Data: 23/01/2015 15:00:00 - Autore: Cristina Bassignana

A cura dell'avv. Cristina Bassignana 
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La pratica venatoria di richiami vivi consiste nell'utilizzare delle allodole che vengono imbragate e legate con una cordicella alla quale viene impresso uno strattone che le fa sollevare in volo e poi ricadere pesantemente a terra.

Sulla liceità o meno di questo comportamento esistono due contrapposti orientamenti giurisprudenziali.

Un indirizzo ritiene prevalente l'interesse di garantire l'esercizio della caccia: se la Legge n. 157/1992 consente una determinata pratica venatoria, allora non può integrare gli estremi del reato di cui all'art. 727 c.p. in quanto il fatto risulta scriminato dall'art. 51 c.p. costituendo l'esercizio di un diritto; l'orientamento opposto, invece, ritiene che l'intervenuta modifica dell'art. 727 c.p. abbia introdotto l'ulteriore divieto di tenere condotte maltrattanti verso l'animale da utilizzare come richiamo o verso la preda catturata.

La Cassazione penale, sezione III, con sentenza del 13.01.2015 n. 950, ha aderito a questo secondo orientamento rigettando il ricorso di un cacciatore condannato per maltrattamenti verso delle allodole durante l'uso, a scopo venatorio, di richiami vivi. Le allodole, in seguito, sono state soppresse dal veterinario per le condizioni di oggettiva sofferenza in cui si trovavano.

A seguito della modifica dell'art. 727 codice penale gli animali non sono più considerati l'oggetto materiale del reato ma costituiscono il bene giuridico protetto essendo destinatari di una tutela diretta orientata a considerarli come essere viventi dotati di sensibilità psico – fisica.

Ne consegue che integra sevizia la condotta di chi usa le allodole imbragate e legate con una cordicella, alla quale viene impresso uno strattone, che le faccia sollevare in volo e poi ricadere ripetutamente a terra.

Qui sotto il testo della Sentenza della Cassazione Penale, sezione III, 13.01.2015 n. 950

Avv. Cristina Bassignana



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