Data: 08/08/2014 18:00:00 - Autore: Gerolamo Taras

di Gerolamo Taras - Con la sentenza n.  04143/2014 del 04/08/2014, il Consiglio di Stato è, ancora una volta, intervenuto sui limiti di applicabilità dell' art. 31 del codice del processo amministrativo, quello che disciplina l' azione contro il Silenzio dell' Amministrazione. La linea di demarcazione viene stabilita dalla differenziazione, fra interesse legittimo e diritto soggettivo, delle posizioni soggettive degli amministrati rilevanti per l' ordinamento giuridico. Che è poi il confine che separa  la giurisdizione del Giudice Amministrativo da quella del Giudice Ordinario.

“Perché sia consentito il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione è … essenziale che esso riguardi l'esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come interesse legittimo, con la conseguenza che il ricorso è inammissibile allorché la posizione giuridica azionata dal ricorrente consista in un diritto soggettivo”.

Il silenzio-rifiuto può infatti formarsi esclusivamente in ordine all'inerzia dell'Amministrazione su una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di diritti. ( Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2013 n. 1754).

Viene ulteriormente specificato che “nei giudizi sul silenzio dell'Amministrazione, il giudice amministrativo non può in linea di massima andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e l'ordine di provvedere; di conseguenza, gli resta in generale precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione stessa e esercitando una giurisdizione di merito di cui egli non è titolare in tale materia; peraltro, egli può sempre nell'ambito del giudizio sul silenzio conoscere dell'accoglibilità dell'istanza nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati per i quali non ci sia da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni, fermo restando il limite dell' impossibilità di sostituirsi all'Amministrazione; e - ancora -nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l'Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 13 dicembre 2013 n. 5994)”.


Naturalmente rimane fermo per l' Amministrazione l' obbligo di pronunciarsi, anche negativamente (art. 10 bis legge 241/90)  sulle istanze dei privati. Obbligo che rimane in qualche modo scollegato rispetto al sussistere delle condizioni (da verificarsi separatamente) del formarsi del silenzio rifiuto.

Infatti, il primo comma dell' art. 31 del c.p.a, 1° comma (Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge (1), chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere) è strettamente collegato all' art. 2 della l. n. 241/1990, che racchiude uno dei principi fondamentali dell'ordinamento in tema di azione amministrativa, e sancisce l'obbligo per l'amministrazione di concludere ogni procedimento che consegua obbligatoriamente ad un'istanza con provvedimento espresso entro un termine certo, che è quello generale fissato dal comma 3 di detto articolo o quello indicato da specifiche disposizioni.


Proseguono i Giudici “va opportunamente precisato che l'azione avverso il silenzio, di cui all'art. 31 c. proc. amm., è concettualmente scindibile in due domande: la prima, di natura dichiarativa, volta all'accertamento dell'obbligo, in capo all'amministrazione destinataria dell'istanza presentata dal titolare dell'interesse pretensivo, dell'obbligo di definire il procedimento nel termine prescritto dalla disciplina legislativa o regolamentare a sensi dell'art. 2 della L. 7 agosto 1990, n 241; l'altra, inquadrabile nel novero delle azioni di condanna, diretta ad ottenere una sentenza che imponga all'amministrazione inadempiente l'adozione di un provvedimento esplicito.

Le due domande, normalmente conosciute nell'ambito di un giudizio unitario in seno al quale l'attività di accertamento è strumentale alla pronuncia di condanna ad un facere di stampo pubblicistico, rivelano la loro autonomia nell'ipotesi in cui la sentenza di condanna non risulti più ammissibile o utile ma residui, a fini risarcitori, l'interesse ad una declaratoria che stigmatizzi l'illegittima inerzia amministrativa.

Secondo l' art. 34, co. III, cod. proc. amm.,  “quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori”.

Detta norma, pur se relativa all'azione di annullamento, esprime una regula iuris, che, riconnettendosi al principio generale di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e al corollario, che a tale premessa consegue, dell'ammissibilità di azioni di accertamento anche atipiche, non può che estendersi anche al giudizio avverso il silenzio. Ne deriva che il sopravvenire di un provvedimento di diniego non può ostare alla declaratoria dell'illegittimità procedurale dell'amministrazione laddove venga prospettata e sia astrattamente ravvisabile l'utilità di un tale decisum nella proiezione di un successivo giudizio risarcitorio…


Tutte le notizie