Data: 23/10/2014 12:00:00 - Autore: Laura Tirloni

di Laura Tirloni - Una domanda che spesso l'avvocato si sente rivolgere dal cliente, già dal primo incontro, è: “Vero che vinceremo la causa?” Perché chi decide di rivolgersi a un legale è, di norma, convinto di avere ragione e quindi si aspetta una vittoria.

Il professionista, però, pur potendo essere tentato di rispondere positivamente per compiacere il proprio cliente, è tenuto a spiegare che l'esito della causa non è prevedibile e che avere ragione non significa, per forza, vincere.

Sulla scorta del rapporto di fiducia che sta alla base della relazione tra l'avvocato e il cliente e del dovere di informazione che il primo ha nei confronti del secondo (cfr. artt. 11, comma 2, e 27 Codice Deontologico Forense), il professionista dovrà, invece, spiegare chiaramente al proprio assistito (il quale, di regola, non possiede cognizioni tecnico-giuridiche, né ha piena consapevolezza delle scelte che possono essere prese in un giudizio e delle relative conseguenze), le caratteristiche e l'importanza dell'incarico, le attività da espletare, le iniziative da intraprendere, le ipotesi di soluzione, i tempi e i rischi connessi ad un processo, oltre agli oneri ipotizzabili e ai costi della prestazione, in modo da consentirgli di decidere se portare avanti o meno l'azione giudiziaria.

In ordine alla responsabilità professionale dell'avvocato nei confronti della parte assistita, la stessa è al contempo responsabilità da esecuzione del mandato difensivo e professionale.

In pratica, il professionista si obbliga a compiere la propria prestazione d'opera, ottemperando ai doveri di correttezza e diligenza richiesti dall'art. 1176, 2° comma, c.c., ma assumendo un'obbligazione di mezzi e non di risultato, mentre il cliente si obbliga al pagamento del relativo compenso.

L'avvocato, pertanto, non potrà rispondere se il proprio cliente non raggiunge il risultato sperato (Cass. n. 3566/1995) e avrà comunque diritto al compenso della causa o dell'affare, come pattuito (Cass. n. 765/1969).

La responsabilità professionale dell'avvocato nei confronti del proprio assistito sussiste, invece, ove questi provi che senza la negligenza e/o l'imperizia del legale, il risultato sarebbe stato conseguito (Cass. n. 22376/2012; n. 9917/2010; n. 22026/2004).

Secondo la giurisprudenza, la “responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell'attività dell'avvocato, l'affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita; tale giudizio, da compiere sulla base di una valutazione necessariamente probabilistica, è riservato al giudice di merito, con decisione non sindacabile se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici” (Cass. n. 3355/2014).

Laddove l'errore professionale dell'avvocato si spinga sino a “rendere del tutto inutile l'attività professionale pregressa in quanto finalizzata a tutelare il diritto fatto valere in giudizio”, portando a ritenere la prestazione del legale come totalmente inadempiuta, poiché “risultava non aver prodotto alcun effetto a favore del cliente e ciò sia dal punto di vista del risultato, se l'obbligazione dedotta nel contratto di prestazione di opera si considerasse di risultato per la non eccessiva difficoltà della vicenda nella quale si è concretato l'errore, sia dal punto di vista della prestazione del mezzo della propria prestazione d'opera, se la si considerasse come obbligazione di mezzi”, lo stesso non ha più diritto al compenso (Cass. n. 4781/2013).

La responsabilità è esclusa quando l'errore professionale riguardi le c.d. “attività discrezionali” (interpretazione delle leggi, scelte processuali, ecc.) (Cass. n. 1750/2010), a meno che le stesse si spingano fino a ledere l'interesse concreto del cliente: di fronte alla scelta tra differenti opzioni processuali, il legale è tenuto ad eleggere quella che realizzi concretamente gli interessi del proprio assistito, integrando, altrimenti, un'ipotesi di inadempimento degli obblighi assunti nei suoi confronti (Cass. n. 17506/2010).

Rimane fermo che l'avvocato, “al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali, non deve accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza” (art. 14 Codice deontologico), gravando comunque sull'assistito “l'onere di scegliere un difensore professionalmente valido e di vigilare sull'esatta osservanza dell'incarico conferito” (cfr., ex multis, Cass. n. 20665/2012; n. 39437/2013).


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