Data: 30/08/2014 09:40:00 - Autore: Dott. Zulay Manganaro

Cassazione Sezioni Unite sentenza n. 15295 del 4 luglio 2014

Dott.ssa Zulay Manganaro

Morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di difensore – omessa dichiarazione – notificazione della sentenza e dell'impugnazione al procuratore.

Catalogata tra gli eventi anomali del processo e disciplinata dagli artt. 299-305 cpc, l'interruzione – in sé considerata - non è fenomeno molto diverso dalla sospensione.  Esso consiste in un arresto; comporta una stasi del processo, del suo naturale proseguimento, a causa del verificarsi di un ben determinato evento. Basti pensare al fatto che l'art. 304 cpc, rubricato “Effetti dell'interruzione”, richiama la norma di cui all'art. 298 cpc che a sua volta disciplina gli effetti della sospensione affermando che quest'ultima trova applicazione in caso di interruzione del processo. Gli effetti pur essendo analoghi non sono esattamente gli stessi.

Rispetto alla sospensione, diverse sono le cause che all'interruzione possono dar luogo poiché differente è la natura dei due istituti. In effetti, ciò che determina sospensione è un avvenimento che travolge la funzione decisoria del giudice. L'interruzione, invece, determina modifica della situazione di una delle parti. Altre differenze rilevano anche a livello di disciplina. Mentre l'interruzione può originarsi anche automaticamente al verificarsi degli eventi di cui agli articoli 299 e 301 cpc , la sospensione necessita di un provvedimento del giudice avente natura costitutiva per l'arresto dell'iter processuale.

Un'ulteriore differenza riguarda la durata della fase di quiescenza. Se nella sospensione, disposta in attesa della conclusione di un altro giudizio,  la stasi non può essere predeterminata, nell'interruzione – secondo quanto ordinato con la legge n. 69 del 2009 – essa non può essere superiore a tre mesi (prima della legge di razionalizzazione del processo civile era di sei mesi) come dispone l'art. 305 cpc.

Vagliate queste prime differenze, si finisce con il considerare meramente descrittiva quell'unica e ampia nozione che, in passato, si è cercato di ricostruire ad opera della dottrina e nella quale collocare entrambi gli istituti (Carnelutti parla, ad esempio, di “crisi del processo” in Istituzioni II, Roma, Società Editrice del Foro Italiano, 1942).

 

Funzione peculiare dell'interruzione è quella di evitare che gli eventi che a essa danno origine, quali la morte o la perdita di capacità di una parte, compromettano e alterino l'effettività del contradditorio in ogni fase del giudizio di merito. Si ritiene, a quest'ultimo proposito, con esclusione del giudizio di cassazione a presidio del quale vige l'impulso d'ufficio. E meglio, se – tradizionalmente – la giurisprudenza, in virtù di tale impulso, ritiene inammissibile l'interruzione nel giudizio di cassazione, è vero che anche in seno a tale grado vi sono attività di parte molto importanti. Tale è, ad esempio, il deposito del ricorso delle memorie  ai sensi dell'art. 378 c.p.c. all'udienza di discussione, da compiersi dal difensore a seguito di notificazione del ricorso. Pertanto, i giudici di cassazione si sono organizzati all'atto pratico, ritenendo possibile un rinvio dell'udienza in caso di morte dell'unico difensore di una delle parti, nel lasso che intercorre tra il deposito del ricorso e l'udienza di discussione, la quale sia attestata da relata di notifica dell'avviso di udienza. La parte è così posta in condizione di nominare un nuovo difensore.

Si è detto, dunque, che l'interruzione fa in modo che determinati eventi non impediscano a una delle parti di agire nel processo a proprio vantaggio e svolgere il proprio impianto difensivo  in nome dell'uguaglianza formale della posizione delle parti che dà fondamento al principio del contraddittorio e trova accoglimento nell'art. 24 Cost., il quale garantisce al c. 2 la tutela dei propri interessi.

Proprio per scongiurare tale situazione, si prevede che il processo si paralizzi per un periodo massimo di tre mesi, nell'attesa che riprenda il suo percorso per iniziativa di una delle parti, a pena di estinzione qualora il contraddittorio non venga nuovamente e regolarmente instaurato.

Per ciò che concerne la funzione dell'istituto, nello scritto di F. CIPRIANI,  Ancora sull'interruzione del processo civile in Foro it. 2008,I, 876, Cassazione, sezioni unite civili, sentenza  5 luglio 2007, n. 15142,  se per un verso si considera chiuso il discorso sulla ammissibilità dell'interruzione parziale tanto quanto può accadere con sospensione ed estinzione, per altro si mette in evidenza come Corte Cost. 5 febbraio 1999, n. 18, dichiari che  l'istituto dell'interruzione è finalizzato esclusivamente a proteggere la parte colpita dall'evento.

Secondo un'enumerazione considerata tassativa, gli eventi interruttivi di cui all'art. 299 cpc sono la morte della persona nonché gli eventi ad essa equiparabili. L'estinzione della persona giuridica, la morte presunta o la scomparsa della persona fisica. Proprio l'evento morte è causa di subingresso del successore nei rapporti processuali del defunto. Come è noto, il codice evita un ingresso automatico del successore nel processo perché ciò gli arrecherebbe pregiudizio.

Il pregiudizio si concreta nella cessazione dell'effettività del contraddittorio e il rimedio apprestato è, appunto, quello dell'interruzione del processo e degli atti con cui il successore assume – volontariamente o meno – il contraddittorio.

Le altre cause idonee a determinare interruzione del processo sono la perdita della capacità processuale della parte e, quindi, della legittimazione processuale a causa di interdizione, inabilitazione, dichiarazione d'assenza e della dichiarazione di fallimento, in merito alla quale particolare rilievo ha, per la materia in oggetto, l'art. 43 LF.

Ancora: morte o perdita della capacità del rappresentante legale della parte. Vale a dire cessazione della rappresentanza legale (ma non del rappresentante volontario, poiché pur estinguendosi il mandato, non si ha interruzione del processo che può proseguire nei confronti del rappresentato; altrettanto può dirsi in materia di rappresentanza organica) che coincide con la perdita della legittimazione processuale del rappresentante legale. Questo accade, ad esempio, perché il minore diventa maggiorenne , perché viene revocata l'interdizione, o la procedura fallimentare viene chiusa. Si rileva dal testo dell'art. 299 che il riferimento alla cessazione di “tale rappresentanza”, riguardo alla rappresentanza legale, esclude in effetti che sia causa di interruzione del processo la cessazione della rappresentanza volontaria, come detto poc'anzi e che discorso analogo vada fatto per la rappresentanza organica, salvo il caso di trasformazione dell'ente.

Un'altra serie di eventi interruttivi è poi contemplata dall'art. 301. Essi si riferiscono al difensore di parte (la norma si esprime ancora menzionando il procuratore).  Il primo comma dell'art. 301, dispone che il processo è interrotto, se la parte è costituita a mezzo procuratore, dal giorno della morte, radiazione o sospensione del procuratore stesso. Tali eventi comportano interruzione automatica del processo dal giorno in cui l'evento interruttivo si è verificato. Ciò determina nullità di tutti gli atti che, eventualmente, vengano posti in essere sia che le altre parti e il giudice ne abbiano avuto conoscenza, sia in caso contrario.  E' possibile evitare l'interruzione se la parte il cui difensore è stato travolto dall'evento, nella prima difesa utile successiva all'evento medesimo, sostituisca il difensore deceduto, sospeso o radiato con altro munito di procura specifica. L'ultimo comma dell'art. 301 decreta che non sono cause d'interruzione la revoca della procura o la rinuncia ad essa. La ratio della disposizione è chiara: essendo questi  fatti riconducibili alla volontà delle parti o del difensore non sono considerati come eventi interruttivi per evitare che si trasformino in strumenti dilatori del procedimento. Il processo, anzi, prosegue regolarmente nei confronti della controparte e la procura conferita originariamente si considera valida fino alla sostituzione del difensore. Di conseguenza, sino a quando detta sostituzione non interviene, le notificazioni possono ancora essere fatte al procuratore originario. Relativamente alla cancellazione volontaria dall'albo, gli autori sono divisi. Alcuni sostengono che questa – neppure prevista dall'art. 301 – non determini interruzione del processo. Orientamento sostenuto a lungo anche da Cassazione, tranne in poche pronunce difformi. Così anche FINOCCHIARO in Interruzione del processo civile, in Enc. Dir. XXII, Milano, 1972. Tuttavia, secondo una posizione più recente, è stata sorretta un'interpretazione estensiva e analogica della norma in esame, tanto da includere tra gli eventi interruttivi, pure la cancellazione volontaria dall'albo (in questo senso ANDOLINA-VIGNERA, Il modello costituzionale del processo civile italiano, Torino, 1990); tra le pronunce della Cassazione: 5 ottobre 2001 n. 12294). La ragione per la quale gli eventi elencati dall'art. 301 cpc cagionano interruzione del processo è dovuta al fatto che è tramite il proprio difensore che la parte compie gli atti processuali. Sarà, pertanto, suo onere provvedere alla nomina di altro difensore.

Se il procuratore non esercita il potere di interrompere il processo  - e potrà farlo previa consultazione dei successori della parte - il suo comportamento non invalida, comunque, la sentenza resa nei confronti della parte originaria. E rileverà, eventualmente, la sua responsabilità civile nei loro confronti qualora essi soccombano e magari a loro insaputa. Alcuni autori (ad es. PUNZI ne “L'interruzione del processo” Milano 1963) ritengono, in effetti, che il difensore non sia gravato dal dovere di effettuare la dichiarazione ma usufruisca di un potere discrezionale al quale sono legate le relative responsabilità, mentre la parte non è legittimata a dolersi della mancata interruzione (in questo senso, Cassazione 6 giugno 1980, n. 3664). La dichiarazione è definita dalla Cassazione indispensabile e insostituibile e si considera abbia natura negoziale.  Ciò comporta che se fatta solo a titolo informativo, in via occasionale, resta inefficace; volendo chiarire – secondo alcuni autori – che col termine “negoziale”, Cassazione vuole verosimilmente  escludere che la dichiarazione abbia contenuto solo informativo o addirittura dubbioso o ancora insufficiente qualora consistente solo nella semplice allegazione di un documento che attesti un evento potenzialmente interruttivo.

Il quarto comma dell'art. 300 cpc, contempla l'interruzione del processo laddove l'evento colpisca il contumace. Il processo è interrotto dal momento in cui l'episodio è documentato o notificato alla controparte o ancora certificato dall'ufficiale giudiziario "nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti di cui all'articolo 292" ,norma che rappresenta esplicazione del principio del contraddittorio, disponendo che non si può escludere il contumace da determinate vicende del giudizio le quali a sua conoscenza devono essere portate. Questo è lo scopo perseguito da detta norma che prevede la notifica di alcuni importanti atti processuali tempestivamente e personalmente al contumace.

Se con sentenza 7 luglio 2008, n. 1865, Cassazione ha statuito che l'impugnazione deve essere notificata al nuovo soggetto realmente legittimato “ma solo nel caso di conoscenza o conoscibilità dell'evento da parte dell'impugnante”, è importante non trascurare il seguente aspetto: la conoscenza della morte o della perdita della capacità tramite notificazione o comunque una comunicazione ufficiale impedisce sì l'interruzione ma è in ogni caso rilevante ai fini della determinazione della legittimazione attiva e passiva alla notificazione della sentenza e all'atto di gravame. In diverse sentenze, pertanto, Cassazione ha riconosciuto inammissibile l'impugnazione contro la parte defunta ad opera della parte ufficialmente significata del decesso (Cass. 16 aprile 2003 n. 6045; 19 settembre 2003 n. 13864; 9 agosto 1997, n. 7441).

Un ulteriore importante rilievo è costituito dalla delimitazione dell'ambito processuale entro il quale il difensore può esercitare il potere di dichiarare l'evento interruttivo. Cassazione è solita affermare che se detto evento verificatosi nel primo grado di giudizio non è dichiarato o fatto valere nei modi di legge, inclusa la relazione di notifica della sentenza, il processo di appello si svolge regolarmente avverso la parte defunta, processualmente considerata ancora esistente (Cass. 5 marzo 1996, n. 1701; 24 gennaio 1995, n. 791) operando la regola dell'ultrattività del mandato anche nelle seguenti fasi di quiescenza, riassunzione e impugnazione, a condizione che l'evento sia stato ignorato senza colpa e la procura preveda anche il giudizio di impugnazione (in questo senso Cassazione 14 ottobre 2003, n. 15323). Perciò, è stato considerato legittimato il difensore della parte defunta a dichiarare il decesso avvenuto nel corso del primo grado, nel giudizio di appello e legittimato a riassumere la causa a seguito di altro evento interruttivo (Cass. 15 gennaio 1991, n. 318); altresì legittimato a ricevere notificazione dell'atto di appello (Cass. 21 febbraio 1984, n. 1228 e 1229; 12 febbraio 1992, n. 123; 13 aprile 1994, n. 3427) nonché a proporre ricorso per cassazione (sentenza 22 novembre 1991, n. 12545).   

Dunque, il problema di fondo che ha diviso la giurisprudenza riguarda l'individuazione delle parti legittimate al giudizio di impugnazione laddove l'evento interruttivo non sia stato dichiarato nel corso del giudizio di primo grado. A determinare il problema è il fatto che se l'evento interruttivo non è stato dichiarato in primo grado e la controparte non ne è neppure venuta a conoscenza, pare eccessivo onerarla di impugnare contro il successore della parte defunta dovendosi considerare valida la notifica dell'impugnazione fatta al difensore di quest'ultima.

Ora, secondo un primo orientamento, se nel precedente grado di giudizio è mancata la dichiarazione o la notificazione dell'evento interruttivo da parte del difensore costituito, l'impugnazione è validamente proponibile anche nei confronti del soggetto defunto  o che abbia perduto la capacità di stare in giudizio. In questo senso si è espressa Cassazione con la sentenza n. 1268 del gennaio 2003, in tema di rappresentanza processuale del minore da parte del genitore o del tutore, la quale non cessa automaticamente al raggiungimento della maggiore età, considerandosi necessario rendere noto alle altre parti l'acquisizione della capacità processuale da parte del minore tramite dichiarazione o notifica proveniente proprio dal difensore della parte divenuta capace, con la conseguenza che - ove la dichiarazione risulti mancante - è comunque considerata valida la notificazione dell'impugnazione inoltrata al rappresentante pur essendo la circostanza desumibile dagli atti. Vi è per converso, l'opinione per cui in forza della regola dell'ultrattività della rappresentanza che opera solo nell'ambito della medesima fase processuale - stante l'autonomia dei singoli gradi di giudizio -  è inammissibile l'impugnazione proposta contro il rappresentante qualora  il minore sia divenuto maggiorenne nel precedente grado di giudizio. In questo senso, Cassazione 30 gennaio 2002 n. 1206. In precedenza, Cassazione 15 settembre 1998 n. 9175 secondo la quale è sanabile la nullità della notificazione al tutore se il minore che abbia raggiunto la maggiore età si costituisca. Questa risulta essere oggi la tesi prevalente, la quale, appunto, ammette che la costituzione in giudizio del minore operi in qualità di sanatoria, garantendo contemporaneamente il diritto dell'interessato a conoscere dell'instaurazione del giudizio a suo carico.

La contrapposta tesi sostenuta dalla Sezioni Unite e oggi maggioritaria, viceversa, ritiene che  l'impugnazione debba tenere conto dei soggetti legittimati in relazione alla situazione esistente al momento della proposizione dell'impugnazione e meglio: la mancata dichiarazione o notificazione dell'evento interruttivo dal difensore costituito nel precedente grado di giudizio, rende invalida l'impugnazione proposta contro il soggetto deceduto o che abbia perso la capacità processuale.   Sostanzialmente, il vizio che inficia l'impugnazione si traspone in un'errata individuazione della parte, ex art. 164 prima parte cpc, generando una nullità sanabile   ai sensi dei comma 1 e 3 del medesimo art. 164 cpc. La giurisprudenza dominante ritiene valida una simile impugnazione in caso di errore incolpevole e, di conseguenza, scusabile, qualora l'evento interruttivo non fosse conoscibile dall'impugnante secondo l'ordinaria diligenza.

Le Sezioni Unite sono, di recente, sono tornate a pronunciarsi sull'argomento.

La vicenda, sinteticamente, prende le mosse dalla morte della parte costituita in appello a mezzo di procuratore, avvenuta prima dell'udienza di discussione e risultante vittoriosa nel medesimo grado. Conseguentemente, il decesso non viene dichiarato in udienza e neppure notificato alla controparte che propone ricorso per cassazione contro la parte deceduta, notificando il ricorso stesso a colui che era stato difensore della parte venuta a mancare, prima della scadenza del termine lungo per impugnare, non essendo stata notificata la sentenza d'appello. La Seconda Sezione civile, assegnataria del ricorso, deve preliminarmente determinare se sussiste vizio della vocatio in ius che infici il ricorso indirizzato a una parte oramai defunta ovvero se tale vizio possa essere sanato dalla costituzione degli eredi della medesima parte venuta meno. All'esito della  trattazione del ricorso, la Sezione interessata emette ordinanza interlocutoria  30 aprile 2013, n. 10216, con la quale ritiene fondato il vizio della vocatio in ius poiché il ricorso è indirizzato a una parte defunta. Nell'ordinanza, si rileva come fosse principio consolidato che la costituzione degli eredi avesse effetto sanante ex nunc , dalla notifica del controricorso se effettuata ai sensi dell'art. 164 cpc prima delle modifiche a questo apportate dalla legge 353/1990 e sempre nel rispetto del termine lungo decorrente dalla pubblicazione della sentenza. Oppure, con sanatoria avente effetto ex tunc se la costituzione avvenisse dalla notifica del ricorso, per le cause soggette al nuovo rito.

Tuttavia, la Sezione, osserva che vi è un precedente in tema di sanatoria, che sembra rimettere in discussione la soluzione summenzionata. Si tratta della statuizione delle Sezioni Unite 13 marzo 2013, n. 6070, in materia di estinzione di società a seguito di cancellazione, nella fattispecie in cui sopravvivano o sopraggiungano entità patrimoniali estranee alla procedura di liquidazione. Con questa sentenza, le SS.UU. affermano che l'evocazione in giudizio di quella che non sia la “giusta parte” non comporta nullità della vocatio in ius con conseguente possibilità di sanatoria attraverso la costituzione in giudizio della parte pretermessa, bensì inammissibilità del ricorso stesso rilevabile anche d'ufficio. Due rilievi in merito, nell'ordinanza interlocutoria: la sentenza n. 6070/2013 sembra implicitamente presumere che il vizio, nella fattispecie contemplata, consista nella radicale inesistenza della vocatio in ius, così da rendere inapplicabile la sanatoria ex art. 164 cpc. Conseguentemente, il ricorso che da questo vizio sia affetto sarà ad ogni modo inammissibile. In secondo luogo, la sentenza richiamata non restringe il campo d'applicazione della regula iuris formulata, apparendo quale regola generale che possa estendersi anche ai casi di successione delle persone fisiche nel processo. Ciò perché la sentenza richiama ed elude precedenti pronunce riguardanti citazioni di parti defunte con successiva costituzione degli eredi.

Ecco perché la Seconda Sezione, ritenendo che la sentenza n. 6070/2013 sulla non applicabilità della sanatoria “non abbia formato oggetto di intervento regolatore di conflitti”, chiede un nuovo e ulteriore intervento delle Sezioni Unite, al fine di sollecitare  e ottenere conferma della soluzione adottata dalle sezioni semplici, circa la sussistenza del vizio di nullità e relativa sanabilità.      La Sezione si sofferma sul fatto che specificamente a tale soluzione si dovrebbe approdare dal momento che pur ricostruendo dall'inesistenza della vocatio, e perciò dalla sua totale mancanza (ipotesi difficile da profilarsi “stante la continuazione della personalità del defunto in quella dell'erede”), non si potrebbe negare rilevanza alla costituzione della giusta parte, poiché questa, ossequiando il principio del giusto processo, permetterebbe di partecipare al processo a tutti coloro che ne avevano diritto. Alla luce di queste ragioni, la Seconda Sezione chiede un ulteriore intervento chiarificatore delle Sezioni Unite per risolvere il conflitto interpretativo ovvero pronunciare un principio di diritto sulla questione di particolare importanza; un intervento che precisi se i principi affermati con la sentenza n. 6070/2013 in  materia societaria, e volti a escludere drasticamente  l'ammissibilità dell'impugnazione, siano estensibili anche alle persone fisiche, ipotesi che suscita profonda incertezza, soprattutto nelle fattispecie in cui l'impugnazione sia mal destinata, concorra una mancata dichiarazione dell'evento interruttivo nel giudizio a quo, sia seguita instaurazione del contraddittorio con gli eredi della parte defunta dovuta a costituzione degli stessi, laddove l'impugnante – non essendo ancora decorso il termine per rinnovare il gravame, non vi abbia provveduto - confidi nella giurisprudenza di legittimità predominante, che riconosceva intervenuta la sanatoria in tale costituzione tempestiva. Il quesito posto, in realtà, riguarda sì un aspetto delle conseguenze processuali derivanti dal verificarsi di uno degli eventi elencati nell'art. 299 cpc, ma investe alquanto “un autonomo sottosistema”, nel quadro dell'ampio sistema processuale; ci spinge a tener conto del tema dell'individuazione della giusta parte, corollario del principio del giusto processo. I casi profilati ai quali si ritiene l'indagine vada estesa sono i seguenti:

  • Notificazione dell'impugnazione al defunto o divenuto incapace  presso il suo difensore, nel grado precedente;
  • Notificazione della sentenza al difensore della parte defunta o divenuta incapace , al fine del decorso del termine breve per l'impugnazione;
  • Proposizione dell'impugnazione da parte del difensore del defunto o divenuto incapace.

Premessa fondamentale è che l'argomento rappresenta un caso di “pendolarismo giurisprudenziale”. Dagli anni '40 a oggi, gli approdi raggiunti e apparentemente definitivi sono stati frequenti, sia da parte delle sezioni semplici che Unite.  Il discorso si è dipanato  attraverso troppe eccezioni, condizioni e ripensamenti che hanno reso incerta la materia. A tal punto che l'ordinanza ravvisa come lo stesso impugnante facesse affidamento sull'orientamento giurisprudenziale che la sanatoria del vizio della vocatio in ius ammetteva.   All'indeterminatezza giurisprudenziale si affianca mancanza di precisi indirizzi dottrinari e – si rileva – assenza di uno studio che “ricostruisca in maniera organica e complessa” la materia in oggetto.

Prendendo in considerazione la complessa struttura dell'istituto, dunque, si può tentare di schematizzarne la disciplina.

Secondo l'art. 299 cpc, si verifica interruzione in caso di morte delle persone fisiche o eventi a questa assimilati come la dichiarazione di morte presunta ai sensi dell'art. 58 c.c.. Si vuole assicurare il diritto di difesa dei successori universali che ne prenderanno il posto in forza dell'art. 110 c.p.c.  Lo stesso accade nell'ipotesi di interdizione della parte, inabilitazione, scomparsa e dichiarazione di assenza. Non rilevano, invece, l'ammissione all'amministrazione di sostegno (404 ss c.c.) - che non è considerata sintomo di incapacità legale di agire - e l'incapacità naturale a meno che non venga dichiarata interdizione o inabilitazione, raggiungimento della maggiore età da parte del minore e la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 43 LF. A questo punto, si pone una fondamentale ripartizione. Se tali eventi interruttivi che riguardano la parte accadono prima della sua costituzione in giudizio – la norma, ovviamente, prende in considerazione quel lasso temporale che intercorre tra la proposizione della domanda e la costituzione in giudizio – l'interruzione del processo avviene automaticamente, ipso iure.  In tali casi, un eventuale provvedimento del giudice che pronunci proprio l'interruzione, ha soltanto natura dichiarativa. La norma esamina solo il segmento che intercorre tra il principio della pendenza del processo e la costituzione in giudizio, poiché  proporre una domanda contro una parte già defunta condurrebbe a un processo invalido e se mai il procedimento dovesse concludersi, la sentenza sarebbe inesistente. Diversa, invece, l'ipotesi in cui il processo venisse instaurato contro un incapace, giacché, in tal caso, potrebbe intervenire la sanatoria dell'art. 182 cpc come modificato dalla legge n. 69/2009.

Laddove, vi sia costituzione volontaria dei soggetti ai quali spetta proseguire il processo o l'altra parte provveda a citarli in riassunzione, rispettando i termini di cui all'articolo 163 bis, il processo non è interrotto.

Invece, l'art. 300 cpc, dispone che se i fatti interruttivi colpiscono la parte "che si è costituita a mezzo di procuratore", l'interruzione è subordinata a una dichiarazione del difensore in udienza o notificata alle altre parti. Il limite temporale entro il quale gli eventi hanno efficacia istantaneamente interruttiva, nel periodo successivo alla costituzione è “tutta l'udienza di precisazione delle conclusioni”.  Il processo si interrompe allora dalla dichiarazione o dalla notifica , salvo che - ancora una volta - non vi sia costituzione volontaria o riassunzione  ai sensi dell'art. 299 cpc. In assenza di dichiarazione o notifica, il processo prosegue esattamente  come se la parte non fosse defunta. Nei casi in cui la legge lo consente, ove la parte si sia costituita personalmente, il processo è interrotto dal momento dell'evento.

Se gli eventi di cui all'art. 299 cpc avvengono dopo la chiusura dell'udienza di discussione, invece, determinano soltanto effetto interruttivo del processo alla riapertura dell'istruzione; interruzione del termine breve ai fini dell'impugnazione se l'evento sopraggiunge durante il suo decorso; effetto proroga del termine lungo di impugnazione, se l'evento si verifica dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza ; facoltà di notificare la sentenza agli eredi anche collettivamente e impersonalmente nell'ultimo domicilio del de cuius.

Dal momento che – ormai – l'udienza di discussione è, dopo la novella del 1990, piuttosto infrequente, se l'istanza di discussione orale non è stata presentata, il termine di cui all'art. 300 cpc, c. 5, coincide con quello per il deposito delle memorie di replica (come disposto dagli articoli 190 e 281 quinquies cpc). Se l'istanza di discussione è inoltrata, l'inciso contenuto in detto comma “davanti al collegio” è da considerare tacitamente abrogato , posto che il lasso temporale è lo stesso, sia nel caso in cui la causa debba essere decisa dal giudice unico che dal collegio. Qualora l'evento si verifichi dopo la proposizione dell'appello, trova applicazione la disciplina prevista per il primo grado di giudizio.   Come già accennato, la funzione attribuita all'istituto, già da tempo, all'istituto è garantire l'effettività del contraddittorio, principio esplicitamente elevato a rango costituzionale dall'art. 24 Cost. e l'interruzione assume il ruolo, “nel suo aspetto morfologico” di “vicenda processuale di tutela predisposta in favore della parte colpita dall'evento”, come del resto aveva anche dichiarato la Consulta nella celebre ordinanza n. 18 del 1999.

L'interruzione viene meno col compimento di quell'attività che la legge ritiene necessaria a ripristinare la piena effettività del contraddittorio. Si conclude che manchi una specifica previsione legislativa volta a disciplinare le tre ipotesi in precedenza elencate.

Ora, in merito agli effetti prodotti dagli eventi di cui all'art. 299 cpc, analizzati dalla giurisprudenza di legittimità e premettendo la lunga precarietà giurisprudenziale, le Sezioni Unite ritengono che occorra far riferimento a delle pronunce fondamentali, quali le sentenze del 21 febbraio 1984, nn. 1228, 1229 e 1230 e 19 dicembre 1996, n. 11394.

Con la sentenza n. 1228/1984, Cassazione statuisce che è solo l'art. 300 cpc a disciplinare gli effetti della morte o della perdita della capacità di della parte costituita avvenute nel corso del giudizio di merito, prima della chiusura della discussione, “senza possibilità di interferenze o integrazioni dei principi che regolano gli effetti derivanti dallo stesso evento, verificatosi in momenti diversi del rapporto processuale”.

Raffrontando le tre sentenze del 1984, se ne può sinteticamente ricavare il principio dell'ultrattività del mandato in forza del quale: se l'unico difensore legittimato della parte colpita dall'evento interruttivo ometta di dichiarare in udienza o notificare alle altre parti tale evento, rimane comunque “stabilizzata” la posizione della parte processuale da lui rappresentata, tanto nei confronti delle altre parti che rispetto al giudice, come persona ancora esistente o ancora capace. Correlativamente, opera l'ultrattività del mandato alla lite anche nelle successive fasi di giudizio, per cui il procuratore è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte che va considerata processualmente ancora in vita o capace, pur se deceduta o divenuta capace. E ancor più precisamente: in mancanza di dichiarazione o notifica dell'evento interruttivo che colpisca la parte costituita, prima della chiusura della discussione, si deve ritenere valido l'atto di impugnazione notificato presso il difensore costituito nel precedente grado del procedimento di merito ai sensi dell'art. 330 cpc, indipendentemente dall'eventuale conoscenza che il notificante abbia avuto dell'evento interruttivo da cui sia stato colpito il destinatario dell'atto. Questo è stato l'indirizzo seguito in maniera predominante dalle sezioni semplici della Cassazione. Il principio che si ricava dalla pronuncia di queste tre sentenze è, quindi, sostanzialmente il principio dell'ultrattività del mandato in forza del quale “è valida la notificazione della sentenza fatta al procuratore della parte deceduta a norma delll'art. 285 cpc; il procuratore stesso (al quale sia stata originariamente conferita procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo) è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte che pur deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell'ambito del processo, ancora in vita o capace; è ammissibile l'atto di impugnazione notificato, ai sensi del 1° comma dell'art. 330 cpc, presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto aliunde conoscenza dell'evento”.  

Cassazione Sezioni Unite n. 11394/1996 si pronuncia nuovamente sull'argomento aggiungendo un tassello a quello che è stato definito un “puzzle processuale”. Nel caso di specie, Cassazione si è occupata dell'evento verificatosi a seguito di pubblicazione della sentenza per giungere alla seguente conclusione: la notificazione della sentenza  ad opera del difensore della parte deceduta è viziata da nullità e non è, di conseguenza, idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, se il difensore stesso non chiarisce che la notificazione è fatta a nome degli eredi e non fornisce indicazioni che consentano alla controparte, proposizione dell'impugnazione contro tali eredi. Pertanto, l'impugnazione fatta dal difensore della parte deceduta è viziata da nullità ma la nullità viene sanata dalla costituzione in appello degli eredi entro il termine breve per impugnare. Quest'ultimo è il principio a cui si riferisce l'ordinanza interlocutoria.

Nella fattispecie, la cui premessa è costituita dal richiamo alla sentenza del 1996, le Sezioni Unite ritengono che la questione della notificazione dell'atto di impugnazione e della valida instaurazione di un'ulteriore fase processuale, vada risolto sulla base dell'art. 328 cpc.  Come ben noto, quest'ultima disposizione rubricata “Decorrenza dei termini contro gli eredi della parte defunta” , stabilisce che a causa del verificarsi di uno degli eventi previsti dall'art. 299 cpc in pendenza del termine per impugnare, proprio questo termine è interrotto, naturalmente, soltanto a favore della parte che sia stata colpita dall'evento. La portata è chiara: la norma trova applicazione ai soli eventi interruttivi sopraggiunti dopo la pubblicazione della sentenza, giacché solo da tale momento le vicende personali delle parti non influiscono più sul processo bensì solo sul termine per impugnare. La legge n. 69/2009 non ha investito il terzo comma dell'art. 328 cpc, considerato da più parti tacitamente abrogato. In effetti, il comma in questione non è stata coordinato con la riforma che ha abbreviato il termine lungo a sei mesi. Cosicché nel caso previsto da questo terzo comma (“Se dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza si verifica alcuno degli eventi previsti nell'articolo 299, il termine di cui all'articolo precedente è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell'evento”), la sentenza dovrebbe già essere passata in giudicato e non avrebbe senso prevedere una proroga del termine lungo. 

In questo arresto del termine per impugnare, si coglie un altro principio: quando un grado è definito e un altro deve aprirsi, le parti tornano allo stadio iniziale in cui si trova l'attore che propone la domanda e che deve conoscere la condizione del soggetto nei cui riguardi intenda instaurare il rapporto processuale. Secondo la sentenza qui esaminata, il principio appena esposto viene derogato se l'evento si verifica nella fase attiva del processo e il difensore non lo dichiari. Tuttavia, il principio “riacquista pieno vigore” se l'evento giunge tra un grado e l'altro. Ecco perché, come discende dall'art. 328 cpc, se l'evento si verifica dopo la pubblicazione della sentenza, a interrompersi automaticamente è il termine per impugnare e il nuovo termine ricomincia a decorrere solo quando la notificazione della sentenza venga rinnovata nei confronti della “parte reale”, ovvero agli eredi in caso di morte anche impersonalmente e collettivamente nell'ultimo domicilio del defunto.

Pur trattando un caso di raggiungimento della maggiore età, nel 2005, le Sezioni Unite con la sentenza n. 15783 tornando sull'argomento, stabiliscono che se uno degli eventi interruttivi si verifica prima della chiusura della discussione e pertanto prima della scadenza dei termini per depositare comparse conclusionali e memorie di replica, come disposto dall'art. 190 cpc, e l'evento non venga dichiarato o notificato dal procuratore della parte colpito dall'evento, il giudizio di impugnazione deve in ogni caso essere instaurato da e contro i soggetti legittimati.

Soccorre anche in questo caso l'art. 328 cpc col quale il legislatore intende adeguare il processo di impugnazione a eventuali cambiamenti intervenuti nelle posizioni delle parti, così parificando l'evento verificatosi dopo la pubblicazione della sentenza e quello accorso nella fase del giudizio non dichiarato o notificato.

Rispetto al precedente del 1996, la sentenza del 2005 rinnega il principio di ultrattività del mandato, forte della disciplina sostanziale di cui all'art. 1722 (“Cause di estinzione” del mandato) n. 4 c.c., che prevede tra le cause estintive del mandato, la morte del mandante. Si ritiene, pertanto, che il potere attribuito al procuratore di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato e che nel frattempo sia deceduta o divenuta incapace, poiché derogatoria del succitato n. 4 dell'art. 1722 c.c., deve essere rigorosamente circoscritto alla fase del processo in cui l'evento non dichiarato o non notificato  concernente il mandante, si è verificato, senza potersi estendere alle successive fasi di quiescenza e riattivazione del processo.   

Attraverso la sentenza n. 26279 del 2009 si ribadisce, nell'ipotesi di morte della parte vittoriosa: l'atto di impugnazione deve essere rivolto e notificato agli eredi da parte del soccombente – con esclusione della possibilità di applicare l'art. 291 cpc se l'impugnazione è proposta nei confronti del defunto - a prescindere dal momento in cui la morte è avvenuta e dalla mancata conoscenza dell'evento, anche se incolpevole.

Il lungo tratto tanto “variegato e contraddittorio” ripercorso da Cassazione toccando i punti salienti che hanno cercato di volta in volta di renderlo certo e consolidato, approda a Cass. Sezioni Unite 13 marzo 2013, n. 6070, che secondo la Seconda Sezione civile rimette in crisi l'orientamento giurisprudenziale che nell'ultimo decennio sembrava essersi affermato: l'impugnazione diretta al procuratore della parte ormai defunta è affetta da nullità sanabile, attraverso la costituzione degli eredi.

La sentenza del 2013 riguarda alcune questioni relative agli effetti della cancellazione di una società dal registro delle imprese, come da riforma del diritto societario ex  d.lgs. n. 6 del 2003. Prendendo in considerazione solo gli effetti processuali, si ribadisce il principio in forza del quale la cancellazione della società dal registro delle imprese – dal momento in cui si verifica l'estinzione della società cancellata – priva la società medesima della capacità di stare in giudizio, salvo il caso della fictio iuris di cui all'art. 10 LF (“Fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio dell'impresa”). Già Cassazione 17500/2012 aveva confermato il principio secondo il quale la cancellazione della società dal registro delle imprese comporta estinzione della stessa con conseguenze importanti a livello processuale poiché la società non può più iniziare procedimenti giudiziali o proseguire quelli già in corso. La sentenza in questione ritiene – per esigenze di stabilità del processo – che se eccezionalmente è consentita la prosecuzione del giudizio quando la parte sia venuta a mancare e se l'evento interruttivo non è stato reso noto nei modi richiesti dalla legge, ebbene tale prosecuzione debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui l'evento si verifica; per converso, in caso di instaurazione di giudizio di impugnazione, questo deve essere promosso da e contro i soggetti realmente legittimati, quelli che sono la giusta parte. Ciò perché la sentenza non considera onere troppo gravoso per chi intenda proporre impugnazione, accertarsi circa la condizione soggettiva di controparte, come si richiede di fare a chi introduce per la prima volta la lite.

Si aggiunga che la cancellazione della società dal registro delle imprese è soggetta a pubblicità legale e salvo impedimenti particolari la sentenza ritiene inammissibile che l'impugnazione sia fatta ad opera della società cancellata o proposta nei suoi confronti, dato che la pubblicità legale impone di ritenere che i terzi, incluse le controparti processuali, siano a conoscenza del fatto estintivo.

Per giungere a una conclusione e proporre una soluzione, si delineano le due posizioni tra loro contrapposte: quella che afferma il principio dell'ultrattività del mandato e quella più attuale di inammissibilità dell'impugnazione da e verso un soggetto estinto. Vi si collocano in mezzo la necessità di tutela della giusta parte da un lato; il problema della conoscibilità dell'evento dall'altro, con l'esigenza di proteggere, in questo caso, la controparte che incolpevolmente abbia ignorato e sia in buona fede.

La sentenza del 2013 supera la tesi della nullità e della “inesistenza/inammissibilità”, rimandando al fatto  che – nel frangente di cui si discute –non esiste incertezza sull'identità della parte. Tutt'altro: essa è chiara, nondimeno il processo viene instaurato da  oppure viene evocata una parte diversa da quella che quel giudizio avrebbe potuto promuovere o nel quale sarebbe dovuta essere evocata. Essenzialmente, non si tratta dell'identificazione della parte del processo ma della stessa possibilità di “assumere la veste di parte per l'autore o per il destinatario della chiamata in giudizio”  . Da qui deriva l'inammissibilità dell'atto che promuova il giudizio o un suo grado, essendo inesistente uno dei soggetti del rapporto processuale e per tale motivo non in grado di perseguire il proprio scopo.  

Riesaminando la tesi dell'ultrattività del mandato, già confortata dalle tre sentenze delle Sezioni Unite del 1984, si afferma essere necessaria la riflessione sulla circostanza che ai sensi dell'articolo 300 cpc, l'effetto interruttivo del processo è una fattispecie complessa formata sia dall'evento che dalla dichiarazione in udienza o dalla notificazione fattane dal difensore alle altre parti, essendo irrilevante secondo la lettera della legge che le altre parti abbiano aliunde  avuto conoscenza di detto evento. Dichiarazione o notificazione che si presenta come negozio processuale del procuratore legittimato  e  che egli soltanto può fare (non gli eredi e non il rappresentante legale della parte) o meno, discrezionalmente. Si esclude, pertanto, che la dichiarazione sia di “pura scienza” perché se così fosse, il procuratore sarebbe tenuto a dare la notizia e, al contempo, verrebbe privato del potere discrezionale di valutare la situazione processuale in corso. Egli resta in ogni caso responsabile nei confronti della parte sostanziale se dalla mancata dichiarazione dell'evento interruttivo sia derivata a questa un pregiudizio. Per tali ragioni, giurisprudenza e dottrina attribuiscono al difensore la figura di dominus litis . Ne discende, in linea di principio, che la morte della parte non pregiudica il diritto dei suoi successori, poiché “la presenza in giudizio del procuratore ad litem  garantisce e assicura il rispetto del contraddittorio”. Limite al potere discrezionale del difensore è costituito dal grado di giudizio. Laddove egli abbia ricevuto procura ad litem per il solo grado di giudizio entro il quale l'evento interruttivo si è verificato e non abbia dichiarato o notificato il medesimo evento, potrà soltanto ricevere notificazione della sentenza o dell'atto di impugnazione. Per converso, se la procura è stata conferita anche per i successivi gradi di giudizio egli potrà altresì notificare validamente la sentenza, introdurre o costituirsi nel giudizio di gravame. Discorso analogo potrebbe farsi per la procura speciale a impugnare per cassazione.

Nella fase processuale compresa tra la discussione e la pubblicazione della sentenza, l'accadimento dell'evento, anche se notificato dal difensore, diventa irrilevante perché la situazione è fotografata nel momento iniziale di detta fase ed è proprio a questa che la sentenza si riferisce.

Richiamando il principio Chiovendiano secondo cui, quando un grado di giudizio è concluso e deve aprirsene un altro, le parti tornano alla situazione in cui si trova l'attore prima di proporre la domanda, ovvero prima di dover conoscere la condizione soggettiva di colui contro il quale la domanda intende proporre, oggi, le Sezioni Unite si mostrano dubbiose sul fatto che la parte a ogni apertura di una nuova fase processuale debba ripetere gli stessi accertamenti eseguiti originariamente all'instaurazione del processo, per identificare esattamente la parte reale del giudizio. “Giusta”, secondo i precedenti giurisprudenziali, non è più la parte deceduta a cui sono subentrati i successori; ne discende che l'impugnazione va instaurata e si deve svolgere nei confronti o da parte dei soggetti che siano attualmente le parti interessate alla lite e al processo. Esse sottolineano, inoltre, che il principio dell'ultrattività della procura ad litem  non rappresenta una deroga alle regole civilistiche sul mandato, anzi segue una logica sottesa al sistema sostanziale. Deve essere invocato il primo comma dell'art. 1728 c.c., in forza del quale quando il mandato si estingue per morte o sopravvenuta incapacità del mandante, questi deve comunque continuare l'esecuzione iniziata se vi è pericolo nel ritardo, secondo il criterio del buon padre di famiglia, pericolo che si concreta in un pregiudizio per l'affare o per la buona riuscita dello stesso; allo stesso modo, il difensore continua a gestire la lite per la parte venuta meno o divenuta incapace, secondo una sua discrezionale scelta  difensiva avente quale obiettivo il buon esito della lite. Soccorre, altresì, l'art. 1722 c.c. n. 4 (seconda parte) ove afferma che il mandato avente per oggetto il compimento di atti relativi all'esercizio di una impresa non si estingue per morte, interdizione o inabilitazione del mandante, qualora l'esercizio dell'impresa venga proseguito. In linea con queste due norme anche l'art. 1723 c.c. nella parte in cui stabilisce che il mandato conferito anche nell'interesse del mandatario o di terzi non s'estingue per la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante.

Ma norma fondamentale in materia richiamata dalle Sezioni Unite è l'art. 1396 c.c. (“Modificazione ed estinzione della procura”), che al secondo comma dispone: “Le altre cause di estinzione del potere di rappresentanza conferito dall'interessato non sono opponibili ai terzi che le hanno senza colpa ignorate”.

Cause altre di estinzione, rileggendo il primo comma della norma succitata, rispetto alla revoca sono proprio la morte e la sopravvenuta incapacità del rappresentato.

Le Sezioni Unite concludono che sembra inutile discutere della limitata efficacia della disposizione dell'art. 300 cpc, norma dotata di propria ratio  e funzione, incidendo per questo su un corretto e coerente svolgimento del processo e così arrecandogli beneficio. Inoltre, la norma in questione “è in linea col sistema sostanziale che in particolari ipotesi e per determinati fini, prevede dei meccanismi assolutamente analoghi”.

L'indirizzo che sostiene il principio dell'ultrattività del mandato, sembra trovar conferma nei casi in cui la legge ammette la negotiorum gestio dell'avvocato, permettendo ai nuovi titolari di conferire procura anche con efficacia retroattiva e avvalersi  del “ponte” che l'avvocato ha già realizzato - anche se precariamente  - con il proprio impianto difensivo tra un grado e l'altro del giudizio.  In questa sede, si vuole attribuire all'avvocato una maggiore responsabilità , poiché pur essendo vero che egli ha il potere discrezionale di dichiarare in udienza o notificare l'evento interruttivo, è altresì vero che il difensore, in virtù di queste legittimazioni e poteri si trova in una posizione molto delicata nei confronti dei successori, sia sotto il profilo professionale che sotto quello deontologico. Ricordando, oltretutto, che tra gli obblighi discendenti dal contratto d'opera professionale vi è quello d'informazione, il procuratore ha un preciso obbligo professionale di individuare subito i successori e informarli dello stato della causa, spiegare la strategia difensiva e attendere disposizioni. Restano salvi quegli atti urgentissimi che egli debba compiere di propria iniziativa onde evitare decadenze.

Con la sentenza 15295 del 4 luglio 2014, in conclusione, le Sezioni Unite affermano il principio secondo cui, in virtù dell'ultrattività del mandato alla lite, "il difensore continua a rappresentare la parte come se l'evento non si fosse verificato, con la conseguenza che la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore è idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione nei confronti della parte deceduta o divenuta incapace, il medesimo è legittimato a proporre impugnazione - ad eccezione del ricorso per cassazione per la cui proposizione è richiesta procura speciale - se la procura sia valida per gli ulteriori gradi del processo ed è ammissibile la notificazione dell'impugnazione presso di lui ai sensi dell'art. 330, primo comma, cpc, senza che rilevi la conoscenza aliunde dell'evento da parte del notificante".

Dott.ssa Zulay Manganaro
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