Data: 17/09/2014 09:00:00 - Autore: Gerolamo Taras

di Gerolamo Taras - Il requisito  della convivenza, previsto dall' art. 1, comma 5, della legge n. 100 del 1987, quale titolo necessario, per ottenere il trasferimento del personale  militare presso le rispettive amministrazioni site nella sede di servizio del coniuge, o, in mancanza, nella sede più vicina, deve essere interpretato  in senso sostanziale non meramente formale.  L' effettività della  convivenza fra  i coniugi deve essere valutata nel senso della sua compatibilità  con la lontananza delle sedi di lavoro, certamente involontaria dal momento che si chiede il trasferimento.

La convivenza coniugale non può dirsi certamente interrotta od insussistente per il fatto che due coniugi, in costanza di matrimonio e genitori di figlio minore, siano costretti a svolgere la rispettiva attività lavorativa in città diverse.

La disposizione “il coniuge convivente del personale militare di cui al comma 1 che sia impiegato di ruolo in una amministrazione statale ha diritto, all'atto del trasferimento o dell'elezione di domicilio nel territorio nazionale, ad essere impiegato, in ruolo normale, in soprannumero e per comando, presso le rispettive amministrazioni site nella sede di servizio del coniuge, o, in mancanza, nella sede più vicina – si applica anche nei confronti del coniuge  di personale appartenente alla Polizia di Stato (art.17 della legge n.266 del 1999).

Richiamando quest' ultima norma,  un assistente della Polizia di Stato, a più riprese, in prossimità della celebrazione del matrimonio e, successivamente dopo la celebrazione, aveva chiesto al Ministero dell' Interno, il trasferimento presso la sede di servizio del coniuge o in mancanza nella sede più vicina.

L' Amministrazione aveva, in un primo momento, respinto l'istanza della dipendente, limitandosi ad affermare che: “non ricorrono i presupposti per poter applicare la normativa invocata”, senza ulteriori specificazioni. Solo  successivamente aveva richiamato il requisito della mancanza della convivenza per giustificare il diniego del trasferimento. Questa la motivazione: la convivenza fra i due agenti era praticamente impossibile, dal momento che  prestavano servizio in due sedi notevolmente distanti l' una dall' altra. Essendo poi il requisito della convivenza tassativo e ,quindi, il provvedimento di rigetto conseguente vincolato risultava non necessaria la comunicazione del preavviso di rigetto.

L' Amministrazione aveva però  "dimenticato" due condizioni essenziali per la legittimità del provvedimento:

la motivazione del diniego e il preavviso di rigetto ex art. 10 bis della legge 241/1990. Puntualmente rilevati  dal TAR a cui si era dovuto rivolgere il dipendente.

Quanto al primo motivo il TAR LAZIO – ROMA, SEZIONE I TER sentenza n. 09028/2012 - aveva osservato che, “a prescindere da ogni concreto apprezzamento sulla sussistenza, o meno, nel caso di specie, dei requisiti prescritti dall'art. 17 della legge n. 266 del 1999, la motivazione (postuma rispetto all'adozione dell'atto avversato) addotta dall'Amministrazione per sostenere la carenza del requisito della convivenza coniugale non è congrua, atteso che può dirsi “non convivente” il coniuge separato di fatto o legalmente dal consorte, mentre, per converso, la convivenza coniugale non può dirsi certamente interrotta od insussistente per il fatto che due coniugi, in costanza di matrimonio e genitori di figlio minore, siano costretti a svolgere la rispettiva attività lavorativa in città diverse.

Neppure è motivata la omissione del c.d. “preavviso di rigetto” di cui all' art. 10 bis della legge  sul procedimento amministrativo, dovendosi escludere che l'Amministrazione fosse vincolata a dare all'atto gravato i contenuti sopra indicati.

Come aveva notato il TAR,  la ratio del c.d. “preavviso di rigetto” risiede nell' esigenza di instaurare un vero e proprio contraddittorio endoprocedimentale, in cui il privato è posto in condizione di addurre gli elementi che arricchiscano il patrimonio conoscitivo dell'Amministrazione e chiariscano tutte le circostanze ritenute utili al conseguimento del risultato finale, senza essere costretto ad adire immediatamente le vie giurisdizionali; pertanto, in quanto norma di garanzia partecipativa, la stessa impone la rigorosa indicazione di tutti i profili motivazionali che dovrebbero suffragare il provvedimento finale negativo, onde permettere al richiedente la presentazione delle osservazioni e la produzione dei documenti riferibili alla totalità degli aspetti che l'Amministrazione considera ostativi al rilascio del provvedimento invocato. 

Il Tribunale  aveva accolto il ricorso. Anche sulla base del richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n.183/2008, che ha affermato il diritto all'unità familiare, attraverso l'istituto del ricongiungimento del coniuge purché nell'ambito di un ragionevole bilanciamento dei diversi valori contrapposti, operato dal legislatore ai sensi dell'art. 17 della legge n. 266 del 1999 (che riproduce senza sostanziali variazioni l'art. 1, comma 5, della legge n. 100/1987).

Contro la sentenza ha presentato appello il Ministero dell' Interno.

Il Consiglio di Stato (Sezione Terza) sentenza n. 04634 del  11/09/2014, come in precedenza il TAR, ha giudicato illegittimo il provvedimento impugnato, sottolineando che a tale illegittimità concorrono insieme sia i motivi di ordine sostanziale, sia quelli di ordine procedurale, tra loro necessariamente concatenati fino a costituire un unico motivo.

Innanzitutto l' assenza di motivazione del provvedimento, non potendosi considerare tale il richiamo generico alla mancanza del requisito della convivenza previsto dalla norma.  La motivazione proposta  dall'Amministrazione è basata su una interpretazione formalistica della norma da applicare (tale da vanificarne lo spirito)  che non può essere condivisa e che costituisce quindi violazione di legge.

Vale a dire che non si può dedurre la mancanza del requisito della convivenza (per di più fino al punto da considerare del tutto vincolato il provvedimento) dalla sola situazione di lavoro dei coniugi che, loro malgrado, lavorano in città diverse e distanti e che per questo chiedono il trasferimento di uno dei due.

Non è appropriato in questo caso il richiamo operato dalla difesa erariale alle sentenze della Cassazione sulla effettività della convivenza, se non ci si riferisce ad una “effettività” compatibile con la lontananza delle sedi di lavoro, certamente involontaria dal momento che si chiede il trasferimento.

 L'Amministrazione può certamente sostenere – ove lo ritenga - che non è dimostrato il requisito della convivenza secondo i criteri sopraindicati, ma avrebbe dovuto in primo luogo espressamente dichiararlo e, in tal caso, non avrebbe potuto certamente esimersi dal richiederne all'interessato la dimostrazione, per lo meno nella forma dell'invio della comunicazione del preavviso di rigetto dell' istanza  ex art. 10 bis della legge 241/1990, secondo la ratio propria dell'istituto ben sottolineata dalla sentenza del TAR, dal momento che, proprio in situazioni di questo genere, è essenziale quanto l'interessato può dichiarare sul punto.

Gerolamo Taras


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