Data: 27/09/2014 09:50:00 - Autore: Avv. Francesco Pandolfi

Avv. Francesco Pandolfi - cassazionista

UN caso di mobbing subito da un Agente di Polizia Penitenziaria

Un emblematico ed interessante caso di mobbing subito da un Agente di Polizia Penitenziaria, tratto dalla lettura di una datata ma bella sentenza del Tar Abruzzo del 2007, ci permette di cogliere ancora una volta i presupposti giuridici essenziali utili all'accoglimento della domanda di risarcimento: 1) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, 2) l'evento lesivo alla salute e alla personalità del dipendente, 3) il nesso eziologico tra la condotta del  mobber e il  pregiudizio alla  integrità psico-fisica, 4) la dimostrazione dell'elemento soggettivo.

Ricorre il sig. L. contro il Ministero della Giustizia – Dipartimento Amministrazione penitenziaria,  Provveditorato regionale Amministrazione penitenziaria di P. e Direzione Casa Circondariale e reclusione di Z., per l'accertamento del diritto al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell'illecita condotta tenuta dall'Amministrazione, consistita in reiterati atti e fatti vessatori del dipendente, tanto da costituire mobbing da cui è derivata la lesione all'integrità psicofisica del ricorrente (danno biologico), quantificabile nella misura del 20% in termini di danno biologico permanente, nonché un danno professionale ed un danno esistenziale e per la condanna dell'Amministrazione al pagamento della somma di € 200.000,00.  

Il ricorrente presta servizio da oltre quindici anni presso la Casa circondariale di Z.  in qualità di Assistente di Polizia penitenziaria e riveste la carica di rappresentante locale di un Sindacato. 

Riferisce che all'interno del carcere sono presenti altri sindacati e che esponenti di alcuni di essi rivestono ruoli superiori, essendo Ispettori o Direttori.  In questo contesto il ricorrente sarebbe stato vittima di una serie di vessazioni, costituenti nel loro insieme mobbing, il che lo ha indotto ad agire per la tutela risarcitoria dei danni professionali, biologici ed esistenziali subiti. 

Riferisce di una incredibile serie di episodi che hanno dato luogo a sistematici rilievi,  sempre e solo ad opera di due Ispettori di Polizia penitenziaria, tutti conclusisi senza l'irrogazione di alcuna sanzione ( in particolare, una nutrita serie di insulsi procedimenti disciplinari tutti finiti con archiviazioni, vari procedimenti amministrativi tutti conclusi positivamente, un procedimento penale anch'esso concluso con archiviazione ).

Quindi il ricorrente fa presente d'aver invano denunciato all'Amministrazione il disagio in cui si è trovato ad operare negli anni e le conseguenze che stava arrecando alla sua salute, tanto che è stato costretto in più occasioni ad assentarsi dal lavoro per  ricorrere a cure mediche specialistiche per disturbi ansiosi, gastrointestinali, emicranie e cefalee da stress, documentati in 15 certificati medici prodotti nell'arco di vari anni e nei verbali dell'Ospedale militare, disturbi che il M. riconduce alla situazione di vessazione cui è stato sottoposto. 

Riferisce ancora di essere caduto in una profonda depressione per la quale ha dovuto far ricorso alle cure del Servizio di Psichiatria dell'Ospedale di Z. e che il clima lavorativo  avverso ha prodotto un grave isolamento nell'ambito lavorativo non volendo i colleghi subire possibili ritorsioni. 

Si appoggia quindi alla perizia del Dott. F., medico specialista in psichiatria e psicoterapeuta che riconduce i disturbi del L. alle vessazioni ed al clima subìto sul posto di lavoro. 

Dopo aver avanzato richiesta di danno all'Amministrazione con lettera raccomandata a ritornare e dopo che tale richiesta è stata respinta, il ricorrente notifica il ricorso avanti il Tar con cui, dopo aver illustrato il concetto di  mobbing e aver precisato che la responsabilità per danno può essere invocato sia  a titolo contrattuale che extracontrattuale, invoca l'applicazione, per il danno professionale, dell'art.2087 del c.c., posto che i continui e ripetuti rapporti disciplinari hanno condotto il ricorrente ad assentarsi dal lavoro per i gravi disturbi psichici accusati, con conseguente deperimento del bagaglio professionale e delle esperienze lavorative acquisite: il comportamento dell'Amministrazione che ha omesso di vigilare e di tutelare l'integrità psicofisica del dipendente ha leso il fondamentale diritto dello stesso ad estrinsecare la sua personalità  nell'ambito lavorativo, ledendo anche la sua dignità e la sua reputazione professionale. 

Aggiunge il ricorrente che, a causa dei gravi e ripetuti atti vessatori posti in essere dai Direttori e dai superiori di grado, riferibili pertanto all'Amministrazione, ha subìto un danno biologico, essendo affetto da  “disturbo post-traumatico da stress”, unitamente ad un “episodio depressivo maggiore”, sindromi queste che hanno influenzato e tuttora influenzano le sue capacità lavorative, sociali, personali, relazionali ed esistenziali, per cui tale tipo di danno deve essere valutato almeno nella misura del 20%.   

Chiede il ricorrente anche il risarcimento del danno esistenziale, che è danno non patrimoniale collegato ad un oggettivo deterioramento delle personali condizioni di vita del lavoratore.   

Quantifica il danno alla professionalità in ragione di una mensilità della retribuzione per ogni mese del periodo per il quale si è protratta la dequalificazione;  il danno biologico viene quantificato nel 20%, secondo la  perizia medico-legale salva diversa valutazione del giudice adito sulla base dei risultati di espletanda c.t.u. medica.

Indi chiede che, previo accertamento della responsabilità contrattuale e extracontrattuale dell'Amministrazione, la stessa sia condannata al pagamento della somma di giustizia. 

Preliminarmente il Collegio afferma la propria giurisdizione sul caso;  nel merito rammenta che il  mobbing consiste in un  complesso di atteggiamenti illeciti posti in essere nell'ambiente di lavoro nei confronti di un dipendente e che si risolvono in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di violenza morale o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire l'isolamento e la emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità. 

Secondo la giurisprudenza, il fenomeno in questione non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi o nel caso in cui gli atteggiamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria  siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, pubblico o privato, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo o imprenditoriale. 

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva qualificata  mobbing sono rilevanti, in altri termini, i seguenti elementi:

a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che  siano stati posti in essere in modo miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente, in guisa tale da disvelare un intento vessatorio;

b) l'evento lesivo alla salute e alla personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del  mobber e il  pregiudizio alla  integrità psico-fisica;

d) la dimostrazione dell'elemento soggettivo.      

Quanto al primo di tali elementi, deve convenirsi che la pluralità e sistematicità dei comportamenti e delle azioni a carattere persecutorio prolungatamente dirette contro il dipendente risulta accertato alla luce dell'ampia documentazione versata in atti, il che è riconosciuto dalla stessa Amministrazione quando nella relazione depositata riconosce che esisteva tra il ricorrente e i due ispettori una “situazione di conflittualità”, che non era tuttavia  estesa – si dice-  né all'Amministrazione nel suo complesso (il che non è del tutto esatto, come si dimostrerà), né alla parte preponderante  del reparto di Polizia penitenziaria, in cui operano 12  Ispettori e 4  Sovrintendenti.

Ma proprio la circostanza che i rapporti disciplinari sono stati sempre o quasi sempre redatti  da due soli Ispettori di polizia dimostra, unitamente ad altri elementi, che detti Superiori gerarchici avevano preso di mira, “per motivi che non è dato bene conoscere” il ricorrente.  

Esaminando le ragioni dei rapporti disciplinari ci si avvede della inconsistenza dei fatti sui quali essi si basano e quindi della pretestuosità degli stessi, che disvelano un mirato accanimento contro il L., al  solo ed esclusivo fine di procurargli ingiustificati intralci nell'attività lavorativa e di isolarlo dai colleghi, il che dimostra per contro un chiaro ed evidente abuso d'ufficio da parte dei due Ispettori, che avvalendosi della loro posizione gerarchica superiore, hanno esercitato il potere disciplinare in modo del tutto distorto, se si considera che per alcuni episodi mai nessuna contestazione è stata formulata dai due Ispettori e dagli altri superiori gerarchici nei confronti di dipendenti. 

Da evidenziare che in taluni casi i rapporti disciplinari si sono susseguiti a breve distanza di tempo gli uni dagli altri e addirittura in un giorno il ricorrente ha subìto ben tre procedimenti disciplinari, tutti archiviati. 

Ciò ha costretto il L., ogni volta, a fronte delle contestazioni che l'Amministrazione gli muoveva in base ai rapporti dei due Ispettori, che non possono che qualificarsi mobbers, ad un defatigante e stressante lavoro di giustificazioni proposte con una serie di ricorsi amministrativi, in base ai quali i procedimenti sono stati sempre archiviati, non provvedendosi mai all'irrogazione di sanzioni.    

La cosa sorprendente e che è sintomatica di un modo di agire che viola i doveri di imparzialità e buon andamento è che la Direzione del carcere, in modo acritico e pedissequo, ha dato seguito ogni volta ai  pretestuosi rapporti disciplinari di detti Ispettori, contestando al ricorrente fatti del tutto inconsistenti e che spesso vengono definiti di assoluta lievità, costringendo però il L. a doversi ogni volta difendere, approntando ricorsi amministrativi chiarificatori delle varie situazioni, in un innegabile e comprensibile stato d'ansia e di pressante  preoccupazione per l'esito di detti ricorsi, che a lungo andare, in relazione alla sistematicità delle vessazioni prolungatesi nel tempo, può aver  finito per incidere sull'equilibrio psicofisico del dipendente. 

A fronte dei numerosi rapporti disciplinari, formulati sempre dagli stessi Ispettori e nei confronti sempre dello stesso dipendente, alla Direzione del carcere non è mai venuto in mente di richiamare i predetti ad un senso di maggiore imparzialità e obiettività nell'esercizio del potere gerarchico e ad una visione più serena del rapporto con il ricorrente, il che costituisce omissione di un intervento doveroso, nella specie, e inadempimento dei principi di buona fede e correttezza nella gestione dei rapporti di lavoro, nonché violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione. 

Il comportamento complessivo tenuto dalla Direzione del carcere nella vicenda  si fa apprezzare, in altri termini, per un responsabile lassismo e per un'assoluta mancanza di controllo, che hanno  consentito il  reiterarsi  di una serie di episodi  qualificabili come vessatori e prolungatisi nel tempo, con le conseguenze pregiudizievoli lamentate. 

Nella specie, dunque, concorrendo la responsabilità contrattuale con quella extracontrattuale, consegue, sul piano processuale, che si rende applicabile la disciplina dell'onere probatorio più agevole per il ricorrente, ossia quello contrattuale ai sensi dell'art. 2087 c.c., che è la norma più confacente alle ipotesi di mobbing , in quanto trasferisce in ambito contrattuale il più generale principio del  neminem laedere.    

Per quanto concerne la prova dell'avvenuta lesione dell'integrità psicofisica, il L. l'ha offerta, versando in atti una serie di certificati medici  che, non tenendo conto di quelli relativi a malanni comuni e ai postumi dell'incidente stradale subìto,  attestano che il predetto ha incominciato a soffrire di emicrania,  di disturbi gastroenterici, di cefalea e di sindrome ansioso-depressiva con insonnia e astenia generalizzata.  

Lo “stato ansioso depressivo reattivo” è stato inoltre diagnosticato dalla Commissione medica ospedaliera presso il  centro Militare di medicina legale di S., che  ha ritenuto il ricorrente  temporaneamente non idoneo al servizio d'istituto.  

L'amministrazione, di contro, non ha dato alcuna prova di aver posto in essere tutte le misure necessarie alla tutela dell'integrità psico fisica del lavoratore, ma anzi, come rilevato, non ha assunto alcuna concreta iniziativa per fermare la sistematica  aggressione del dipendente, dando sempre acritico seguito ai rapporti disciplinari dei due Ispettori sopra menzionati, contestando al ricorrente infrazioni del tutto risibili che però impegnavano  il predetto  nell'estenuante lavoro di redigere scritti difensivi, sistematicamente accolti per l'inconsistenza dei rilievi mossi.  Siffatto comportamento omissivo, che  rileva ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo  in testa all'Amministrazione di appartenenza, va considerato tenuto conto del disposto combinato di cui agli artt. 2087, 1218 e 1228 c.c. e di cui all'art.2049 c.c. per quanto concerne la responsabilità extracontrattuale.  

Per quanto concerne il nesso causale tra il comportamento tenuto dai due Ispettori e dall'amministrazione e il pregiudizio alla salute, che è sempre problematico dimostrare, v'è da osservare che detto rapporto è percepibile nella specie, in quanto L., prima di vivere l'avversa e prolungata situazione lavorativa, non aveva mai dato segni di patologie di natura psichica, per cui può senz'altro dedursi che la lesione del suo equilibrio psicofisico sia stata una diretta conseguenza delle vessazioni sofferte per il lungo periodo di tempo sopra indicato. 

Perdurando le vicende disciplinari e giudiziarie si è poi venuto a sviluppare un vero e proprio  “episodio depressivo maggiore” con tutte le caratteristiche tipiche di siffatta patologia ( costante depressione dell'umore, diminuzione di interesse per ogni tipo di attività, perdita di peso, insonnia, mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione e di colpa eccessivi o inappropriati, ridotta capacità pensare, di concentrazione e di assumere decisioni ).  

Quanto ai danni lamentati, il ricorrente  invoca il risarcimento in primo luogo del danno alla professionalità per la diminuzione della propria capacità lavorativa e applicativa dovuta al lungo tempo in cui è stato costretto ad allontanarsi dal lavoro, il che ha prodotto appannamento e deperimento  del suo bagaglio  professionale e del suo ruolo di rappresentante sindacale, con lesione del diritto del dipendente inteso come mezzo di estrinsecazione della sua personalità. 

Si chiede quindi di risarcire il danno biologico per la menomazione della integrità psicofisica e per lo scadimento delle condizioni generali di salute, che hanno costretto il dipendente a ricorrere a cure farmacologiche. 

Viene infine chiesto il ristoro del danno esistenziale per le compromissioni che il mobbing ha prodotto sull'esistenza quotidiana e che sono accertabili e percepibili in quanto si traducono in modificazioni peggiorative del normale svolgimento della vita lavorativa, familiare, relazionale, di svago, ecc. 

Si tratta di danni che il mobbing in genere produce e che, nella specie, sono stati prodotti, per l'accertato stato ansioso depressivo reattivo da collegare a tutte le vicende disciplinari e giudiziarie subite dall'interessato.  

Il Tar ritiene, ai fini del quantum debeatur, di avvalersi del criterio equitativo di cui  all'art.1226 c.c., essendo impossibile stimare con precisione l'entità dei pregiudizi lamentati, anche attraverso una ctu  per cui, tenuto conto della natura, dell'intensità e della durata delle compromissioni  esistenziali e delle sofferenze morali subìte dal ricorrente, si stabilisce che il danno complessivo  possa essere liquidato in €  40.000,00, su cui vanno calcolati gli interessi legali dalla data della sentenza al saldo:  il ricorso va dunque accolto con la condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni.

Avv. Francesco Pandolfi    

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