Data: 19/03/2015 16:00:00 - Autore: Maria De Filippis
Maria De Filippis -
In tema di danno da nascita indesiderata, che ricorre quando, a causa del mancato rilievo dell'esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza, viene rimessa alle Sezioni Unite, con ordinanza del 23/02/2015 n. 3569, la questione relativa all'onere probatorio e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria.

La questione coinvolge problematiche delicate che sconfinano sul piano dell'etica e della morale. La fattispecie riguarda una bambina nata non sana, la cui nascita poteva essere evitata dai genitori ricorrendo alla interruzione volontaria della gravidanza se gli stessi fossero stati tempestivamente informati delle prospettive di tali malformazioni.

Infatti i genitori della bimba affetta da sindrome di Down agivano nei confronti dell'Azienda Sanitaria, del medico ginecologo e del direttore del laboratorio di analisi per domandare il risarcimento da «nascita indesiderata» asserendo di non aver potuto scegliere consapevolmente di proseguire la gravidanza dopo i primi 90 giorni poiché non erano stati eseguiti gli esami opportuni per accertare eventuali malformazioni del feto.

Il Tribunale e la Corte d'Appello respingevano la richiesta degli attori i quali agivano anche in qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlia minore. Avendo i coniugi ricorso in Cassazione, la Corte ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite per chiarire gli opposti orientamenti giurisprudenziali sorti in merito al riparto dell'onere della prova e della legittimazione attiva del concepito.

Il problema che si pone è se, allorchè la madre non sia stata posta in condizione di autodeterminarsi per l'aborto, possa il concepito malformato una volta nato richiedere il risarcimento del danno per la vita ingiusta che egli ha avuto in conseguenza al comportamento omissivo del medico nei confronti della propria madre.
Punto di partenza per individuare la tutela risarcitoria nell'ambito di quelli che vengono definiti "wrongful birth cases" è la legge n. 194/1978 che ha introdotto la figura dell'aborto.

Tale legge, che nega la possibilità di ricorrere all'aborto come strumento di programmazione familiare, prevede la possibilità di riccorrervi in caso di pericolo per la salute della donna, si parla in tal caso di aborto terapeutico, mentre non esiste alcuna forma di aborto eugenetico nè come diritto della donna nè come diritto del nascituro.

L'art. 6, legge n. 194/1978 afferma che: «L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».

La giurisprudenza (Cass. n. 14488/2004 e Cass. n. 16123/2006) ha rilevato che il diritto a non nascere non trova tutela nel nostro ordinamento, infatti per la Cassazione sostenere che il concepito abbia un diritto a non nascere sia pure in determinate situazioni di malformazione significa affermare che è in contrasto con i principi di solidarietà di cui all'art 2 Cost. nonchè di indisponibilità del proprio corpo di cui all'art 5 della Cost.
Infatti la Cassazione con sentenza n. 14488/2004 specifica che «l'art. 1 della predetta legge (194/78 - n.d.a.), pur riconoscendo il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, e quindi all'autodeterminazione, una volta intervenuto il concepimento, ricollega l'interruzione della gravidanza esclusivamente alle ipotesi normativamente previste in cui sussista un pericolo per la salute o per la vita della gestante. Da ciò consegue che la sola esistenza di malformazioni del feto, che non incidano sulla salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante di praticare l'aborto».

Infatti, se non vi fosse pericolo per la gestante, ogni qual volta che ci siano malformazioni del feto la gestante dovrebbe ricorrere all'aborto per non ledere il presunto diritto di non nascere se non sano.
Tuttavia, ribaltando le precedenti posizioni, la giurisprudenza più recente con sentenza 16754/2012 ha riconcosciuto il diritto del neonato a chiedere il risarcimento del danno per essere nato malformato.
In particolare la corte ha riconosciuto la legittimità del diritto al risarcimento del danno, derivante dall'omissione colpevole del medico, in capo al neonato che si duole in realtà non della nascita,nè della sua malformazione, ma della propria infermità che sarebbe mancata se non fosse nato.

Viene riconsociuto al neonato il diritto a non nascere se non sano quale propagazione della posizione di frustrazione.
Il risarcimento, sottolinea la Corte, è rappresentato dall'«interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della propria personalità» (Cass., n. 16754 del 2012).
Con tale sentenza la Corte afferma che la responsabilità sanitaria da nascita indesiderata va estesa oltre che alla madre in virtù del suo rapporto da "contatto sociale" con il medico, anche al padre ed eventuali fratelli del neonato.

È possibile pertanto affermare che la pretesa risarcitoria è stata accolta non solo con progressiva estensione dei soggetti legittimati, ma anche con progressiva semplificazione dell'onere probatorio gravante sull'attore, in particolare sulla madre, arrivando a presumere la ricorrenza dei requisiti richiesti dalla L. 194 dall'insorgere della malattia psichica derivante dal trauma causato dall'acquisizione della notizia. A tale presunzione è stata aggiunta quella relativa alla scelta in senso abortivo della gestante. Addirittura sarebbe sufficiente per la madre allegare che si sarebbe avvalsa delle facoltà concesse dalla legge n. 194 se fosse stata informata della grave patologia del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso.
Maria de Filippis mariella@studiodefilippis.net 

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