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Data: 03/10/2014 10:16:00 - Autore: Mara M. Con sentenza n. 20230 del 15 settembre 2014, la Corte di Cassazione cerca di tracciare in maniera più nitida i confini della nebulosa figura giuridica del mobbing per poi ricordare quali sono gli oneri probatori di chi intende impugnare un licenziamento che si assume essere stato conseguenza del mobbing. Il mobbing, spiega la Corte, va considerato come una fattispecie a formazione progressiva che sotto una denominazione anglosassone – che potremmo tradurre con: accerchiare, attaccare in massa –, racchiude un insieme di condotte atte a vessare, screditare, sminuire, deprimere e in definitiva perseguitare il lavoratore fino a ridurlo ad uno stato di annichilimento ed emarginazione.
È perciò possibile qualificare come mobbing quell'insieme di comportamenti ostili persecutori che il lavoratore subisce ad opera di colleghi, dei suoi superiori o del datore di lavoro, con l'obiettivo di escluderlo dall'ambiente lavorativo.
Come si può immaginare, la prova del mobbing è oltremodo complessa, per via e della pluralità delle situazioni che lo generano – non sempre documentabili – e della difficoltà a dimostrare il rapporto consequenziale fra queste e il danno alla salute psico-fisica e alla capacità lavorativa sofferto dal ricorrente. Non sottendendo, poi, il mobbing una condotta tipica penalmente rilevante (presi singolarmente, gli atti vessatori possono essere tanto illeciti quanto leciti), esso si atteggia in maniera variabile e variegata di caso in caso, rischiando di rimanere un concetto astratto nelle aule di giustizia. E tuttavia (purtroppo), il mobbing è tutt'altro che astratto per il lavoratore che lo subisce!
Nella vicenda presa in esame dai Giudici di piazza Cavour, un lavoratore sosteneva che il licenziamento subito dovesse considerarsi nullo perché l'effetto finale di una serie di azioni vessatorie qualificabili come mobbing lavorativo.
A questo proposito, la Cassazione ricorda che per potersi configurare un'ipotesi di mobbing, è necessaria la presenza di una serie di requisiti ossia:
"a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi".
Per quanto riguarda la prova, la Corte Suprema spiega che è sempre necessario provare le circostanze e gli elementi costitutivi del mobbing, così come va dimostrato il nesso di causalità tra le azioni vessatorie e la lesione alla salute o alla dignità personale (in questo caso, il licenziamento).
Ecco perché è importante che la presunta vittima alleghi al ricorso tutta la documentazione utile a provare i fatti e le circostanze che possano qualificare i comportamenti "incriminati" come mobbing.
Nel caso deciso dalla sentenza 20230/2014, ad esempio, gli Ermellini hanno confermato la sentenza d'appello che rigettava il ricorso del “mobbizzato” proprio perché l'atto introduttivo del giudizio mancava di allegazione specifica che provasse la relazione causale fra licenziamento e condotte vessatorie.
Per saperne di più è possibile scaricare qui sotto il testo della sentenza.
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