Data: 25/08/2014 15:30:00 - Autore: Licia Albertazzi

di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione civile, sezione terza, sentenza n. 16133 del 15 Luglio 2014. Può l'Università legittimamente pubblicare, sul proprio sito internet istituzionale, informazioni sui propri studenti e specializzandi inerenti dati personali, quali generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva? 

Per la Corte di Cassazione no. I giudici di merito avevano correttamente evidenziato che le esigenze di trasparenza dell'azione amministrativa sarebbero da contemperare con il diritto alla privacy dei singoli, e nel caso di specie "la divulgazione delle informazioni personali dei ricorrenti risultava sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento”, esponendo gli attori al rischio di furto d'identità.

Contro tale statuizione ricorreva l'Università contestando la decisione di merito sulla base di presunta violazione di legge: tali dati sarebbero infatti comunque raggiungibili mediante consultazione di pubblici registri, dunque, ai sensi dell'art. 24 del Codice privacy (d.lgs. 196/2003) non sarebbe in ogni caso necessario il previo consenso degli interessati. 

La Cassazione tuttavia respinge tale punto di ricorso esponendo il seguente principio di diritto: “i principi relativi alle modalità di trattamento e ai requisiti dei dati (…) hanno carattere generale, nel senso che trovano applicazione in riferimento a tutti i trattamenti, pubblici e privati, segnando i confini di liceità degli stessi, ove la stessa regolamentazione specifica di settore non ne limiti o conformi diversamente la portata”. La circostanza che per gli enti pubblici, in determinati casi (come in quello di specie), non sia necessario acquisire il consenso dell'interessato per il trattamento dei suoi dati, non esclude (…) che il trattamento debba comunque essere effettuato in modo lecito e corretto ai sensi del citato art. 11 e, dunque, nel rispetto degli anzidetti principi generali e, tra questi, di quello di proporzionalità o non eccedenza del trattamento rispetto alle finalità proprie. Il bilanciamento tra diverse esigenze – quella del privato alla privacy e quella della pubblica amministrazione alla trasparenza della propria azione – è effettuato dal giudice del merito che, nell'individuare e nel motivare i criteri adottati (circostanza verificatasi nel caso di specie) decide in merito alla proporzionalità dell'intervento. 

La sentenza in commento offre anche un altro interessante spunto di riflessione in merito alla differenza tra “gravità” e “serietà” del danno; questo punto di ricorso, al contrario del precedente, è stato accolto dalla Corte. Per essere risarcibile il danno da violazione della privacy deve infatti superare la c.d. “soglia di risarcibilità”; il danno risarcibile infatti “non si identifica con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione”. Dopo un compiuto excursus interpretativo riguardante gli articoli 2043 e 2059 codice civile, la Suprema corte definisce la gravità della lesione, la quale “attiene al momento determinativo dell'evento dannoso, quale conseguenza pregiudizievole sul diritto/interesse selezionato come meritevole di tutela aquiliana, e la sua portata è destinata a riflettersi sull'ingiustizia del danno, che non potrà più predicarsi tale in presenza di una minima offensività della lesione stessa”. E' dunque risarcibile il danno non tanto per il comportamento antigiuridico che lo ha cagionato quanto per le conseguenze obiettive, non lievi né futili, che lo stesso è idoneo a provocare. La serietà del danno “riguarda invece il piano delle conseguenze della lesione e cioè l'area dell'obbligazione risarcitoria, che si appunta sulla effettività della perdita subita; il pregiudizio non serio esclude che vi sia una perdita di utilità derivante da una lesione che pur abbia superato la soglia di offensività”. L'accertamento sia di gravità che di serietà del danno spetta al giudice del merito, “in forza del parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico e, se correttamente motivato, non può essere sindacato in sede di legittimità. Tali parametri, conclude la Corte, sono necessari per evitare il proliferare delle “liti bagatellari”.  


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