Data: 15/10/2014 12:00:00 - Autore: Law In Action - di P. Storani
di Paolo M. Storani - Dedico questo pezzo probabilmente noioso, ma frutto di passione, ai miei cari Colleghi Avvocati, con l'auspicio che possano in qualche modo utilizzarlo nelle loro difese quotidiane (ne sarei davvero lieto), ai Magistrati che debbono affrontare la spinosa tematica sanitaria (il mio pensiero va al Dott. Patrizio Gattari della Prima Sezione del Tribunale di Milano che, dopo la sentenza 17.7.2014, divulgata appena l'altro giorno, in materia di malpractice, sarà ora nell'occhio del ciclone mediatico per l'interpretazione in senso aquiliano della responsabilità del medico dopo la Legge Balduzzi) ed a tutte le ostetriche d'Italia! Ringrazio sin d'ora tutti i pazienti visitatori di LIA Law In Action che avranno la sfrontatezza di leggermi e di segnalarmi la loro casistica in materia.
 ● In tema di malpractice la responsabilità di natura ostetrico-ginecologico copre, insieme a quella ortopedico-traumatologica, vascolare e chirurgo-plastica, l'area di maggiore incidenza avuto riguardo sia al rischio di controversie giudiziali, ora nuovamente precedute dalla reintrodotta obbligatorietà della mediazione, per eventi avversi, sia alla massima esposizione di struttura pubblica e convenzionata e personale sanitario alla crescente dimensione risarcitoria a favore della platea degli aventi diritto all'integrale risarcimento dei pregiudizi risentiti in relazione alla gestazione ed al parto.

● Oltre alla frequente tipologia dell'urgenza che contraddistingue l'assistenza ostetrica, malformazione del nascituro e la nascita indesiderata, nonché l'ottenimento del c.d. consenso informato fornendo alla paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili, sono stati gli eventi caldi emersi al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale degli ultimi anni, anche in relazione alle ricadute di tipo esistenziale che tali episodi ingenerano per la violazione dei diritti ad una procreazione cosciente e responsabile.

● L'ostetrica, uno degli operatori sanitari più esposti a colpa professionale in quanto interferisce nella salute non di uno, bensì di due soggetti, partoriente e nascituro (l'ordinamento estende al futuro padre gli effetti protettivi del contratto), segue l'andamento del travaglio, assiste la partoriente e provoca l'intervento del medico ginecologo non appena si evidenzino, anche a nascita avvenuta, anomalie o ambiguità, non ricollegabili ad un normale svolgimento del parto, in correlazione anche alla corretta esecuzione delle attività accessorie, come l'obbligo di sorveglianza sulla salute della paziente anche nella fase postoperatoria.

Dovere di sollecitare l'intervento del ginecologo – Incorre in penale responsabilità in ordine al delitto di cui all'art. 589 c.p. l'ostetrica che, pur in presenza di un parto non fisiologico, abbia colpevolmente omesso di procedere al monitoraggio cardiotocografico continuo della partoriente già precesarizzata, pacificamente rientrante nell'ambito delle proprie competenze, nonché di sollecitare l'immediato intervento del ginecologo ai primi segnali di sofferenza della donna, al contrario dilungandosi in valutazioni del tutto esulanti dalla propria competenza, così cagionando il decesso del neonato per inalazione di sangue e liquido amniotico in seguito alla rottura dell'utero. (Trib. Monza, 2 gennaio 2012).

OMESSA ESPLORAZIONE DELLA CAVITA' ADDOMINALE E LESIONI PER LA PRESENZA DI GARZA DIMENTICATA DALL'EQUIPE OPERATORIA – L'ostetrica era imputata, anche quale ferrita, per aver causato, unitamente ai due medici specialisti in ostetricia e ginecologia, stato di malattia superiore a quaranta giorni per la dimenticanza all'interno dell'addome, in prossimità dell'ovaio di sinistra, una garza dimenticata nel conteggio finale. La S.C. ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali per essere il reato estinto per prescrizione (Cass. pen., 18 settembre 2013, n. 38434).

il criterio della vicinanza della prova  – Il Tribunale di Reggio Emilia sottolinea che non vi è dubbio che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione sanitaria; tanto più che, trattandosi di obbligazione professionale, il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività alla quale il debitore è tenuto (nel caso di specie, di parto al quale è conseguita la lesione del plesso brachiale del bambino, lesione verificatasi al momento del parto stesso, si è ritenuto che costituiva onere delle convenute – rispettivamente medico ginecologo ed ostetrica – in applicazione del richiamato criterio della vicinanza alla prova, dimostrare in primo luogo che erano state praticate manovre ostetriche adeguate al caso concreto e, in secondo luogo, che la paralisi dell'arto superiore del neonato era stata determinata da un evento imprevisto ed imprevedibile; si è, pertanto, statuito che siffatta prova non era stata raggiunta. (Trib. Reggio Emilia, 16 gennaio 2008).


Insegna la prassi giudiziaria che la figura dell'ostetrica, dal latino ob "avanti" e stare, assistente al parto, risalente all'origine dell'umanità e prerogativa squisitamente femminile, incarnata da una donna per lo più anziana ed esperta riconosciuta della riproduzione (per la gestante la levatrice è prima "mammana", primigenio supporter della partoriente, e soltanto alla metà del secolo XVIII la Repubblica Veneta istituì per prima la "condotta ostetrica"), rappresenta uno degli operatori sanitari statisticamente più esposti a responsabilità professionale.

Ha, quindi, una potenzialità di danno molto più elevata degli interventi svolti in altri settori, interferendo nella salute non di un solo soggetto passivo, bensì di due, vale a dire della madre partoriente e del nascituro.

Autorevole dottrina ricorda la professione, cui si accede per conseguimento del diploma (che oltre che titolo costituisce anche abilitazione essendo conseguito al termine di un corso con tirocinio) non è più interclusa agli uomini:

«in quanto l'art. 1 della legge 9-9-1977, n. 903 vietando "qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro … qualunque sia il settore o il ramo di attività", ha pertanto sancito l'effettiva parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro ... Le Direttive del Consiglio 80/154/CEE e 80/155/CEE – che, sebbene recenti, sono già oggetto di riesame – hanno sancito il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli di ostetrica … nell'ambito degli Stati membri»

(Dimasi in Digesto, voce Ostetrica, in www.plurisonline.it).

L'intervento dell'ostetrica ha, inoltre, varie connotazioni di spiccata delicatezza, non escluse le mancate informazioni (pregiudizio azionabile anche dal futuro padre poiché gli effetti protettivi del contratto esistente fra la gestante e l'ente ospedaliero gli si estendono, nonché dal nascituro, all'avverarsi della condicio iurisdella nascita, acquista il diritto di agire al fine di conseguire il risarcimento dei danni conseguenti alla mancata osservanza del dovere di una corretta informazione) relative alla presenza di anomalie o malformazioni a carico del feto, che impediscano alla futura madre di azionare il diritto – altrimenti esercitabile – di procedere all'interruzione volontaria della gravidanza.

A questo proposito, sarà appena il caso di ricordare che autenticoleading case sullo specifico problema in esame è la decisione del 1998 della Cassazione, in cui per la prima volta la S.C. giunge a dare ingresso al risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto all'interruzione di gravidanza.

«Dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la gestante può esercitare il diritto all'aborto, ai sensi del combinato disposto degli art. 6 e 7, comma 3, l. 22 maggio 1978 n. 194, solo in presenza di tre condizioni legali, due positive e una negativa e, cioè: a) sussista un processo patologico (fisico o psichico, anche indotto da accertate malformazioni del feto) in atto per la madre; b) sussista il pericolo (da accertare con valutazione ex ante) che tale processo patologico degeneri, arrecando un danno grave alla salute della madre; c) non sussista possibilità di vita autonoma per il feto. Ne consegue che il medico, il quale per negligenza od imperizia, ometta di avvertire la madre dell'esistenza di gravi malformazioni del feto, viola il diritto della madre all'aborto, così ponendo in essere una condotta illecita fonte di responsabilità, soltanto ove sussistano tutti e tre i requisiti sopra descritti. Ne consegue altresì che il giudice, chiamato ad accertare la responsabilità del medico, deve stabilire (con valutazione da compiersi ex ante, vale a dire con riferimento al momento in cui il medico omise la corretta informazione) se la conoscenza della reale situazione patologica del feto avrebbe ingenerato nella donna un processo patologico fisico o psichico, con pericolo grave per la salute della stessa»

(Cass., Sez. III, 1 dicembre 1998, n. 12195, in DeJure).

Il S.C. ha rilevato quanto segue in ordine ad un ipotetico pregiudizio diin re ipsa da lesione del diritto della donna ad essere informata sull'esistenza della gravidanza:

«Nel nostro ordinamento non esistono danni in re ipsa, risarcibili sol perché si dimostri l'avvenuta lesione d'un diritto.

La lesione del diritto è il presupposto necessario, ma non sufficiente per pretendere il risarcimento del danno: ad esso dovrà necessariamente conseguire una perdita, patrimoniale o di altro tipo.

L'eventuale lesione del diritto di interrompere la gravidanza è dunque giuridicamente irrilevante se la gestante, quand'anche informata, avrebbe comunque verosimilmente scelto di non abortire».

(Cass. Civ., Sez. III, 17 luglio 2014, n. 16401, Pres. Amatucci, Rel. Rossetti).

Le caratteristiche proprie dell'assistenza ostetrica, talvolta di natura chirurgica, spesso assumono elementi di urgenza.

Si può, infatti, ravvisare l'urgenza di un intervento di isteroctomia.

Il formante civile insegna che si può ravvisare una responsabilità paramedica nelle errate manovre compiute in corpore infirmi, se foriere di lesioni e pregiudizi.

L'esperienza attuale della pratica medica predica ch'è ormai diffuso un modello di attività basato sulla cooperazione fra soggetti muniti di competenze differenti ed interagenti nel medesimo contesto o in successive sequenze.

Talché, l'attività medico – sanitaria è la risultante, vuoi dal versante della diagnosi, vuoi dal versante della terapia, di un'opera di collaborazione e di coordinamento all'interno delle strutture sanitarie.

Pertanto, alla tradizionale figura dell'operatore sanitario si sovrappone la realtà di un lavoro di equipe, cui concorrono, ognuno per la propria competenza e conoscenza scientifica, differenti professionalità.

Si configura così l'irrisolta questione della responsabilità, a titolo diverso, nell'ambito di una prestazione che, nella sua globalità, mira al recupero fisio – psichico del paziente.

Si tratterà così di stabilire se e a quali condizioni il singolo operatore, partecipe del gruppo/squadra, risponda dei comportamenti colposi riferibili agli altri membri.

La giurisprudenza mostra di dare rilievo a tale situazione quando imputa all'ostetrico di aver proceduto da solo ad un parto complesso (gemellare), senza preoccuparsi di preavvertire un anestesista di tenersi a disposizione, al cospetto di difficoltà sopravvenute all'inizio dell'intervento.

La casistica giurisprudenziale pone in risalto, in primo luogo, ipotesi di generica negligenza, nelle quali il rimprovero che si muove all'ostetrico è di aver agito omettendo di prevedere eventuali ma possibili complicazioni prima, durante e dopo il parto.

Così la Corte di Cassazione civile ha ritenuto correttamente motivata la decisione di merito emessa dalla Corte di Appello di Trento che aveva qualificato in termini di colpa grave ("comportamento tenuto … gravemente colposo" si legge al punto 5.1. della pronuncia) la condotta del medico ostetrico che, dinanzi ad un arresto della progressione del feto al momento del parto, abbia atteso più di tre ore prima di predisporre ed effettuare un intervento cesareo

«la Corte d'Appello, sulla base di quanto attestato nella cartella clinica, ha accertato che, tra il momento in cui venne riscontrato l'arresto della progressione del feto e l'inizio del parto cesareo intercorsero ben più di tre ore; ed ancora, che quasi due ore erano passate tra la prima applicazione della ventosa e l'inizio del cesareo»

(Cass., Sez. III, 9 maggio 2000, n. 5881).

Accresciuto rilievo al concetto di colpa lieve ha impresso l'art. 3 della legge di conversione del c.d. Decreto Balduzzi (d.l. 13 settembre 2012, n. 158) nella l. 8 novembre 2012, n. 189.

A norma di tale art. 3 "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. …".

Trasferendo la disamina all'ambito amministrativo, si è ravvisata la responsabilità di un ostetrico il quale, a seguito di mancata o non esauriente compilazione della cartella clinica, non ha tenuto conto dei suggerimenti del medico curante della partoriente che indicava l'opportunità del taglio cesareo, trattandosi di parto distocico, e che ha dimostrato imperizia ed imprudenza nella fase espulsiva del feto, non facendo ricorso alla manovra di Jacquenner e optando invece per una traumatizzante manovra di disimpegno delle spalle, provocando alla neonata la frattura dell'omero destro e lo strappo del plesso brachiale sinistro con successiva, grave invalidità permanente (Corte dei Conti Veneto, Sez. giurisdiz., 22 gennaio 1997, n. 36, inwww.plurisonline.it).

In tema di pratica ostetrica, del resto, vale il principio per cui la responsabilità in ordine al pregiudizio risentito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata.

Tale diligenza, da apprezzarsi in relazione alle circostanze concrete (tra queste rientrano anche le dotazioni della struttura ospedaliera in cui il sanitario opera) non è ovviamente quella del buon padre di famiglia, bensì quella del debitore qualificato ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c. che impone il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche scientificamente riconosciute che nel loro insieme integrano la conoscenza della professione medica; il concetto ricomprende, pertanto, anche la perizia, da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione.

La limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2236, comma 2, c.c. non ricorre con riferimento ai danni cagionati per negligenza o imperizia, ma soltanto per le fattispecie implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica.

Quanto all'onere probatorio, spetta all'operatore sanitario provare che il caso era di particolare difficoltà.

La contrattualizzazione della responsabilità medica meglio si presta a realizzare una più incisiva tutela del paziente in virtù delle regole che conseguono sul piano del riparto dell'onere probatorio.

Talché, la giurisprudenza è giunta ad affermare che, qualora il creditore agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento, egli ha l'onere di provare la fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione dell'inesattezza o dell'inampimento del debitore – controparte convenuto.

Il convenuto ha l'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.

Applicando tali principi alla responsabilità medica, in ossequio a quanto espressamente stabilito nella nota sentenza del S.C. 577/2008, la Cassazione rileva che, a prescindere dalla natura dell'intervento, il paziente ha soltanto l'onere di provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento o l'insorgenza della patologia, allegando l'inadempimento del debitore astrattamente idoneo a produrre il danno lamentato.

La linea evolutiva delineatasi in tema di onere probatorio tenda ad enfatizzare il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità, per i contendenti, di fornirla.

Sulla scorta di ciò compete al medico provare l'impossibilità della prestazione per causa a sé non imputabile e la diligenza nell'adempimento.

Infatti, egli è in possesso di tutti gli elementi utili per difendersi nell'azione intentata dal paziente.

Significativo il seguente caso riportato in dottrina:

«Avvertendo una riduzione dei movimenti fetali, una donna incinta si recava urgentemente presso una casa di cura privata, accompagnata dall'amica levatrice che ivi prestava servizio, al fine di essere sottoposta a tutti gli accertamenti del caso. L'esame cardiotocografico mostrava gravi anomalie; nonostante ciò la gestante non veniva trattenuta presso la struttura sanitaria, ma semplicemente invitata a ripresentarsi al mattino seguente, per essere sottoposta a taglio cesareo. Il giorno successivo, a distanza di un'ora dal ricovero, veniva effettuato l'intervento chirurgico, ma la neonata nasceva presentando gravi danni cerebrali. Tale quadro, già di per sé tragico, veniva aggravato dal fatto che l'equipe medica ometteva di eseguire le necessarie manovre di rianimazione primaria sulla bambina in stato di sofferenza ischemica grave e disponeva il trasferimento della stessa, presso una struttura sanitaria adeguatamente attrezzata, con un ritardo di ben quattro ore. La coppia di coniugi, in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sulla figlia minore, convenivano, dunque, in giudizio la casa di cura, il medico ginecologo e la levatrice, per sentirli condannare al risarcimento del danno, sulla base della loro responsabilità nella determinazione delle gravissime lesioni subite dalla neonata e dell'ulteriore evento morte, occorso a distanza di nove anni. I convenuti spiegavano azione di garanzia nei confronti delle rispettive compagnie assicurative, le quali, costituendosi in giudizio, deducevano la mancanza di qualsivoglia responsabilità in capo ai propri assistiti»

(Bugatti 2011, DResp, 2011, 8, 9, 835).

Dell'esame cardiotocografico, conseguente alla lamentata diminuzione dei movimenti fetali, non v'era più traccia agli atti (e rimaneva ignota anche la persona che lo aveva effettuato), ma certamente era stato eseguito presso la casa di cura; l'esito dell'esame non doveva risultare affatto tranquillizzante, tant'è che la paziente era stata invitata a ripresentarsi il giorno successivo; la fattispecie che riguarda una bambina deceduta, in conseguenza delle malattie neurologiche dopo nove anni di straziante sopravvivenza, giungeva alla disamina del S.C. che, specificando che proprio un risultato di tal genere imponeva un programma di monitoraggio costante della partoriente al fine di poter intervenire, all'insorgenza della sofferenza fetale, con la dovuta tempestività; il S.C., nel richiamare anche Cass., Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 577, Cass. 19 maggio 1999, n. 4852, e Cass. 9 maggio 2000, n. 5881, così si esprimeva, cassando con rinvio la pronuncia della Corte di Appello di Roma:

«La originaria domanda degli attori era circoscritta alla incompetenza della ostetrica, alla insufficienza della casa di cura per le apparecchiature, soprattutto per la mancanza di incubatrice, ed alla negligenza del ginecologo. A seguito della istruttoria compiuta, erano stati discolpati la ostetrica (già in primo grado) e il ginecologo (a seguito della decisione di appello). La casa di cura non era risultata inadeguata, né carente di attrezzatura, ma era stata condannata per la presunta negligenza del pediatra e dell'anestesista, rimasti entrambi al di fuori del giudizio … I giudici di appello hanno affrontato la questione della responsabilità della struttura sanitaria per la mancanza dei doverosi interventi protettivi, anteriori e successivi al parto, e relativi alla assistenza della salute della neonata. L'inadempimento, prospettato dagli attori nell'atto introduttivo del giudizio, riguardava la responsabilità diretta della clinica che non è stata in grado di giustificarlo … Proprio un risultato di questo genere dell'esame avrebbe dovuto indurre a trattenere la partoriente al fine di controllarla ad intervalli regolari, in tal modo consentendo un intervento tempestivo ove la situazione si fosse fatta critica. In altre parole, sarebbe stato necessario impostare un programma di monitoraggio assiduo della F. al fine di poter intervenire tempestivamente, con un taglio cesareo, all'insorgere della sofferenza fetale … Per quanto riguarda il caso di specie, deve rilevarsi che il primo contatto ebbe a verificarsi con la clinica (omissis) e con il ginecologo T. il (omissis), quando l'ostetrica P., amica e levatrice, ebbe ad accompagnare la F. dal ginecologo della Clinica perché la partoriente avvertiva la diminuzione dei movimenti fetali. Il contatto ebbe a proseguire il giorno successivo, …, alle ore 10:40, quando avvenne il ricovero contrattualmente convenuto e nel breve volgere di un'ora la partoriente fu sottoposta a taglio cesareo. Nella equipe medica – accanto al ginecologo chirurgo di fiducia, dott. T. (chiamato in giudizio), vi erano l'anestesista rianimatore e il pediatra neonatologo, entrambi forniti dalla clinica (questi ultimi non convenuti in giudizio dagli attori). Eseguito a regola d'arte il taglio cesareo, il chirurgo ebbe a completare l'intervento sulla F., mentre gli altri medici ebbero ad occuparsi della neonata. Non venne, tuttavia, eseguita alcuna manovra di rianimazione sulla neonata (ha accertato la Corte territoriale): in tal modo ebbero ad aggravarsi le patologie neurologiche e non fu eseguito alcun intervento di rianimazione assistita per favorire la respirazione e la ossigenazione del cervello e ridurre le conseguenze patologiche poi riscontrate. Solo alle 14:30 (e dunque circa tre ore dopo il parto) la clinica provvedette a trasferire la neonata, in stato di sofferenza ischemica grave, presso il Centro Specialistico Policlinico (omissis), da cui la neonata venne dimessa in data (omissis) (dopo quattro mesi) con la diagnosi di "asfissia perinatale convulsiva". La piccola A. – in stato semivegetativo – ebbe a sopravvivere nove anni, decedendo per arresto respiratorio il … in conseguenza delle malattie neurologiche che ebbero ad accompagnarla sino alla morte. I giudici di appello hanno escluso ogni responsabilità del dott. T., per la considerazione che lo stesso non avrebbe contribuito in alcun modo allo stato di sofferenza manifestatosi anteriormente alla nascita. Gli stessi giudici hanno aggiunto che, per quanto riguarda il periodo successivo al taglio cesareo, nessuna responsabilità era da attribuire al dott. T.. Altri sarebbero stati i medici che avrebbero dovuto provvedere alle manovre di rianimazione. Questi medici (il neonatologo – pediatra e l'anestesista - rianimatore) non erano stati chiamati in giudizio. Entrambi gli argomenti svolti dai giudici di appello si prestano a facili critiche, sulla base del rilievo che – in ogni caso – il dott. T. avrebbe avuto l'obbligo di intervenire personalmente in caso di inerzia degli altri componenti la equipe medica (per quanto riguarda l'attività successiva al parto). Per quanto riguarda invece il periodo precedente, la responsabilità del dott. T. avrebbe dovuto essere valutata dai giudici di appello per avere lo stesso, eventualmente, indirizzato la partoriente presso una struttura priva di idonee attrezzature per i neonati, e sotto altro profilo, per non avere immediatamente disposto il ricovero della F., una volta avuta comunicazione dei risultati dell'esame del (omissis), programmando invece la esecuzione del parto cesareo per le ore 10:30 del giorno successivo. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata con rinvio ad altro giudice, il quale dovrà ricostruire la successione degli eventi e valutare quale comportamento il medico dott. T. avrebbe potuto tenere nella situazione data per rispondere in modo adeguato alle evenienze che il parto era venuto presentando ed, ancor prima, se il dott. T. possa essere considerato responsabile per avere indirizzato la partoriente presso una Clinica priva delle necessarie attrezzature, ovvero per avere ritardato colpevolmente l'intervento cesareo dopo l'esito dell'esame cardiotocografico del (omissis), che avrebbe invece consigliato l'immediato ricovero».

(Cass., Sez. III, 1 febbraio 2011, n. 2334, in www.leggiditalia.it).

Un autore rimarca quanto segue a proposito della colpa professionale e dell'omissione colposa dell'ostetrico:

«Il conseguimento del diploma di specializzazione attraverso l'esame di Stato comporta che ai fini della valutazione della colpa professionale non possa prescindersi dal considerare le cognizioni generali e fondamentali proprie di un medico specialista, non essendo sufficiente il riferimento alle cognizioni minime di cumtura ed esperienza, che si pretendono da un medico generico; infatti il corredo culturale e sperimentale, richiesto dallo Stato per il conseguimento del titolo di specialista, rappresenta una più consistente garanzia per il paziente e legittima un'aspettativa di maggior perizia. Correttamente, pertanto, la giurisprudenza ha ritenuto costituire omissione colposa quella posta in essere da uno specialista ostetrico il quale, praticata una iniezione per accelerare il parto, non aveva provveduto ad essere presente e ad adottare i più opportuni ed efficaci accorgimenti terapeutici e di intervento, nella specie immediata isterectomia, nei confronti di partoriente provata da pregresse e complesse gravidanze, deceduta per lacerazione spontanea dell'utero (Cass. pen. 31.1.1983, RP, 1983, 769). I compiti dello specialista ostetrico erano ben delineati e limitati dalla disposizione dell'art. 4 d.p.r. 7.3.1975 n. 163, a norma del quale l'ostetrica assistente al parto doveva richiedere l'intervento del medico ogni qualvolta rilevasse fattori di rischio – alcuni dei quali esemplificati dalla medesima norma – per la madre e per il feto. La disposizione di cui all'art. 4 d.p.r. 163/1975, peraltro applicabile soltanto in caso di parto fisiologico (Cass. 19.11.1999, n. 12819, GCM, 1999, 2294) è stata tuttavia abrogata»

(Sella 2009).

Illuminante, per la violazione di regole primarie che implica la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, Cass., Sez. Lav., 13 aprile 2011, n. 8458, in www.leggiditalia.it in ordine alla legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato dall'Ausl 10 Firenze al dirigente medico che abbia consentito, assistendo alle relative operazioni, che un'ostetrica eseguisse, presso la sala parto del presidio ospedaliero, un taglio cesareo e si occupasse delle ulteriori fasi del parto, anche in mancanza di danno, in quanto l'accettazione del rischio di danno vìola il corretto svolgimento degli interventi sanitari, miranti a garantire la salute degli utenti e l'affidabilità delle strutture erogatrici dei relativi servizi; il S.C. ha cassato App. Firenze e deciso nel merito la controversia; tra l'altro, ricorda al punto 3. della motivazione l'estensore G. Meliadò non solo "che il dottore C. ebbe a consentire alla ostetrica B.R. di effettuare, con la sua assistenza, un intervento chirurgico di taglio cesareo", ma anche "che lo stesso ebbe ad eseguire un analogo ulteriore intervento con l'assistenza della B. quale secondo operatore".

Sul tema della causalità, non senza dimenticare che, nel settore civilistico, per un'affermazione di responsabilità, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", a differenza dal campo penale, ove ha vigore il principio della prova "oltre il ragionevole dubbio", nonché sul tema dei fattori di rischio esistenti al momento del parto e della lacunosa redazione della cartella ostetrica, si segnala la significativa decisione del Tribunale di Prato, 1 febbraio 2012, Giud. Brogi, in DResp, 2012, 4, 458.

La gestante esponeva di avere informato prima del parto il personale sanitario della presenza di un tampone positivo allo streptococco; lo streptococco beta emolitico di gruppo B è un cocco, comune nella donna gravida; si tratta del principale responsabile di severe infezioni batteriche verticali (sepsi, meningiti, polmoniti) e infezioni sistemiche o focali nel lattante. L'infezione in disamina ha due forme: quella precoce e quella tardiva; quella precoce corrisponde a quella contratta dalla paziente della fattispecie in disputa e si trasmette per via ascendente all'interno del liquido amniotico, attraverso l'aspirazione da parte del feto di liquido contaminato durante il passaggio attraverso il canale del parto, cioè mediante il contatto con secrezioni vaginali infette, e si manifesta nel corso della prima settimana di vita; frequentemente è associata a complicazioni ostetriche materne.

Nonostante ciò, vale a dire quantunque la gestante avesse avvertito i sanitari, costoro omisero di prestare attenzione alla notizia fornita dalla donna ed alla documentazione prodotta e colpevolmente ritardato le cure, cagionando alla nascitura l'insorgenza di grave patologia (la macroinvalidazione della tetraparesi spastica distonica) che ha reso la piccola del tutto priva di autonomia nei movimenti e del linguaggio; in pratica, la bambina non soltanto ha corso pericolo di vita, come ricorda l'estensore, ma

 «è priva di stabilità sul tronco, senza poter quindi camminare. E' inoltre priva di larga parte della capacità di linguaggio, sebbene cosciente e consapevole della propria situazione. Le conseguenze degli eventi descritti sono sempre più evidenti nel percorso di crescita di M.. Inoltre, la necessità di dare alla figlia cure e terapie, nonché un sostegno continuo, ha costretto la madre a ridurre la propria capacità lavorativa, anche con un gravissimo danno psicologico … Con particolare riferimento alla responsabilità della struttura sanitaria le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, in particolare, stabilito che "questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316). A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006). Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell'applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d'opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l'accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa. Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c.; da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore della lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'aticipità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c. e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art. 1218 c.c." (sent. n. 577/2008)»

(Trib. Prato, Sez. Unica Civile, 1 febbraio 2012, inwww.leggiditalia.it).

Il giudice monocratico, dopo aver inquadrato la questione della qualificazione del rapporto giuridico intercorrente fra il nosocomio e la paziente, supera l'eccezione preliminare di merito relativa alla prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c. sollevata da parte convenuta sulla supposta collocazione aquiliana della domanda, e poi affronta le peculiarità che qui interessano.

Talché, viene accolto l'orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel corso dell'ultimo decennio che annovera nel paradigma di cui all'art. 1218 c.c. la responsabilità per inadempimento delle prestazioni mediche, sia da parte del singolo medico, sia da parte della struttura sanitaria nel suo complesso, con la conseguenza del configurarsi di una sequela di obblighi di protezione o accessori anche nei confronti del nascituro.

Delineata la natura contrattuale del rapporto interagente fra le parti, viene preso in esame il tema del riparto dell'onere probatorio.

In conformità con i principi stabiliti dal S.C. a Sezioni Unite con la pronuncia n. 13533 del 2001 viene affermato che, a fronte dell'allegazione circa l'inadempimento da parte dell'attrice, che agiva in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla piccola tetraplegica, spetta alla struttura sanitaria convenuta dare la prova di avere svolto tutte le prestazioni necessarie a scongiurare gli esiti della patologia contratta dalla bimba ovvero della mancata sussistenza del nesso di causalità fra la condotta e l'evento pregiudizievole.

Nella fattispecie viene negato che il personale sanitario abbia svolto con diligenza la prestazione, in considerazione dell'omessa indicazione nella cartella clinica ostetrica dei risultati dei test eseguiti dalla partoriente in gravidanza e della conseguente mancata valutazione dei fattori di rischio al momento del parto.

Ad opinare del giudicante toscano, con riferimento al nesso di causalità è necessario valutare tanto la probabilità statistica, secondo la logica del "più probabile che non", quanto la probabilità logica, consistente nell'accertare l'insussistenza di fattori eziologici alternativi.

Nella fattispecie concreta sottoposta al Tribunale di Prato nella pronuncia del 1° febbraio 2012 la condotta negligente della struttura nosocomiale viene ascritta all'alveo della causalità omissiva sotto un duplice aspetto: quello dell'anamnesi, relativa all'omessa indicazione ed alla mancata valutazione delle analisi e delle notizie informative rese proprio dalla gestante, e quello riguardante la mancata somministrazione di cure a vantaggio della neonata.

Accertato che l'azione doverosa omessa avrebbe scongiurato l'evento nel 70% dei casi ed esclusa la ricorrenza di decorsi causali alternativi, il Tribunale conclude per la sussistenza del nesso causale fra l'infezione contratta dalla partoriente, l'omessa corretta anamnesi della medesima, la mancata, tempestiva somministrazione di cure alla madre ed alla neonata e l'evento lesivo purtroppo concretizzatosi; prendendo a prestito le espressioni di autorevole Magistrato della Suprema Corte, quell' …evento avverso

«(così mutuando dal mondo della medicina la pudica terminologia scientifica adoperata per indicare la morte di un paziente) ascrivibile a colpa di entrambi gli imputati, rispettivamente nella misura del 60% quanto al ginecologo e del 40% quanto all'ostetrica»

(G. Travaglino, estensore del leading case Cass., Sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754, in tema di danno da nascita indesiderata, commentando Cass., sez. III, propria ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite 4 gennaio 2010, n. 2, in CorG, 2010, 3, 306 inwww.leggiditalia.it, pronuncia il cui "svolgimento del processo" riferisce che «M.G., con citazione dell'ottobre 1992, ha convenuto dinanzi al Tribunale Civile di Latina L.C. R. esponendo che, nel (omissis), era deceduta la propria consorte a seguito di complicanze sopravvenute nel dare alla luce la figlia, e chiedendo, per l'effetto, il risarcimento dei danni; - che il giudizio penale precedentemente instauratosi a carico della convenuta (oltre che del ginecologo chiamato ad assistere al parto), nel quale egli si era costituito parte civile, si era concluso con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dopo che il giudice di appello aveva ritenuto il decesso della moglie ascrivibile a colpa di entrambi gli imputati, rispettivamente nella misura del 60% quanto al ginecologo e del 40% quanto alla L.C., con sentenza confermata dalla Corte di legittimità. che, nel respingere il ricorso degli imputati, aveva altresì annullato le statuizioni civili della sentenza d'appello, essendo mancata in primo grado una condanna anche generica al risarcimento dei danni cagionati dal reato in favore della parte civile (la C. - n.d.r.: l'ostetrica - era stata, difatti, assolta in primo grado per insufficienza di prove, mentre il ginecologo aveva, in corso di giudizio, risarcito i danni in via transattiva); il tribunale adìto aveva accolto la domanda, confermando la statuizione del giudice penale quanto all'accertamento della colpa concorrente della convenuta nella misura del 40%; la Corte d'appello di Roma, accogliendo in parte l'impugnazione della C., aveva viceversa ridotto tale percentuale al 10%, ritenendo non vincolante il giudicato penale in parte qua; avverso tale pronuncia ha proposto ricorso, tra gli altri, M.G. (n.d.r: l'attrice), lamentando la violazione del giudicato penale da parte della Corte capitolina. Ritiene questo Collegio che la questione di diritto prospettata dal ricorrente – quella, cioè, dei rapporti tra giudicato penale di proscioglimento a seguito di declaratoria di improcedibilità per prescrizione del reato possa essere meritevole di più approfondita rimeditazione da parte delle sezioni unite di questa Corte … »

(Cass., Sez. III, ord. 4 gennaio 2010, n. 2, in www.leggiditalia.it).

Il tema della causalità omissiva e di probabilità logica è ben rappresentato nella pronuncia della giurisprudenza di prossimità che segue e si occupa di una lesione del plesso brachiale esitata in paralisi ostetrica in cui è stata ravvisata la responsabilità professionale sia dell'ostetrica, sia della ginecologa.

«In tema di causalità omissiva nella responsabilità professionale del sanitario, per individuare o escludere il nesso causale non ci si può basare esclusivamente sui meri dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, nel senso che non è consentito dedurre automaticamente - proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, essendo invece imposto al giudice il dovere di verificarne la validità nel caso concreto; in definitiva, più che la mera probabilità statistica, ciò che rileva è la probabilità logica, in forza della quale il nesso di causalità deve essere ritenuto allorquando, in termini di certezza processuale, all'esito del ragionamento probatorio, il giudice sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l'azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato o si sarebbe inevitabilmente verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; questo principio può essere esteso al campo della responsabilità civile e non solo penale del medico (nel caso di specie, di parto in esito al quale il bambino riportò una lesione del plesso brachiale all'arto superiore sinistro, si è ritenuto sussistere la certezza processuale in ordine al nesso di causalità tra l'operato dei sanitari, come individuato da c.t.u. e l'evento lesivo: e ciò sulla base di un giudizio fondato su probabilità logica, non essendo stati dedotti né tanto meno dimostrati eventuali fattori eziologici alternativi o concorrenti idonei a determinare il danno in concreto verificatosi, sicuramente di natura traumatica e da porre in riferimento alla condotta tenuta dal personale del nosocomio al momento del parto; è stata conseguentemente affermata la responsabilità professionale sia dell'ostetrica, sia del medico ginecologo, rilevante in chiave di imperizia e di negligenza)»

(Tribunale Reggio Emilia, Sez. II, 16 gennaio 2008, Giud. Provenzano, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it).

In particolare, stante la peculiarità della vicenda, è interessante riportare il passo della motivazione reggiana in cui si affronta l'affermazione di responsabilità dell'ostetrica.

«E' incontroverso che la prima sia stata l'ostetrica che assistette la (omissis) nel parto e praticò sulla partoriente la manovra Kristeller, omettendo l'episiotomia. Il D.M. 15 settembre 1975, recante istruzioni per l'esercizio professionale delle ostetriche prevede, tra le competenze delle ostetriche, l'esecuzione della versione per manovre esterne durante la gravidanza o nel travaglio del parto iniziale, a membrane integre, nella presentazione di spalla, la spremitura del feto nell'utero per facilitare l'espulsione, quando la testa, già ruotata, affiori avva vulva, l'episiotomia per facilitare l'espulsione del feto quando la parte presentata affiori alla vulva" (art. 10). Il compimento di tali manovre esterne, così come la pratica dell'episiotomia suggerita dalla perizia tecnica, rientra quindi tra le attività professionali demandate all'ostetrica. Il regolamento di cui al D.M. 14 settembre 1994, n. 740, dispone inoltre che l'ostetrica "assiste e consiglia la donna nel periodo di gravidanza, durante il parto e nel puerperio, conduce e porta a termine parti eutocici con propria responsabilità e presta assistenza al neonato" e che "nel rispetto dell'etica professionale, gestisce, come membro dell'equipe sanitaria, l'intervento assistenziale di propria competenza", essendo, tra l'altro, "in grado di individuare situazioni patologiche che richiedono intervento medico". A norma dell'art. 4 del D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163, inoltre, l'ostetrica assistente al parto deve richiedere l'intervento del medico ogniqualvolta rilevi fattori di rischio per la madre o per il feto»

(Tribunale Reggio Emilia, Sez. II, 16 gennaio 2008, Giud. Provenzano, in www.leggiditalia.it).

Sotto il profilo strettamente penalistico si segnala la poderosa pronuncia emessa da Trib. Monza, 2 gennaio 2012, Giud. Gallucci, inwww.leggiditalia.it, relativa ad un processo penale in cui erano imputati un medico ginecologo ed un'ostetrica, entrambi di turno in occasione del ricovero presso il nosocomio di Vimercate di una partoriente, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, talché concorrevano nel cagionare il decesso della bimba per sindrome da aspirazione massiva di liquido amniotico e di sangue in neonata a termine, nata mediante taglio cesareo per rottura dell'utero in corso di travaglio.

Il parto fu caratterizzato da gravi ritardi, con evidente sottovalutazione dei rischi materno – fetali.

In particolare, si omettevano, stando al capo d'imputazione, un'adeguata monitorizzazione e sorveglianza ostetrica, nonché la valorizzazione di segni altamente suggestivi di rottura d'utero della partoriente; e si iniziava un'accelerazione del travaglio con ossitocina con modalità e dosi non corrette.

La rottura dell'utero ed il tardivo intervento con taglio cesareo d'urgenza determinavano la compromissione ingravescente dell'ossigenazione del feto, la nascita della neonata in condizioni di battito cardiaco e respiro assenti, pneumopatia diffusa, edema cerebrale acuto ed infine si verificava il decesso della piccola.

Sia il ginecologo che l'ostetrica venivano ritenuti colpevoli del reato di omicidio colposo loro ascritto e, concesse le attenuanti generiche, il Monocratico monzese li condannava alla pena di mesi sei di reclusione.

 

Per una raccolta ragionata di sentenze in tema di danni da risarcire ai bambini ed ai loro familiari per le conseguenze del parto, muovendo dalla materia del danno esistenziale, autorevole dottrina triestina segnala la decisione del Tribunale di Venezia, 10 maggio 2004, inDResp, 2005, 426, che riconosce la responsabilità dei sanitari per aver causato una distocia di spalla al neonato:

«La particolarità della sentenza – a parte quanto diremo subito a proposito del danno esistenziale – consiste nel fatto che la riconducibilità causale del danno all'inadempimento dei sanitari si fonda non su una prova diretta, bensì sul mancato assolvimento dell'onere della prova da parte dei convenuti, i quali non sono riusciti ad escludere la sussistenza di un nesso di causalità tra il danno subito dal bambino e le manovre effettuate dai sanitari in sala parto. E ciò soprattutto a causa della lacunosità della cartella clinica, che non ha consentito di ricostruire con esattezza l'accaduto. Visto lo svolgersi degli eventi (presenza di una difficoltà nell'operazione di disimpegno della testa e delle spalle, inesistenza di alcun danno ipossico) secondo il giudice si può inferire che qualche manovra sia stata compiuta dai sanitari, anche se non è dato sapere chi abbia fatto cosa. Ed è proprio da quest'azione del personale medico che – è logico inferire – sia derivato il danno»

(Bilotta e Ziviz 2009, 8, 372).

Sulla imponente problematica dei fattori di rischio esistenti al momento del parto e della lacunosa redazione della cartella ostetrica si segnala la significativa decisione del Tribunale di Prato, 1 febbraio 2012, in DResp, 2012, 4, 458.

La gestante esponeva di avere informato prima del parto il personale sanitario della presenza di un tampone positivo allo streptococco; nonostante ciò, i sanitari avrebbero omesso di prestare attenzione alla notizia fornita dalla paziente ed alla documentazione prodotta e colpevolmente ritardato le cure, cagionando alla nascitura l'insorgenza di grave patologia (la tetraparesi spastica distonica) che ha reso la piccola del tutto priva di autonomia nei movimenti e del linguaggio.

Il giudice monocratico, dopo aver inquadrato la questione della qualificazione del rapporto giuridico intercorrente fra il nosocomio e la paziente, affronta le peculiarità che qui interessano.

Talché, viene accolto l'orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel corso dell'ultimo decennio che annovera nel paradigma di cui all'art. 1218 c.c. la responsabilità per inadempimento delle prestazioni mediche, sia da parte del singolo medico, sia da parte della struttura sanitaria nel suo complesso, con la conseguenza del configurarsi di una sequela di obblighi di protezione o accessori anche nei confronti del nascituro.

Delineata la natura contrattuale del rapporto interagente fra le parti, viene preso in esame il tema del riparto dell'onere probatorio.

In conformità con i principi stabiliti dal S.C. a Sezioni Unite con la pronuncia n. 13533 del 2001 viene affermato che, a fronte dell'allegazione circa l'inadempimento da parte dell'attrice, che agiva in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla piccola tetraplegica, spetta alla struttura sanitaria convenuta dare la prova di avere svolto tutte le prestazioni necessarie a scongiurare gli esiti della patologia contratta dalla bimba ovvero della mancata sussistenza del nesso di causalità fra la condotta e l'evento pregiudizievole.

Nella fattispecie viene negato che il personale sanitario abbia svolto con diligenza la prestazione, in considerazione dell'omessa indicazione nella cartella clinica ostetrica dei risultati dei test eseguiti dalla partoriente in gravidanza e della conseguente mancata valutazione dei fattori di rischio al momento del parto.

Ad opinare del giudicante toscano, con riferimento al nesso di causalità è necessario valutare tanto la probabilità statistica, secondo la logica del "più probabile che non", quanto la probabilità logica, consistente nell'accertare l'insussistenza di fattori eziologici alternativi.

Nella fattispecie concreta sottoposta al Tribunale di Prato nella pronuncia del 1° febbraio 2012 la condotta negligente della struttura nosocomiale viene ascritta all'alveo della causalità omissiva sotto un duplice aspetto: quello dell'anamnesi, relativa all'omessa indicazione ed alla mancata valutazione delle analisi e delle notizie informative rese proprio dalla gestante, e quello riguardante la mancata somministrazione di cure a vantaggio della neonata.

Accertato che l'azione doverosa omessa avrebbe scongiurato l'evento nel 70% dei casi ed esclusa la ricorrenza di decorsi causali alternativi, il Tribunale conclude per la sussistenza del nesso causale fra l'infezione contratta dalla partoriente, l'omessa corretta anamnesi della medesima, la mancata, tempestiva somministrazione di cure alla madre ed alla neonata e l'evento lesivo purtroppo concretizzatosi.

Corte dei Conti Lombardia, Sez. giurisd., 12 giugno 2000, n. 777, inwww.plurisonline.it, configura comportamento gravemente colposo non solo per imprudenza, ma anche per carenza di diligenza "in vigilando" e "in commettendo", la condotta dell'aiuto primario, il quale, preposto al parto in una struttura pubblica, abbia omesso di usare la speciale apparecchiatura per il monitoraggio, allontanandosi poi dalla sala parto per altre incombenze, e rispondendo, anche per questo, della condotta della equipe ostetrica della quale era coordinatore, con conseguente sofferenza del feto ritenuta causa unica della grave patologia subito evidenziatasi nella neonata.

Soggiunge Corte dei Conti Toscana, Sez. giurisdiz., 27 settembre 2002, n. 676, in www.plurisonline.it, che ricorre la responsabilità amministrativa dei medici ginecologi che, in presenza di dati clinici ed anamnestici a disposizione (così come segnalato dalla c.t.u. redatta nel corso del giudizio civile) che consigliavano di ricorrere al taglio cesareo, hanno proceduto, con la paziente assistita, al parto per via vaginale, a seguito del quale si sono verificati significative lesioni traumatiche a carico del neonato comportanti rilevanti postumi permanenti invalidanti della futura capacità lavorativa; talché, nell'attività di assistenza al parto sussiste sia la responsabilità dei medici ginecologi sia quella dell'ostetrica che, pur non potendo assumere scelte di stretta competenza medica (quale quella di eseguire o meno l'intervento cesareo), partecipa alla effettuazione di una prestazione sanitaria che non solo è vietata dalle norme regolanti l'attività professionale di tale categoria, ma per la quale è espressamente previsto l'obbligo di richiedere l'intervento del medico.

Come già rilevato, il S.C. ha avuto occasione di emanare la seguente ordinanza in tema di responsabilità sanitaria: l'attore


«con citazione dell'ottobre 1992, ha convenuto dinanzi al Tribunale Civile di Latina (omissis) esponendo che, nel (omissis) era deceduta la propria consorte a seguito di complicanze sopravvenute nel dare alla luce la figlia, e chiedendo, per l'effetto, il risarcimento dei danni; il giudizio penale precedentemente instauratosi a carico della convenuta (oltre che del ginecologo chiamato ad assistere al parto), nel quale egli si era costituito parte civile, si era concluso con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dopo che il giudice di appello aveva ritenuto il decesso della moglie ascrivibile a colpa di entrambi gli imputati, rispettivamente nella misura del 60% quanto al ginecologo e del 40% quanto alla ostetrica, con sentenza confermata dalla Corte di legittimità, che, nel respingere il ricorso degli imputati, aveva altresì annullato le statuizioni civili della sentenza d'appello, essendo mancata in primo grado una condanna anche generica al risarcimento dei danni cagionati dal reato in favore della parte civile (la C. - n.d.r.: l'ostetrica - era stata, difatti, assolta in primo grado per insufficienza di prove, mentre il ginecologo aveva, in corso di giudizio, risarcito i danni in via transattiva); il tribunale adìto aveva accolto la domanda, confermando la statuizione del giudice penale quanto all'accertamento della colpa concorrente della convenuta nella misura del 40%; la Corte d'appello di Roma, accogliendo in parte l'impugnazione della C., aveva viceversa ridotto tale percentuale al 10%, ritenendo non vincolante il giudicato penale in parte qua; avverso tale pronuncia ha proposto ricorso, tra gli altri, M.G. (n.d.r: l'attrice), lamentando la violazione del giudicato penale da parte della Corte capitolina. Ritiene questo Collegio che la questione di diritto prospettata dal ricorrente – quella, cioè, dei rapporti tra giudicato penale di proscioglimento a seguito di declaratoria di improcedibilità per prescrizione del reato possa essere meritevole di più approfondita rimeditazione da parte delle sezioni unite di questa Corte … »

(Cass., Sez. III, ord. 4 gennaio 2010, n. 2, in www.leggiditalia.it).

Riguardo all'ostica problematica dell'obiezione di coscienza, la giurisprudenza ha delineato sotto il profilo oggettivo quali siano le "attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza", con esclusione di quelle antecedenti e successive all'intervento, interpretando la normativa di settore in senso restrittivo, escludendo, ad esempio, l'obiezione di coscienza del medico che si era rifiutato di compiere un elettrocardiogramma o quella peculiare dell'ostetrica che si era rifiutata di predisporre il campo sterile per l'effettuazione dell'aborto, con condanna in entrambi i casi per omissione/rifiuto di atti d'ufficio, a mente dell'art. 328 c.p..

Interessante ed emblematica si rivela la pronuncia del TAR Molise Campobasso del 4 agosto 2011, n. 521, in tema di utilizzo delle ostetriche in sala operatoria in occasione di interventi chirurgici di ostetricia e ginecologia; ne tratta la dottrina:

«Alcune ostetriche dipendenti di un'azienda sanitaria locale, assumendo di essere utilizzate sistematicamente anche come infermiere e ferriste nella sala operatoria, avevano chiesto all'amministratore e al direttore sanitario dell'Ausl, nella loro qualità di responsabili dell'organizzazione dei reparti, di essere escluse dal novero del personale infermieristico adibito al blocco operatorio. Avverso il rifiuto a provvedere nel senso richiesto propongono ricorso al Tar, che lo rigetta. Premesso che dalla documentazione versata in atti risulta che in effetti l'impiego delle ricorrenti in sala operatoria è solo occasionale e reso necessario dalla necessità di fronteggiare situazioni di emergenza, osserva che le ostetriche sono abilitate a svolgere tutti i compiti infermieristici professionali, anche nel blocco operatorio, ove utilizzato per interventi chirurgici di ostetricia e ginecologia, non sussistendo disposizioni che limitino le prescrizioni di cui all'art. 7, d.p.r. 7 marzo 1975, n. 163 ai soli casi di necessità e urgenza. Afferma, richiamando principi già da tempo affermati dalla giurisprudenza del giudice amministrativo (Tar L'Aquila, 20 gennaio 1998, n. 141; Tar Napoli, Sez. IV, 10 ottobre 1991, n. 291), che detta normativa consente all'ostetrica di svolgere anche le attività tipiche degli infermieri professionali, purché in connessione alla propria attività di assistenza alle gestanti, con la conseguenza che l'attività di ostetrica può occasionalmente assorbire le mansioni dell'infermiere professionale, senza che ne derivi un demansionamento delle loro funzioni. Aggiunge, e il rilievo è assorbente, che ai sensi dell'art. 40, d.p.r. 27 marzo 1969, n. 128 l'assistenza al parto propria delle ostetriche comprende anche i compiti di sala operatoria, alle dipendenze dei sanitari di ostetricia e ginecologia, con il solo limite di non imporre alle stesse di svolgere in via ordinaria e continuativa le mansioni proprie degli infermieri professionali»

(Ferrari 2011, in GDAmm, 2011, 10, 1129).

La giurisprudenza penale di merito, con recentissima pronuncia del Tribunale di Macerata, depositata il 9 giugno 2014 (Giud. Zampetti) con riferimento al decesso di una partoriente, ha avuto occasione di prendere in esame il caso di un'ostetrica imputata, oltre alla cooperazione colposa con i medici ginecologi ed un'infermiera, anche del delitto di cui agli artt. 476, 493 c.p. perché, nella qualità di addetta all'unità operativa di ostetricia e ginecologia dell'Ospedale di Recanati, e quindi incaricata di pubblico servizio, alterava la cartella clinica inerente il ricovero della paziente B.A., da considerarsi atto pubblico, mediante cancellazione, rettifica e parziale sovrascrittura dei dati relativi ai valori di perdita ematica, polso e pressione arteriosa rilevati nel corso del terzo controllo post partum:


«appare chiaro come gli elementi raccolti non consentano di fondare un giudizio certo di colpevolezza delle odierne indagate. In primo luogo, va rilevato come gli stessi consulenti del PM non imputino direttamente a G.S. la responsabilità di quanto occorso a B.A. I suddetti, invero, … hanno rilevato – da un lato – la mancanza di una pronta assistenza della donna, una volta diagnosticato che la stessa si trovava in un iniziale stato di shock, di per sé già sintomatico della presenza di una emorragia interna, e – comunque – il ritardo nell'esecuzione del necessario intervento che, eseguito dopo oltre due ore, venne effettuato quando le condizioni della paziente si erano indubbiamente aggravate, tanto che, trascorsi solo cinque minuti dall'inizio dell'operazione chirurgica, la donna subiva un arresto cardiocircolatorio che le provocava quelle gravi lesioni cerebrali che sono poi state la causa del suo decesso. Ed il fatto che tali carenze non siano state addebitate alla ostetrica ed alla infermiera presenti al momento del fatto risulta ovvio non solo in considerazione degli obblighi che la legge impone a dette qualifiche professionali, ma anche della concreta situazione verificatasi al momento in cui si sono resi evidenti i primi allarmanti sintomi di malessere della donna. Quanto al primo aspetto, è sufficiente rilevare come in capo alla G. e alla G. – quali garanti del bene salute della paziente – esistesse certamente un obbligo di individuare la situazione di rischio e di sollecitare l'intervento medico, ma non già anche un dovere di intervenire in autonomia una volta che detta condizione si era palesata. Tale obbligo di condotta, invero, può dirsi sussistente, avuto riguardo al ruolo rivestito dalle imputate, solo in presenza di una situazione di assoluta emergenza che di per sé necessitasse un intervento indifferibile che comunque rientrava nei limiti delle rispettive conoscenze e mansioni.  … Ciò chiarito, con riguardo, invece, alla contestazione di cui al capo B), deve essere rilevato come l'azione posta in essere dall'imputata G. non possa essere giudicata idonea ad integrare, sia sotto il profilo materiale, che psicologico, il delitto di falso. In merito, è noto l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui "le modifiche o aggiunte in un atto pubblico come la cartella clinica configurano il reato di falso materiale ancorché il soggetto abbia agito allo scopo di ristabilire la verità effettuale" (v., ex multis, Cass. pen., Sez. V, sentenza n. 37314 del 29 maggio 2013). Nella fattispecie, però, non può essere affermato che tra le due azioni attuate dall'imputata, e consistite rispettivamente nel trascrivere i primi dati, e successivamente nell'apportare alcune correzioni, sia trascorso un lasso temporale tale da poterne desumere che la cartella clinica sia uscita dalla sua sfera di disponibilità, ed abbia quindi acquisito il valore documentale che gli è proprio …perché vi sia un falso rilevante, invero, è necessario che vi sia un atto definitivamente formato, uscito quindi dalla sfera di disponibilità del suo autore, e dunque in grado di produrre i suoi effetti, e che l'alterazione si riveli in concreto capace a ledere l'interesse tutelato dalla genuinità del documento. E ciò non è evidentemente accaduto nel caso in esame. In virtù di tali argomentazioni, G.S. deve dunque essere assolta anche dal reato a lei contestato al capo B) dell'imputazione sopra descritta … »

(Trib. Macerata, sent. 9 giugno 2014, n. 140, Giud. Zampetti, inedita).

 


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