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Data: 05/02/2015 11:00:00 - Autore: Avv. Prof. Stefano Lenghi Dipendente di supermercato, senza precedenti disciplinari, colto a consumare confezioni di vino in vendita per soddisfare un bisogno immediato scaturito da insorti problemi familiari: per la Cassazione non sussiste la giusta causa di licenziamento. Avv. Prof. Stefano Lenghi.
1) Il principio affermato dal Supremo Collegio nella fattispecie sottoposta a sua disamina. Con la sentenza 20 gennaio 2015 n.854 la Corte di legittimità torna ad esprimere il suo magistero in materia di giusta causa di licenziamento, affermandone l'insussistenza nel caso di un dipendente di supermercato, immune da qualsiasi precedente disciplinare, che aveva sottratto dagli scaffali delle confezioni di vino in scatola per consumarle nello stesso luogo di lavoro (ed ivi abbandonandone i vuoti) per soddisfare un bisogno immediato e, comunque, limitato, scaturito, secondo le addotte giustificazioni del dipendente stesso, da sopravvenuti problemi familiari di salute, che hanno reso difficile e pesante la sua condizione lavorativa, psicologica ed ambientale. 2) Le vicende processuali, cui la fattispecie ha dato luogo. Una società titolare di un supermercato effettuava contestazione disciplinare al dipendente R.C. avente ad oggetto un addebito (verificato attraverso il personale e le telecamere di sorveglianza), consistito nell'avere il lavoratore, alcune volte durante gli ultimi giorni del mese di settembre 2009, furtivamente sottratto dagli scaffali del supermercato, ove lavorava come addetto alle vendite, alcune confezioni di vino in scatola per poi aprirle e consumarle nei locali dell'esercizio, ivi abbandonandone i vuoti, che erano stati così rinvenuti, dando avvio alle indagini. Contro il provvedimento di licenziamento per giusta causa ricorreva il dipendente al Tribunale di Catanzaro, che, respingendo l'istanza di parte attrice, confermava la validità del provvedimento. Interposto appello, da parte del dipendente, avverso la sentenza del giudice di prime cure, la Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza del 23 settembre 2011, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giusta causa, ordinando la reintegrazione del sig. R.C. nel proprio posto di lavoro e la condanna della Società al risarcimento del danno commisurato all'importo delle retribuzioni maturate e maturande dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva reintegra. A tale pronunzia la Corte territoriale perveniva essenzialmente in considerazione della ritenuta sproporzione tra i fatti addebitati e commessi dal lavoratore e la sanzione irrogata, sproporzione motivata dal concentrarsi delle mancanze in un periodo breve presumibilmente coincidente con la difficile condizione lavorativa, psicologica ed ambientale nella contingenza attraversata dal lavoratore e da questi addotta a giustificazione dell'accaduto, tale da rendere le mancanze stesse insuscettibili, tenuto conto altresì della precedente condotta lavorativa e delle mansioni svolte dal lavoratore, di pregiudicare irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti. Contro tale decisione esperiva ricorso per cassazione la Società, affidando l'impugnazione ad un unico motivo, poi illustrato con memoria, mentre resisteva, con controricorso, il sig. R.C. . 3) Il pensiero espresso dalla Suprema Corte. La Società, con l'unico ed articolato motivo, lamenta, in sostanza, che la Corte d'Appello, nell'escludere la ricorrenza della invocata giusta causa, ha disatteso il canone legislativo che le impone di tener conto delle tipizzazioni al riguardo previste dai contratti collettivi, rinvenibili nel CCNL applicabile all'art.221, che contempla, tra le ipotesi di giusta causa impeditive della prosecuzione anche provvisoria del rapporto, “l'appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi”, sussistendo sia la materialità della condotta, da identificarsi nel reiterato furtivo impossessamento di beni aziendali, sia l'elemento psicologico, improntato alla premeditazione e all'intenzionalità, sia la gravità della condotta insita nel carattere delittuoso della stessa e accentuata dall'atteggiamento inteso pervicacemente a negare la propria responsabilità per tutto l'arco del giudizio per dare rilievo ad elementi sforniti di qualsiasi valenza, come la speciale tenuità del danno, o addirittura apoditticamente, senza motivazione alcuna, ritenuti idonei a porsi quali circostanze attenuanti la responsabilità del dipendente. La Corte di legittimità, dichiarando subito infondato il motivo addotto dalla Società, recepisce pienamente le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale, osservando che la decisione del giudice d'appello si sottrae alle censure della ricorrente e non incorre negli errori di diritto e vizi logici che le vengono attribuiti. Rileva, infatti, il Supremo Collegio che la Corte d'Appello "si rende ben conto della configurabilità della condotta come impossessamento furtivo di prodotti dell'azienda intenzionalmente operato e tale da integrare gli estremi di una azione delittuosa, ma semplicemente supera questi dati nel quadro di una valutazione della proporzionalità della sanzione, che muove dalla derubricazione della stessa condotta da furto di vino a consumo di vino, come ben rileva la stessa difesa della ricorrente, in cui l'azione dell'impossessamento invito domino è meramente funzionale al soddisfacimento di un bisogno immediato e limitato (al più un cartone di vino da un litro al giorno), una condotta che, per essersi manifestata all'improvviso, è idonea a riflettere una anomala condizione di disagio da parte di un lavoratore che in precedenza non aveva suscitato sul lavoro particolari problemi". Chiosa, poi, in particolare, la sentenza de qua che il dare esclusivo rilievo al fatto materiale dell'impossessamento furtivo significa fermarsi ad un semlice antefatto, laddove la condotta appare essenzialmente connotata dalla mera, ancorchè illegittima, finalità di consumo del vino, per cui si è in presenza di una sottrazione completamente funzionale al consumo immediato del bene, alla cui fattispecie quella dell'appropriazione di beni aziendali non appare proprio in alcun modo sovrapponibile. Osserva ancora il Supremo Consesso che, per radicare il paragone sempre nel campo penale, siamo in un certo senso in un'area molto vicina al furto d'uso, per essere stato il fatto commesso su cose di tenue valore. Di qui il rilievo dato dalla Corte territoriale alla tenuità del danno, intendendo essa non certo discostarsi dall'insegnamento del magistero di legittimità (di cui mostra di avere piena consapevolezza), secondo cui la tenuità del danno non è elemento idoneo ad attenuare l'incidenza della gravità del comportamento del lavoratore sul rapporto fiduciario. Anzi, la Corte territoriale fa riferimento proprio a tale elemento per evidenziare che il lavoratore ha deliberatamente scelto il prodotto di più bassa qualità proprio per la preoccupazione di contenere il danno, dal momento che ha agito al fine di provvedere ad un bisogno in qualche misura qualificabile grave ed urgente. Tutto quanto sopra, conclude la sentenza in commento, “abbinato alla considerazione del fattore tempo -viceversa completamente trascurato dalla società ricorrente- ovvero del manifestarsi improvviso del comportamento illecito e del suo concentrarsi in un arco temporale limitato, così da indurre a ritenerlo frutto di una condizione anomala rispetto alla personalità ordinariamente manifestata dal lavoratore, indotta da situazione del tipo di quelle dedotte dal lavoratore -non propriamente qualificabili frutto di una “favoletta”, come vorrebbe la ricorrente, e neppure tutte indimostrate, specie se si ha riguardo alle condizioni di salute dei familiari, della moglie in stato di gravidanza a rischio, del figlio di quattro anni con problemi respiratori, evenienze che non di rado possono spingere ad indulgere a “rimedi” discutibili e socialmente censurabili, ma soggettivamente percepiti come necessario sollievo- ben può valere come esimente o circostanza attenuante, in specie se riguardata alla luce di un pregresso connotato in termini affatto diversi, idoneo ad escludere, anche in considerazione dell'adibizione del lavoratore a mansioni non implicanti particolari responsabilità (la Corte territoriale fa riferimento a compiti di sorveglianza e di tenuta della cassa), quel pregiudizio all'affidamento del datore sull'esatto adempimento delle prestazioni future in cui si concreta il vincolo fiduciario”. 4) Riflessioni in merito al magistero della Corte nella decisione in commento. Volendo formulare una valutazione in punto di diritto sul giudicato oggetto di disamina, diciamo subito che non si può che concordare pienamente con la linea di pensiero espressa dalla Suprema Corte per il seguente ordine di argomentazioni: 4.1) Un plauso al punto-luce confermato dal pensiero giurisprudenziale. La sentenza in questione ci sembra, innanzitutto, veramente pregevole, perchè conferma il punto-luce, condiviso, nella sostanza, da tutto il filone giurisprudenziale di legittimità, secondo cui non esiste una giusta causa presunta (così come non potrebbe darsi il caso di un giustificato motivo presunto, vuoi soggettivo, vuoi oggettivo, di licenziamento). La Suprema Corte torna, precisamente, a ribadire che le tipizzazioni dei contratti collettivi, che prevedono che un determinato comportamento-tipo (come, nella specie, l'appropriazione, nel luogo di lavoro, di beni aziendali o di terzi) sia di tale gravità da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro e suscettibile, quindi, di condurre ad un licenziamento per giusta causa, hanno valore meramente esemplificativo. Poichè, infatti, la nozione legale di “giusta causa”, secondo la ricostruzione logico-sistematica operata dall'elaborazione del pensiero giurisprudenziale, inerisce ad un comportamento colpevole del lavoratore di tale gravità da compromettere irrimediabilmente ed irreversibilmente il rapporto fiduciario tra datore e lavoratore, anche per il futuro (ovverosia di tale gravità da porre in dubbio anche ogni possibilità del prestatore di comportarsi in futuro correttamente), è chiaro che -sembra voler ribadire la Corte di legittimità e ribadiamo anche noi- il comportamento stesso dev'essere valutato, non in relazione alla descrizione della condotta-tipo astrattamente delineata (per giungere ad es., ad affermare che l'appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi, concretando una condotta di tipo furtivo, è, in sè e per sè, un fatto di rilevanza penalistica, che, come tale, desta allarme sociale, per cui non consente più di riporre fiducia nel lavoratore), bensì alla luce di tutte le circostanze del caso concreto. E valutare un fatto alla luce delle circostanze del caso concreto significa considerarlo non solo per come si è estrinsecato sotto il profilo della condotta oggettiva, materiale (già, comunque, significativa per ciò che si desume dalle modalità del suo concreto atteggiarsi), ma anche sul piano dell'intensità del dolo o della colpa (determinando se è stato commesso con semplice consapevolezza o addirittura con premeditazione, o per leggerezza, superficialità, imprudenza o distrazione) e sul piano delle circostanze aggravanti o attenuanti, che possano aver influenzato o addirittura indotto il lavoratore a tenere quella determinata condotta, come l'aver agito per effetto di una grave situazione di bisogno o di disagio o di dramma personale o familiare o, comunque, di stabile o temporanea alterazione delle condizioni psicologiche o della personalità, dovuta, ad es., ad uno stato di povertà o di indigenza o di crisi coniugale o familiare o al cattivo stato di salute personale o di familiari o l'aver agito perchè in istato di timore o di provocazione o addirittura per motivi abietti, ecc.). E' solo, infatti, una valutazione del comportamento sul piano di tutto il complesso dei richiamati profili oggettivi e soggettivi e delle suesposte circostanze, che può consentire di formulare una valutazione in merito alla definitiva compromissione, anche per il futuro, dell'elemento fiduciario. Del tutto privo di giuridico fondamento è, pertanto, il rilievo (su cui la ricorrente ha imperniato l'articolazione delle sue tematiche defensionali), alla luce del quale la Corte d'Appello ha errato nel disattendere il canone legislativo che le impone di tener conto delle tipizzazioni previste dai contratti collettivi ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa, giacché il richiamato canone legislativo impone di valutare il fatto, come si è precisato, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto ovverosia di tutti i surrichiamati criteri, nonchè, aggiungiamo, anche del pregresso vissuto aziendale del dipendente (onde verificare il grado di impegno e di diligenza dal medesimo in precedenza espresso e se il medesimo sia o meno immune da precedenti disciplinari), perchè solo così è possibile valutare, in piena buona fede, onestà e correttezza, se il lavoratore è persona nella quale un datore debba poter ancora riporre la sua fiducia, anche per il futuro (la tematica in questione è stata affrontata e sviluppata anche nel nostro precedente intervento, pubblicato su www.studiocataldi.it il 19 novembre 2014, dal titolo “Commessa che, mediante accorgimento fraudolento, acquista un capo di abbigliamento ad un prezzo inferiore: per la Cassazione giusta causa di licenziamento, nonostante la tenuità del danno”). Non possiamo, pertanto, che concordare nel modo più assoluto con l'assunto, cui è pervenuta la Corte di legittimità, espressione di un orientamento univoco della giurisprudenza di legittimità, che è, oltretutto, segno di civiltà giuridica ed umana. Veramente lodevole il richiamo del Supremo Magistero ad entrare nel cuore del comportamento del lavoratore per analizzarlo in tutti i suoi aspetti contenutistici, nonché alla luce della storia del vissuto aziendale del medesimo. 4.2) Dalla valutazione della fattispecie alla luce delle circostanze del caso concreto, condotta in applicazione del punto-luce, una minore gravità del comportamento del lavoratore. Calandoci, ora, nel cuore della fattispecie oggetto di disamina da parte della sentenza de qua, diciamo subito che altrettanto del tutto condivisibili appaiono le argomentazioni attraverso le quali la decisione in parola è pervenuta alla conclusione, secondo cui non sussiste la giusta causa di licenziamento, trattandosi di dipendente nel quale, anche dopo il fatto contestatogli, il datore di lavoro può senz'altro continuare a riporre la sua fiducia. Ed a tale conclusione la sentenza è giunta proprio valutando il fatto-comportamento del lavoratore alla luce di tutti i surrichiamati criteri. Assolutamente degno di nota e meritevole di assenso ci sembra il rilievo formulato dalla Suprema Corte e sopra riportato nel suesposto paragrafo 3). Riteniamo, infatti, in piena consonanza con il pensiero espresso dai giudici di legittimità, che, pur non potendosi prescindere dal fatto che la configurabilità della condotta come impossessamento furtivo di prodotti aziendali intenzionalmente operato sia tale da integrare gli estremi di una azione di tipo delittuoso, non si possa obiettivamente disconoscere che la condotta stessa, considerata nel complesso dei suoi elementi oggettivi e soggettivi e di tutte le circostanze di contesto, vada derubricata da furto di vino a consumo di vino, per cui “l'azione dell'impossessamento invito domino si è rivelata meramente funzionale al soddisfacimento di un bisogno immediato e limitato”. Orbene, poichè tale condotta si è manifestata all'improvviso da parte di un lavoratore immune da precedenti disciplinari, che antecedentemente non aveva suscitato sul lavoro particolari problemi e che, come poi è emerso anche sul piano probatorio, versava in uno stato di particolare disagio per effetto delle condizioni di salute dei familiari, della moglie in istato di gravidanza a rischio, del figlio di quattro anni con problemi respiratori, è chiaro che la condotta stessa, per il fatto del suo manifestarsi improvviso e del suo concentrarsi in un periodo breve presumibilmente coincidente con la difficile condizione lavorativa, psicologica ed ambientale nella contingenza attraversata dal lavoratore, deve, in via di logica, considerarsi eziologicamente riconducibile (come sostenuto dal dipendente) alle evenienze ora richiamate, evenienze, queste, che, come ha sottolineato la Corte Suprema, “non di rado possono spingere ad indulgere a rimedi discutibili e socialmente censurabili, ma soggettivamente percepiti come necessario sollievo”. Riteniamo, pertanto, concordando con le argomentazioni sviluppate nella sentenza in esame, che le anzidette evenienze possano ben valere come esimenti o come circostanze attenuanti, soprattutto se riguardate alla luce di un vissuto lavorativo caratterizzato da assoluta assenza di precedenti disciplinari e di comportamenti censurabili, se considerata l'assegnazione del lavoratore a mansioni non implicanti particolari responsabilità e se tenuto conto che la condotta si è manifestata per la prima volta e all'improvviso, in concomitanza con le surrichiamate evenienze. Ci sentiamo, pertanto, anche noi di concludere, in integrale consonanza con i giudici di legittimità, che il comportamento del lavoratore avrebbe dovuto essere sanzionato con un provvedimento disciplinare di natura conservativa, non essendo esso in alcun modo riconducibile nell'ambito della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, poichè, alla luce di tutti gli elementi che concorrono alla valutazione della gravità della fattispecie, non si può certo formulare, nei confronti del lavoratore in discussione, un giudizio di definitiva compromissione, anche per il futuro, del rapporto fiduciario. D'altra parte, tenuto conto che, nel caso di specie, sarebbe stata senz'altro coerente con la pur sempre notevole gravità del comportamento la sanzione conservativa più grave (quella della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione), con l'adozione di detta sanzione anche la posizione datoriale avrebbe potuto considerarsi adeguatamente protetta, poiché un'eventuale recidiva, da parte del dipendente, in qualche ulteriore infrazione, avrebbe comunque comportato la legittimità del provvedimento espulsivo. 4.3) La tenuità del danno è elemento idoneo ad attenuare l'incidenza della gravità del comportamento sulla lesione del rapporto fiduciario soltanto quando emerga essere obiettivo inequivocabilmente perseguito dalla condotta del lavoratore. C'è un ultimo aspetto del pensiero espresso dal Supremo Collegio, che pure merita di essere condiviso e concerne l'assunto, secondo cui la tenuità del danno non è elemento idoneo ad attenuare l'incidenza della gravità del comportamento sulla fiducia che un datore di lavoro deve poter riporre nei propri collaboratori subordinati. In proposito, la sentenza spiega che, se anche la Corte d'Appello di Catanzaro fa riferimento alla circostanza della tenuità del danno, essa non ha certo inteso discostarsi dall'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, poiché tale riferimento è stato da essa effettuato “per evidenziare che il lavoratore ha deliberatamente scelto il prodotto di più bassa qualità proprio per la preoccupazione di contenere il danno, dal momento che ha agito al fine di provvedere ad un bisogno in qualche misura qualificabile grave ed urgente”. Decodificando il pensiero dei giudici di legittimità, la tenuità del danno, secondo la Corte territoriale, è frutto della specifica volontà del lavoratore, che, consapevole di agire per soddisfare un proprio personale bisogno grave ed urgente, ha cercato di consumare il bene di minor costo, onde arrecare al datore il minor pregiudizio possibile. Non si può, pertanto che concludere che, nella specie, la tenuità del danno non è elemento della condotta da valutare come condizione ad essa esterna , ma un obiettivo consapevolmente perseguito dal lavoratore attraverso un'azione di impossessamento unicamente funzionale al consumo del bene aziendale e finalizzata a soddisfare un suo bisogno immediato ed indifferibile, ciò che giustifica la derubricazione del fatto da furto di un bene a consumo del bene stesso (nella specie, si trattava di un cartone di vino da un litro al giorno, del tipo della più bassa qualità e del minor costo, consumato per alcuni giorni soltanto) e connota, quindi, in termini di assai minore gravità la responsabilità del prestatore stesso. In altre parole, la tenuità del danno è, nel caso di specie, elemento che, facendo ontologicamente parte della condotta, contribuisce ad animarne la dinamica di svolgimento, incidendo sulle modalità del suo estrinsecarsi e riflettendosi, così, necessariamente sulla gravità della stessa. Ci sembra, in conclusione, che la condotta posta in essere dal lavoratore, considerata in tutti i suoi elementi costitutivi ed alla luce di tutte le circostanze che la caratterizzano, se proprio si volesse ad essa attribuire una valenza penalistica (che, a onor del vero, non può, in linea di stretto diritto, escludersi!), potrebbe, però, con qualche sforzo interpretativo, integrare gli estremi del reato di furto commesso su cose di tenue valore per provvedere ad un grave ed urgente bisogno, di cui al punto 2) dell'art.626 del codice penale, com'è noto punibile soltanto a querela della persona offesa. Un comportamento, insomma, quello del lavoratore, che, per tutte le ragioni dianzi sviluppate, non merita certo, sul piano giuridico ed umano, di essere crocifisso con il marchio della idoneità alla definitiva lesione, anche per il futuro, di ogni rapporto fiduciario. Avv. Prof. Stefano Lenghi.
Qui di seguito il testo della sentenza :
Cass. Civ. Lav. 20 gennaio 2015, n. 854Lavoro subordinato - Dipendente di un supermercato - Licenziamento - Contestazione disciplinare - Furto - Sanzione espulsiva - Non sussiste Svolgimento del processo Con sentenza del 23 settembre 2011, la Corte d'Appello di Catanzaro, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Catanzaro, dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a R.C. dalla A. S.p.A- A.H. S.p.A, sua datrice di lavoro a seguito della contestazione disciplinare avente ad oggetto l'addebito, verificato attraverso il personale e le telecamere di sorveglianza, del comportamento, reiterato in più occasioni in un breve arco di tempo, consistito nell'aver il lavoratore furtivamente sottratto dagli scaffali del supermercato, ove operava quale addetto alle vendite, confezioni di vino in scatola per poi consumarle nello stesso luogo di lavoro ivi abbandonandone i vuoti che così erano stati rinvenuti dando avvio alle indagini, e per l'effetto ordinava la reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro e la condanna della Società al risarcimento del danno commisurato all'importo della retribuzioni maturate e maturande dalla data del licenziamento a quelle dell'effettiva reintegra. A tale pronunzia la Corte territoriale perveniva essenzialmente in considerazione della ritenuta sproporzione tra i fatti addebitati e commessi dal lavoratore, individuati nell'aver per alcune volte, durante gli ultimi giorni del mese di settembre del 2009, aperto e consumato nei locali aziendali delle confezioni di vino, e la sanzione irrogata, sproporzione motivata dal concentrarsi delle mancanze in un periodo breve presumibilmente coincidente con la difficile condizione lavorativa, psicologica e ambientale nella contingenza attraversata dal lavoratore e da questi addotta a giustificazione dell'accaduto tale da rendere le mancanze stesse insuscettibili, tenuto conto altresì della precedente condotta lavorativa e delle mansioni svolte dal lavoratore, di pregiudicare irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti. Per la cassazione di tale decisione ricorre la Società affidando l'impugnazione ad un unico motivo poi illustrato con memoria Resiste, con controricorso, il C.R.
Motivi della decisione
Con un unico e articolato motivo, la Società ricorrente denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 3 1. n. 604/1966, in relazione anche all'art. 30, comma 3, l. n. 183/2010. Motivazione insufficiente ed illogica. Omesso esame di circostanze decisive; omessa motivazione in ordine all'asserita prova di asserite circostanze attenuanti", lamentando come la Corte territoriale, nell'escludere la ricorrenza nella specie dell'invocata giusta causa di licenziamento, abbia disatteso il canone legislativo che gli impone di tener conto delle tipizzazioni a riguardo previste dai contratti collettivi, rinvenibili nel CCNL applicabile all'art. 221 che contempla tra le ipotesi di recesso per giusta causa impeditive della prosecuzione anche provvisoria del rapporto "l'appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi", sottraendovisi per essersi discostata dai canoni valutativi che, alla stregua di un costante indirizzo giurisprudenziale, devono presiedere alla verifica dell'inveramento della fattispecie astratta di cui all'art. 2119 c.c., dati dalla materialità della condotta, da identificarsi, a detta della Società ricorrente, nel reiterato furtivo impossessamento di beni aziendali, dalla natura dell'elemento psicologico, improntato, sempre secondo la versione della ricorrente, alla premeditazione e all'intenzionalità, dalla gravità della condotta da ritenersi, per la ricorrente, insita nel carattere delittuoso della stessa e accentuata dall'atteggiamento inteso pervicacemente a negare la propria responsabilità per lutto l'arco del giudizio, e ciò al punto da non tenere in alcun conto gli elementi probatori a riguardo emersi, in particolare per quel che attiene alle modalità in cui è stata posta in essere la condotta, per dare rilievo ad elementi sforniti di qualsiasi valenza ai fini in questione, come la speciale tenuità del danno, o addirittura apoditticamente, senza motivazione alcuna, ritenuti idonei a porsi quali circostanze attenuanti la responsabilità del dipendente così da risultare ostative al venir meno del vincolo fiduciario. Il motivo deve ritenersi infondato. La pronunzia della Corte territoriale, in effetti, si sottrae alle censure mosse dalla Società ricorrente, la Corte non incorre nei denunciati errori di diritto e vizi logici che le vengono attribuiti, non è che non tenga conto della tipizzazione del contratto collettivo e applichi in modo non corretto i canoni valutativi che devono presiedere alla identificazione delle ricorrenza di una giusta causa, si rende anzi ben conto della configurabilità della condotta del dipendente come impossessamento furtivo di prodotti dell'azienda intenzionalmente operato e tale da integrare gli estremi di una azione delittuosa ma semplicemente supera questi dati nel quadro di una valutazione della proporzionalità della sanzione che muove dalla derubricazione della stessa condotta da furto di vino a consumo di vino, come ben rileva la stessa difesa della ricorrente, in cui l'azione dell'impossessamento invito domino è meramente funzionale al soddisfacimento di un bisogno di consumo immediato e limitato (al più un cartone di vino da un litro al giorno), una condotta che per essersi manifestata all'improvviso è idonea a riflettere una anomala condizione di disagio da parte di un lavoratore che in precedenza non aveva suscitato sul lavoro particolari problemi, e tale valutazione è operata secondo un iter logico non privo di tenuta e sostanzialmente neppure fatto oggetto di censura da parte della Società ricorrente. Il ricorso vi si oppone con la prospettazione di una versione della vicenda che, mirando a dare esclusivo rilievo al fatto materiale dell'impossessamento furtivo, appare assolutamente incommensurabile rispetto a quella della Corte territoriale, per la quale il fatto dell'impossessamento è un semplice antefatto, laddove configura la condotta come essenzialmente connotata dalla mera, ancorché illegittima, finalità di consumo del vino, sicché le due versioni restano a fronteggiarsi senza interferire,, non valendo quella proposta dalla Società ricorrente ad inficiare la validità di quella fatta propria dalla Corte territoriale. E questa, considerata in sé, si ammanta, come detto, di una intrinseca logicità, dovendosi ammettere che l'appropriazione di beni aziendali non è del tutto sovrapponibile alla sottrazione funzionale al consumo immediato del bene, siamo piuttosto, per radicare il paragone sempre nel campo penale, in un'area molto vicina al furto d'uso, per essere il fatto commesso su cose di tenue valore - di qui il rilievo dato dalla Corte territoriale alla tenuità del danno, intendendo, con tutta evidenza, non certo discostarsi dall'insegnamento di questa Suprema Corte di cui il Collegio ha piena consapevolezza, ma piuttosto evidenziare da parte del lavoratore, il quale ha deliberatamente scelto il prodotto di più bassa qualità, la preoccupazione di contenerlo - e per provvedere comunque ad un bisogno in qualche misura qualificabile grave ed urgente, il che abbinato alla considerazione del fattore tempo - viceversa completamente trascurato dalla Società ricorrente - ovvero del manifestarsi improvviso del comportamento illecito e del suo concentrarsi in un arco temporale limitato così da indurre a ritenerlo frutto di una condizione anomala rispetto alla personalità ordinariamente manifestata dal lavoratore, indotta da situazioni del tipo di quelle dedotte dal lavoratore - non propriamente qualificabili frutto di una "favoletta" come vorrebbe la ricorrente e neppure tutte indimostrate, specie se si ha riguardo alle condizioni di salute dei familiari, dalla moglie in stato di gravidanza a rischiosi figlio di quattro anni con problemi respiratori, mai contestate, evenienze che non di rado possono spingere a indulgere a "rimedi" discutibili e socialmente censurabili ma soggettivamente percepiti come necessario sollievo - ben può valere come esimente o circostanza attenuante, in specie se riguardata alla luce di un pregresso connotato in termini affatto diversi, idonea ad escludere, anche in considerazione dell'adibizione del lavoratore a mansioni non implicanti particolari responsabilità (la Corte fa riferimento a compiti di sorveglianza e di tenuta della cassa), quel pregiudizio all'affidamento del datore sull'esatto adempimento delle prestazioni future in cui si concreta il vincolo fiduciario. Il ricorso va dunque rigettato Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 100 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi oltre spese generali e accessori di legge.
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