Data: 20/11/2014 09:30:00 - Autore: Dott. Zulay Manganaro

Dott.ssa Zulay Manganaro 

L'articolo 345 cpc, c. 3, nel subordinare l'ammissione di nuovi mezzi di prova in grado di appello alla condizione che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero, in via alternativa, che la parte dimostri di non averli potuti proporre in primo grado per causa ad essa non imputabile, stabilisce sul piano generale il principio dell'inammissibilità di mezzi di prova “nuovi”, cioè di mezzi di prova la cui ammissione non sia stata richiesta in precedenza. Il requisito dell'indispensabilità prescritto dall'articolo 345, c. 3, cit. costituisce, infatti, un quidpluris rispetto a quello della rilevanza, cui l'articolo 184 cpc comma 1 (nel testo applicabile ratione temporis al giudizio in esame, anteriore alle modificazioni introdotte dal d.l. 14 marzo 2005, n. 355, convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80) condiziona in via generale l'ammissione dei mezzi di prova, presupponendo che, in quanto di per sé sufficiente a provocare un ribaltamento della decisione, il mezzo istruttorio sia dotato di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove dedotte o prodotte in primo grado hanno sulla decisione finale della controversia.   

In un giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento di una Spa, proposto da altra Spa richiedente ammissione al passivo di un credito per un ammontare di lire 4'034'405.690 (scaturito da un'operazione di finanziamento per sconto di polizza di credito commerciale), domanda, rigettata per insufficienza di prova (e meglio ritenuti non bastevoli: copia del decreto ingiuntivo, dell'atto di precetto e successivo pignoramento immobiliare, copia degli estratti dei conti correnti, dei partitali contabili e dell'elenco dei fornitori), viene proposto gravame ritenuto inammissibile dalla Corte d'Appello poiché ai sensi dell'art. 345 cpc, quest'ultima valuta la documentazione depositata dall'appellante a integrazione di quella prodotta in primo grado, come già prodotta nel procedimento monitorio e osserva che nel giudizio di appello sono ammesse esclusivamente le prove che le parti dimostrino di non aver potuto proporre in precedenza per cause a esse non imputabili nonché di quelle indispensabili ai fini della decisione. Nel medesimo contesto, che esulerà tuttavia dall'argomento incentrato sull'art. 345 cpc, viene richiamato anche l'art. 2704 c.c. giacché alcuni documenti, si rileva, sono privi di data certa.

Tra i motivi della decisione si qualifica “prioritario” il secondo motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 345 cpc, c. 3 anche in relazione al n. 5 dell'art. 360 cpc, c. 1. Con tale motivo, si lamenta inammissibilità ingiustificata di documentazione integrativa

Facendo alcuni passi indietro, si può giungere a spiegare il principio enunciato dalla Suprema Corte e ripercorrere (molto brevemente) l'evoluzione dell'effetto devolutivo dell'appello il quale è andato restringendosi da una riforma all'altra e diventando via via più specifico, incanalandosi entro un ambito ben delimitato da alcune norme “chiave”.

Uno degli aspetti tipici dell'appello era, tra gli altri, quello sospensivo della esecutività della sentenza di primo grado, superato con riformulazione da parte della novella attuata con la legge 353/1990, degli art. 282 cpc e 337 cpc. Altro carattere tradizionale dell'appello era la sua apertura ai nova.

Se il codice di procedura civile del 1940 ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico il principio di preclusione e, di conseguenza, una serrata ai nova in appello, con la riforma attuata nel 1950 si verifica un'inversione di tendenza che determina una riapertura alle novità in detta sede. E meglio, la possibilità di proporre nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova, rendendo tale mezzo di gravame una sorta di prosecuzione del giudizio di primo grado.   

Così, dopo la legge istitutiva del rito laburistico (n. 533/1973), una prima espressiva modifica  all'istituto dell'appello è stata apportata proprio dalla legge n. 353/1990 che l'art. 345 cpc ha riformulato, ispirandosi alla norma che disciplina l'appello nel rito del lavoro, vale a dire l'art. 437 cpc.

Il legislatore del 1990 ha voluto ripristinare il carattere di revisio prioris instantiae dell'appello.

Se in passato, il carattere devolutivo dell'appello era spiccato e davvero ampio, oggi è parecchio limitato dall'art. 345 cpc così come novellato. La ragione di questa nuova formulazione va individuata nella volontà di assimilare la disciplina del ius novorum al giudizio di primo grado relativamente alle preclusioni sulle deduzioni di merito e su quelle istruttorie.

Recita il primo comma dell'art. 345 cpc: “Nel giudizio d'appello non possono proporsi nuove domande e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d'ufficio (divieto dello ius novo rum”). Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata , nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”.

Quindi se nuove domande sono proposte non devono neppure essere esaminate, fatte salve quelle che costituiscono uno sviluppo logico, cronologico, insomma una revisione, un aggiornamento delle domande già proposte, con lo scopo di evitare l'instaurazione di un nuovo giudizio, ad esempio, che implichi il calcolo degli interessi maturati o i danni sofferti, dopo la sentenza impugnata. La violazione di detto divieto può essere rilevata anche nel giudizio di Cassazione (con esclusione dell'accettazione del contraddittorio).

In quest'ottica sono state considerate nuove domande, ad esempio, perché fondate su diversa causa petendi, le domande che non costituiscono un “naturale sviluppo” del fatto iniziale o a esso collegate (così, Cassazione n. 6198/2005).

Pertanto, è stata considerata come nuova la domanda di restituzione del doppio della caparra dopo pronuncia in primo grado della risoluzione del contratto o l'esercizio del recesso (Cassazione n. 13000, 27 maggio 2010).

Ora, il divieto di nuove domande in appello, fondamentalmente, è sempre stato previsto al fine di garantire che tale grado di giudizio si svolga sul medesimo oggetto del primo e sia un riesame della stessa causa. Per decretare quando si è in presenza di domanda nuova si fa riferimento agli elementi di identificazione della domanda giudiziale: soggetti, oggetto, titolo (personae, petitum,  causa petendi). Il mutamento anche di un solo elemento determinerà una nuova domanda, mentre ciò non accadrà se a mutare è la qualificazione giuridica del fatto che potrà essere compiuta dal giudice, fermi restando i fatti.  Tuttavia, ormai da tempo, gli approdi sia di giurisprudenza sia di dottrina generano ampi margini di incertezza in proposito. All'atto pratico, si devono confrontare la domanda dedotta in primo grado come formulata in udienza di precisazione delle conclusioni, con quella proposta nel secondo grado di giudizio. Ovvero, si individuano fatti costitutivi e oggetto (mediato e immediato) di entrambe le domande. In questo ambito, soccorrono alcuni criteri orientativi quali la distinzione tra diritto autederminati ed etero determinati; il chiedere al giudice in sede di sentenza di riforma – pur in presenza di identità di soggetti – contenuti differenti (ad esempio, si considera domanda nuova la richiesta in primo grado di sentenza di accertamento e in secondo grado, pronuncia avente natura costitutiva).  

L'ammissione di domande in appello riguardanti interessi, frutti e accessori maturati dopo la sentenza impugnata, ivi compreso il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza medesima, non va intesa come eccezione al divieto contemplato dal comma 1 dell'art.345 cpc, poiché – secondo prevalente giurisprudenza – detta norma si applica quando il risarcimento sia già stato chiesto in primo grado per danni maturati precedentemente. 

Rammentiamo che il divieto di nuove domande non si estende a quelle dei terzi ammessi a intervenire la prima volta proprio in appello, vale a dire quei terzi che in virtù dell'art. 344 cpc sono legittimati a proporre opposizione ordinaria ex art. 404 cpc, c.1 (pertanto, quei soggetti titolari di un diritto autonomo e incompatibile rispetto a quello controverso tra le parti).

A loro volta, non sono proponibili nuove eccezioni, come recita il secondo comma dell'art. 345 cpc, con esclusione di quelle rilevabili d'ufficio, perciò soprattutto le eccezioni di merito in senso stretto. Se ne deduce che le eccezioni in senso lato siano rilevabili anche in appello da parte del giudice, ammettendosi il convenuto a sollecitare l'esercizio di questo potere.

Gli orientamenti formatisi attorno alla questione: quali siano le eccezioni ammissibili o meno sono differenti.  Secondo quello più liberale, le eccezioni non riservate all'iniziativa delle parti, proprio in considerazione della loro operatività ipso iure, possono essere rilevate dal giudice in ogni stato e grado del processo, cosicché sono in grado di essere allegate per la prima volta in appello dalle parti.

Un pensiero più severo, invece, si richiama al principio di allegazione in forza del quale il giudice può attribuire l'effetto sostanziale atteso dalla legge soltanto al fatto allegato e provato. Detto principio non può agire in maniera diversa rispetto alle due species di eccezioni (quelle appunto in senso stretto e in senso lato). Ne consegue che le eccezioni rilevabili d'ufficio sono fatte salve se i fatti che danno corpo a quelle eccezioni sono stati ritualmente e tempestivamente dedotti nel giudizio di primo grado. Vi è una posizione intermedia che considera ammissibili le eccezioni, così rilevabili dal giudice di appello, che pur non sollevate in primo grado risultino da documenti e prove in questo dedotti.

Il comma 3 dell'art. 345 cpc recita: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio”.

Anteriormente alla riforma attuata con il ricordato “decreto sviluppo”, convertito in legge 134 del 2012, la stessa disposizione conteneva un'altra deroga a questa regola generale.

Erano infatti ammessi quei mezzi di prova che il collegio ritenesse indispensabili ai fini della decisione della causa.

Dopo l'intervento del legislatore del 2012, le deroghe sono ridotte a due: la prima si verifica quando la parte dimostri di non aver potuto produrre in giudizio nuovi mezzi di prova e nuovi documenti per causa a essa non imputabile; la seconda – di minor rilievo – riguarda la possibilità di poter sempre deferire il giuramento decisorio.

Sappiamo che una prova è considerata nuova qualora la relativa ammissione non sia già stata richiesta nel giudizio di primo grado; quando il mezzo di prova è diverso rispetto a quello preferito nel precedente grado o ancora quando col medesimo mezzo ci si proponga di provare un fatto diverso.

Notoriamente, la dottrina ha cercato, con sforzi considerevoli, di dare sostanza al requisito dell'indispensabilità. Scopo di quest'opera interpretava è stato quello di non far aderire il significato di “indispensabile” a quello di “rilevante” ed evitare “rimessioni in termini” delle parti decadute che non fossero giustificate.

Sembrava, dunque, potessero ammettersi le prove cruciali, le prove in grado da sole da sovvertire l'esito della prima sentenza, mettendone in luce l'ingiustizia; quel mezzo di prova volto a comprovare l'esistenza o l'inesistenza di fatti tali che se il giudice di primo grado avesse preso in considerazione, avrebbe adottato una decisione differente; prove talmente incisive sulla fattispecie oggetto del giudizio da mostrare come verosimile quanto la mancata considerazione abbia segnato la decisione giudiziale.

Infine, un accenno ai nuovi documenti. La giurisprudenza sviluppatasi attorno al 3° c. art. 345 cpc, ammetteva senza limiti la produzione di nuovi documenti, per motivi di economia processuale, partendo dal presupposto che la prova documentale, in quanto precostituita non comportasse dispendio di tempo ed energie, non richiedendo attività giudiziale di assunzione. Secondo questo modo di concepire i nuovi documenti, in effetti, non si aggravavano i tempi di trattazione dell'appello.  Tuttavia, la struttura del contraddittorio, per sua natura , prevede che le altre parti possano contro dedurre se documenti vengono prodotti nei loro confronti, sia pur se pertinenti con altre prove che non siano solo documentali bensì anche costituende.

Con le sentenze nn. 8202/2005 per il rito del lavoro e 8203/2005 per quello ordinario, le sezioni unite della Cassazione, contrariamente all'orientamento sino ad allora prevalente, affermano il principio per cui i limiti preclusivi all'acquisizione di nuove prove in appello valgono tanto per le prove costituende, quanto per quelle precostituite. Altrimenti detto, in entrambi i riti, i nuovi documenti saranno considerati ammissibili in appello ove il giudice li consideri “indispensabili” per la decisione della causa.  A questa posizione si è conformato il legislatore del 2009 che ha recepito ed esplicitato il divieto della nuova produzione documentale, salvi i casi previsti dalla medesima norma.

Da quest'ultima, come sopra accennato, la legge di conversione del decreto sviluppo n. 83 del 2012, l. 134/2012, ha eliminato l'inciso riferito ai mezzi di prova “indispensabili per la decisione” (mantenuti invece nel rito sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss cpc).

Uniche prove che oggi la parte può proporre in appello sono quelle che la parte stessa dimostri non aver potuto proporre nel giudizio di primo grado per causa a essa non imputabile.

Mandrioli osserva che tale unica ipotesi e la sua salvezza costituiscono un utilizzo ulteriore dello strumento della rimessione in termini, fondata sulla non imputabilità della ragione della decadenza e che il medesimo utilizzo è irragionevolmente escluso anche per la proposizione delle eccezioni che la parte, sempre per ragioni a lei non imputabili, non ha potuto proporre in primo grado.      

Nell'affrontare i motivi di ricorso, Cassazione sottolinea come, conformemente all'indirizzo giurisprudenziale codificato, subordinando l'ammissibilità di nuovi mezzi di prova alle condizioni previste dal terzo comma dell'art. 345 cpc, la stessa norma esprima il principio generale del divieto di nuovi mezzi di prova, toccando nell'ambito del motivo di ricorso esaminato il quidpluris contenuto nel concetto di “indispensabile” rispetto a quello della “rilevanza” (ammissibili, in precedenza, erano in effetti le prove ritenute rilevanti da parte del giudice).

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