Data: 27/07/2014 10:00:00 - Autore: Marina Crisafi

Apostrofata e minacciata in malo modo dal vicino di casa, la persona offesa rientra in casa per sottrarsi allo scontro. Nessun dubbio, quindi, per la Cassazione sul reato di ingiuria. Cade, invece, l'ipotesi del reato di minacce perché la scelta volontaria della persona offesa di rientrare nella propria abitazione non è frutto di timore o paura, ma desiderio di sottrarsi ad una situazione molesta.

È questa la decisione adottata dalla Cassazione, nella sentenza n. 29221 del 4 luglio 2014, in una vicenda inerente una delle classiche liti condominiali che aveva visto un uomo condannato dal giudice di pace di Cosenza alla pena pecuniaria in ordine ai reati di ingiuria e minacce a danno del vicino. Nello specifico, l'imputato era stato ritenuto responsabile di avere rivolto, per l'ennesima volta, alla persona offesa, sia pure dopo che la stessa si era allontanata dal pianerottolo di casa ma in presenza della moglie, l'espressione “scostumato di m…a”, tenendo altresì un comportamento minaccioso che aveva indotto il vicino offeso ad andare via.

Premettendo preliminarmente che “la configurazione del reato di minaccia non può prescindere dalla rappresentazione, ad opera dell'agente, di un male futuro ed ingiusto, la cui verificazione dipenda dalla sua volontà”, la Corte ha ritenuto che, nel caso di specie, tale evenienza non si fosse verificata. È vero, infatti, che l'imputato aveva proferito un'espressione verbale offensiva e volgare, ma non minacciosa nel senso specificato, e che dall'esame oggettivo dei fatti emergeva “la sola volontà – della persona offesa - di sottrarsi ad un comportamento dell'imputato di tipo molesto, ma pur tuttavia estraneo a qualsivoglia rappresentazione, anche soltanto gestuale, di un futuro male ingiusto dipendente dalla sua volontà”.

Quanto al reato di ingiuria, invece, la Corte ha considerato le censure dell'impugnante manifestamente infondate.

È principio pacifico in giurisprudenza, ha affermato, infatti, la S.C. che “può configurarsi l'ingiuria anche quando la vittima delle espressioni offensive non possa dirsi effettivamente presente”, ovvero quando, come nel caso di specie, “per distrazione o per rumori interferenti non sia riuscita a percepire l'esatta portata delle espressioni ad essa rivolte, ma ne sia stata immediatamente informata da altre persone presenti”. Risponde, inoltre, del reato “colui che si serva, per la comunicazione, di un intermediario – per quanto non concorrente – essendo sufficiente l'indubbia consapevolezza dell'agente che l'ingiuria sia comunicata all'offeso e che questi ne abbia effettiva comunicazione”.

Per questi motivi, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata per insussistenza del reato di minacce e rinviato al giudice di pace di Cosenza per la determinazione della pena in ordine al residuo reato di ingiuria.


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