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Data: 19/01/2015 11:00:00 - Autore: Maurizio Tarantino di Maurizio Tarantino - Corte di Cassazione n. 203 del 12 gennaio 2015. Il datore di lavoro ricorre al licenziamento collettivo (meglio definito “collocazione in mobilità”) quando, per motivi di crisi, ristrutturazione aziendale o chiusura di un settore produttivo si vede costretto a ridurre il personale. Nella particolare ipotesi di chiusura di un settore produttivo, il datore deve verificare se i lavoratori ad esso addetti possano essere, piuttosto che licenziati, trasferiti in altri settori produttivi per i quali è richiesta la stessa professionalità. Con riferimento a questo aspetto, occorre capire entro quali limiti il datore di lavoro sia obbligato a tentare di riutilizzare il lavoratore, il cui posto è stato soppresso per via della crisi aziendale. Per meglio dire, affinché un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo sia legittimo, e quindi, affinché si possa escludere ogni possibilità di reintegra da parte del Giudice del Lavoro, è necessario che il datore di lavoro effettui un riassetto organizzativo dell'azienda effettivo e non pretestuoso, ovvero un'operazione posta in essere con il solo fine di aggirare la normativa sui licenziamenti individuali e liberarsi di personale non gradito (configurando così i casi del motivo illecito discriminatorio); in realtà, quello appena descritto è solo il primo elemento poiché il datore deve comunque dare prova di aver verificato, all'interno dell'intera struttura aziendale, comprensiva di tutte le unità locali di non essere stato in grado di riassorbire il lavoratore che si appresta a licenziare: ecco quindi definito il “cd. obbligo di repechage”. Consolidata giurisprudenza ha confermato espressamente che il licenziamento è valido solo se il lavoratore non può essere impiegato in altro modo o settore, tenuto anche conto della possibilità anche di un demansionamento ex art. 2103 cod. civ. risultante da atto scritto (cfr. Cass. 8.2.2011, n. 3040; Cass. 28.3.2011, n. 7046; Cass. 17.11.2010, n. 23222; Cass. 26.3.2010, n. 7381); quest'ultimo rappresenta il caso limite, poiché ammissibile solo ed esclusivamente se il demansionamento rappresenta l'unico modo attraverso il quale il lavoratore possa mantenere il posto di lavoro. Orbene, alla luce di tutto quanto innanzi esposto, la Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 203 del 12 gennaio 2015, ritornando su tale problematica, ha confermato e precisato che “se un'azienda riduce il personale attraverso un licenziamento collettivo, ma ben poteva invece ricollocare i dipendenti in un altro settore o unità operativa, il provvedimento espulsivo è illegittimo”. Nel caso in esame, la Corte di Appello di Catania, riformando in parte la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda dei lavoratori e per l'effetto ne ordinava la reintegrazione (con tutte le conseguenze di cui all'art. 18 Le. 300/1970) in quanto, secondo la Corte, parte datoriale non aveva dimostrato i criteri di scelta di come aveva operato in merito alla dismissione del reparto; ergo, la scelta non era stata effettuata avendo riguardo a tutto l'organico aziendale. A tal riguardo, gli ermellini, su tale punto, hanno meglio precisato che qualora il progetto di ristrutturazione aziendale (art. 5 l. n. 233/91) riguardi un unico comparto dell'impresa, è legittimo il licenziamento collettivo che coinvolga solo i lavoratori di quel settore, non anche quelli degli altri rami d'azienda ; tuttavia, sottolinea la Suprema Corte , il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da licenziare al solo ramo aziendale dismesso se tali dipendenti sono in possesso di capacità e conoscenze tecniche tali da consentirgli di essere collocati in altri settori dell'azienda (cosiddetto repechage). Il possesso di professionalità diverse, acquisite negli anni, consente ai lavoratori di un comparto aziendale prossimo alla chiusura di essere reimpiegati con profitto in altri settori. In presenza di tali circostanze, il datore di lavoro che voglia operare dei tagli del personale deve prendere in considerazione, ai fini del licenziamento, non solo i dipendenti del settore soppresso, ma a tutti i lavoratori dell'azienda. In virtù delle considerazioni svolte, si evidenzia che secondo tale pronuncia, è illegittimo quel licenziamento collettivo compiuto senza tenere conto di questi elementi, perché viola i criteri di scelta (come carichi di famiglia, anzianità e esigenze tecnico-produttive ed organizzative) che l'imprenditore deve seguire in merito alla riduzione del personale. Maurizio Tarantino |
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