Data: 13/10/2014 14:00:00 - Autore: Marina Crisafi

È stata esposta per anni al fumo passivo per via della sua postazione di lavoro vicino all'ingresso dove i colleghi d'ufficio e chiunque si apprestasse ad uscire sostavano per fumare e benché avesse sollevato il problema al comune di Milano (suo datore di lavoro), l'ente non aveva fatto nulla per garantire che il divieto ex lege venisse rispettato.

Così il tribunale di Milano, con sentenza n. 2536 del 4 agosto 2014, ha condannato il comune a risarcire alla dipendente 10.000 euro a titolo di “danno esistenziale” per esposizione a fumo passivo.

In realtà, la vigilessa milanese aveva adito il giudice del lavoro per denunciare un atteggiamento mobbizzante tenuto nei suoi confronti dall'ente datore, a causa dell'esposizione per diversi anni a condotte vessatorie e persecutorie.

Il giudice però non ravvisava gli estremi del mobbing nella pluralità dei fatti e delle situazioni allegati dalla ricorrente (demansionamenti, trasferimenti, ecc.), considerandoli per lo più infondati e senza alcun “rilievo giuridico dal punto di vista del comportamento dedotto come persecutorio”, e pertanto rigettava la richiesta dei consequenziali danni patrimoniali e non.

Tuttavia, il giudice meneghino, nell'ambito della situazioni allegate dalla ricorrente, ha riconosciuto che l'esposizione al fumo passivo, pur non potendo costituire mobbing, poteva essere causa delle patologie dedotte dalla stessa (cefalea, difficoltà respiratorie, bruciore agli occhi, ecc.) e dunque dotata di rilievo sotto l'aspetto risarcitorio.

Il comportamento omissivo del comune di Milano, consistente nel mancato intervento a tutela della salute e del benessere dei propri dipendenti nonostante le lamentele avanzate dalla ricorrente, è stato quindi riconosciuto dal tribunale milanese come “determinante” per il danno non patrimoniale dalla stessa subito.

La ripetuta esposizione della ricorrente al fumo passivo, si legge infatti nella sentenza, ha provocato una situazione di disagio e possibili gravi danni alla salute nel lungo periodo, “a causa di un comportamento vietato da specifiche disposizioni di legge (legge 16 gennaio 2003 n.3 art. 51)”, incidendo negativamente sull'esercizio di diritti costituzionalmente garantiti quale è il diritto al lavoro (art.4) che consente la libera espressione della propria personalità nelle formazioni sociali (art.2)”.

Su quest'assunto, il tribunale ha condannato il comune al risarcimento del “danno esistenziale” alla vigilessa, quale autonoma voce di danno e non quale categoria di natura meramente descrittiva all'interno di quella omnicomprensiva del danno non patrimoniale (v. guida “Il danno alla persona), ponendosi così nel solco della giurisprudenza (cfr. ex multis, Cass. n. 1361/2014; n. 20292/2012) che sostiene l'affermazione del danno esistenziale come posta risarcitoria autonoma rispetto alle altre voci del danno non patrimoniale, in contrasto con le sentenze c.d. di San Martino (Cass. SS.UU. nn. 26972/3/4/5 del 2008). 


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