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Data: 12/02/2015 22:13:00 - Autore: Marina Crisafi Almeno cinque affari per ogni anno altrimenti si viene banditi dall'albo. È una delle condizioni essenziali che l'avvocato dovrà garantire, per poter continuare a fregiarsi del proprio titolo ed esercitare la professione secondo lo schema del regolamento delineato dal Ministero della Giustizia in attuazione dell'art. 21 del nuovo statuto dell'avvocatura (l. n. 247/2012). Il rigoroso “paletto” va ad unirsi agli altri 7 fissati dalla bozza di via Arenula per dimostrare l'esercizio della professione in modo “effettivo, continuativo, abituale e prevalente” (leggi l'articolo “Niente avvocati a ‘tempo perso'. Ecco le future regole per l'esercizio della professione” con allegato lo schema di regolamento). Ciò significa che l'avvocato, oltre a dover possedere una partita Iva, una pec e una polizza assicurativa, avere in uso locali e utenza telefonica ad hoc, aver assolto l'obbligo di aggiornamento professionale ed essere in regola con i pagamenti all'ordine e alla cassa di previdenza, dovrà anche dimostrare di aver trattato almeno cinque cause diverse all'anno, a pena di cancellazione dall'albo. Gli incarichi, come dispone lo schema, potranno anche derivare da conferimenti di altro professionista, mentre il controllo sulla sussistenza del requisito (e degli altri 7) sarà affidato al Consiglio dell'Ordine che dovrà esercitarlo ogni tre anni, garantendo il contraddittorio. Peraltro, la mancanza del requisito minimo dei cinque affari per anno comporta conseguenze “più severe”, perché a differenza degli altri casi, per i quali la reiscrizione al momento della dimostrazione del possesso dei canoni richiesti è immediata, nell'ipotesi in cui la cancellazione dall'albo sia dipesa dal non aver trattato il minimum di giudizi sanciti dal regolamento, l'avvocato, anche una volta che abbia raggiunto tale soglia, non potrà essere reiscritto prima che siano decorsi 12 mesi da quando la delibera di cancellazione è divenuta esecutiva. Ancorare la permanenza dell'iscrizione all'albo (tra le altre cose) al numero di pratiche gestite (cosa che peraltro rappresenta un unicum nell'ambito delle professioni c.d. “ordinistiche”) si giustifica, secondo il regolamento, per il fatto che la presenza di un seppur minimo volume d'affari è sintomatica dello svolgimento “effettivo, continuativo, abituale e prevalente” dell'attività professionale richiesto dalla legge. Il rischio, tuttavia, cui si va incontro è quello di positivizzare un obbligo di “successo” professionale contorto e fittizio. Da un lato, infatti, l'avvocato, per una mera questione di “sopravvivenza” potrebbe ritrovarsi ad accettare pratiche, non solo non esercitando quella valutazione ragionata che normalmente dovrebbe guidare il professionista nella scelta o meno di un incarico, ma anche correndo il rischio di essere costretto a gestire pratiche con compensi irrisori (che magari normalmente non avrebbe accettato), al solo fine di “fare numero”. Dall'altro, un professionista alle prese con un affare di un certo rilievo, in grado di impegnare molto tempo della sua professionalità rischierebbe di doverlo “trascurare” per dedicarsi alle altre quattro cause, in modo da ottemperare correttamente all'obbligo richiesto. In entrambe le ipotesi, il pericolo è quello di ledere gli stessi principi che governano l'esercizio della professione forense, e cioè quella “libertà, autodeterminazione e indipendenza” che l'avvocato deve garantire svolgendo la sua professione senza essere soggetto a condizionamenti di sorta in grado di pregiudicare l'inviolabile diritto di difesa. Qualità e quantità, infatti, non sempre riescono ad andare di pari passo. Il sondaggio è aperto. Vota anche tu: |
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