Data: 27/07/2014 14:30:00 - Autore: Marina Crisafi

“L'allenatore di una disciplina sportiva è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell'art. 40 cod. pen., comma 2 a tutela della incolumità degli atleti, sia in forza del principio del "neminem laedere", sia, quando ci si trovi di fronte ad una attività da qualificarsi pericolosa, ai sensi dell'art. 2050 cod. civ.”.  

È il principio affermato dalla quarta sezione penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 31734 del 18 luglio 2014, chiamata ad intervenire in una vicenda riguardante l'allenatore tecnico della nazionale italiana di Tae Kwon Doper imputato del reato di cui all'art. 590 c.p. per aver omesso, con imprudenza, imperizia e negligenza, di far indossare ad un atleta, durante gli allenamenti, il caschetto di protezione, con la conseguenza che questi, scivolando, riportava gravissime lesioni fisiche con postumi permanenti.

Condannato in primo grado dal giudice di pace di Roma, in secondo grado il Tribunale capitolino dichiarava invece non doversi procedere in ordine al reato ascritto, poiché estinto per intervenuta prescrizione, disponendo a carico dell'imputato, in solido con la F.I.T.A., il pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva (oltre alla condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile da liquidarsi in separata sede davanti al giudice civile). Il coach e la F.I.T.A. ricorrevano per Cassazione chiedendo la sospensione dell'efficacia esecutiva della disposta provvisionale.

Per gli Ermellini, “posto che l'attività sportiva del "taekwondo"(benché non assimilabile alle discipline qualificabili come "sport estremi" ovvero all'automobilismo od al motociclismo od all'alpinismo) è comunque attività pericolosa, in ragione dei coessenziali rischi per l'incolumità fisica degli atleti, dalla stessa derivanti deve affermarsi che la posizione di garanzia di cui l'allenatore è investito implichi la sicura imposizione di porre in atto quanto è possibile per impedire il verificarsi di eventi lesivi per coloro che praticano detto sport”.

Né vale ad escludere la responsabilità del coach, il fatto che tali specifiche cautele non fossero espressamente contemplate dal regolamento federale “ove le condizioni in cui l'allenamento si svolgeva, aggravino i rischi per la salute e l'incolumità degli atleti”.

Condividendo, pertanto, le statuizioni della sentenza impugnata che ha correttamente evidenziato come la tipologia dell'allenamento in atto prevedeva un violento contatto fisico fra gli atleti (sia pure di minore intensità rispetto al combattimento vero e proprio) e pertanto riproduceva sostanzialmente lo stesso dinamismo che contraddistingue la gara, con conseguente necessità dell'adozione di quelle stesse misure precauzionali- caschetto, corazza ecc. - prescritte dal regolamento federale” nonché prendendo atto delle dichiarazioni dei testi (di accusa e difesa) che hanno deposto “nel senso che l'utilizzo del casco protettivo costituisce misura ordinariamente adottata nello svolgimento di allenamenti del genere di quello di cui trattasi”, la Corte ha pertanto rigettato ogni censura, annullando la sentenza limitatamente alla condanna dell'imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di appello con rinvio al giudice civile competente. 


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