificati, ma quando l'invito a stringere arriva dopo appena un minuto di discussione, allora sorge il dubbio che si voglia deliberatamente svilire il ruolo dell'avvocato e di vanificare il fine stesso della discussione. Certo, di tutto questo potremmo non preoccuparci affatto, dal momento che l'aspetto più importante dell'intero procedimento è la regolarità del processo che si sta celebrando, ma siamo sicuri che l'assenza di un dialogo aperto tra il giudice e i difensori delle parti in causa non possa influire sull'esito del giudizio? Un giudice che resta muto e non partecipa in modo attivo alla discussione non agevola il compito degli avvocati e tanto meno il corretto esito del processo. Alla fine a farne le spese finiscono per essere sempre le parti che, meno avvezze a frequentare palcoscenici di questo tipo e ignare dei meccanismi che regolano il dibattimento, devono mangiarsi il fegato rimanendo in silenzio o semplicemente starsene zitti a seguire passivamente lo show, come se fossero degli spettatori paganti seduti nella platea di un teatro. Alcuni formalismi tipici dell'universo giustizia appaiono ancora come una regola da cui non riusciamo a liberarci. Ma certe rigidità, se adottate ciecamente, portano solo ad aberrazioni. Continuando ad usare la metafora che si rifà al teatro, si potrebbe affermare che se nel grande palcoscenico del processo civile il giudice togliesse qualche volta la sua maschera di attore muto entrando nel vivo delle discussione e recitando appieno la sua parte, lo spettacolo che andrebbe in scena sarebbe caratterizzato da una maggiore armonia comunicativa tra gli attori, a tutto vantaggio del contraddittorio e della ricerca della verità e della giustizia. Mi viene in mente a questo punto il divertente film Mio Cugino Vincenzo, in cui un maldestro avvocato, al limite dell'irrispettoso, stravolge le regole del processo facendo breccia in un giudice fino ad allora "muto", riuscendo a scagionare due innocenti dall'accusa di omicidio. In fin dei conti anche la realtà processuale dovrebbe diventare un'occasione per calarsi nei panni della gente, mettendo da parte inutili formalismi. Un magistrato che voglia fare buon governo della sua alta funzione deve cercare di colmare maggiormente le distanze tra sé e le altre parti, giacché, come scriveva Libero Bovio, "Un giudice senza umanità è un giudice senza giustizia". Roberto Cataldi
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