Data: 22/04/2015 12:30:00 - Autore: Avv. Chiara Valente

Il Decreto Legge n. 158/2012, convertito in Legge n. 189/2012, comunemente noto come "riforma Balduzzi", nasce in un clima di aumento esponenziale dei contenziosi in materia di malpractice sanitaria, con il chiaro intento di deflazionare il carico giudiziario facente capo alla responsabilità del medico e della struttura.


L'intervento normativo è finalizzato ad agire sul profilo penale della responsabilità medica, e partendo dal presupposto che la natura del rapporto medico-paziente trova le proprie radici su di un'obbligazione di mezzi, va a codificare una scriminante in tutti i casi in cui i sanitari siano in grado dimostrare di avere arrecato danno al paziente per colpa lieve.


Infatti, con l'art. 3, comma 1, del c.d. decreto Balduzzi, vengono apportate innovazioni in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, non senza determinare l'insorgenza di problemi interpretativi, relativamente a questioni di portata generale, prima fra tutte l'inquadramento della responsabilità stessa.


Ciò premesso, si osserva come il tenore letterale della norma, e le finalità legislative sottese di ridurre il contenzioso, inducono ad interpretare la disposizione normativa in senso limitativo della responsabilità penale dei sanitari, individuabile solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito acquiliano, il cui onere della prova ricade sul danneggiato.


Diversamente, sul piano civile continuano ad operare i parametri previgenti, per i quali è sufficiente, per il paziente che invoca la tutela risarcitoria, il nesso causale tra la prestazione medica e il danno/peggioramento delle condizioni di salute, secondo il criterio della causalità adeguata di cui alle S.U. della Suprema Corte di Cassazione, n. 576/2008, altrimenti definito "criterio del più probabile che non".


Più precisamente, si rileva come il primo comma dell'art. 3, del D.L. 158/2012 stabilisce che"l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve".


Si appalesa, quindi, come l'art. 3, comma 1 della L. 189/2012 abbia chiaramente depenalizzato la responsabilità medica penale in caso di colpa lieve, a condizione che il sanitario si sia attenuto alle linee guida e a best practices accreditate nella comunità scientifica, codificate in convegni e seminari a carattere internazionale, rimanendo invece perseguibile il pregiudizio arrecato per dolo e colpa grave.


E' così, quindi, che come preannunciato, il legislatore non si limita all'enunciazione del principio di diritto applicabile in sede penale, bensì specifica e chiarisce che "in tali casi comunque resta fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo".


Appare evidente, perciò, che con la nuova norma, la causa di giustificazione penale non esclude la responsabilità del professionista sul piano civile, ove si mantiene fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c., secondo la clausola del nemin ledere, per cui rimangono fermi i parametri previgenti della responsabilità da illecito, nonchè pur se implicitamente, quelli della responsabilità contrattuale del medico e della struttura (c.d. responsabilità da "contatto sociale"), frutto della precedente elaborazione giurisprudenziale.


Tuttavia, il novum normativo, pure indirizzato a ridisegnare gli aspetti penalistici della questione, si riflette innegabilmente anche sulla determinazione del risarcimento del danno sul piano civilistico, in quanto come chiarisce la norma, il rispetto delle linee guida e della buona pratica medica funge anche da "attenuante" ai fini della valutazione degli elementi costitutivi della responsabilità civile e della determinazione del quantum sul piano risarcitorio.


Sul punto, degna di nota l'attuale consolidata interpretazione giurisprudenziale, che bene rileva come con la novella posta in discussione si sia voluto affermare "un vero e proprio fenomeno di parziale abolitio criminis degli artt. 589, 590 c.p., avendo il legislatore ristretto l'area del penalmente rilevante individuata da questi ultimi ed avendo ritagliato implicitamente due sottofattispecie, una che conserva natura penale e l'altra divenuta penalmente irrilevante"(Cass. pen., Sez. IV, n. 16237/2013; sul punto si veda anche Cass. pen. Sez. V, n. 11804/2014).


In buona sostanza, la nuova disposizione di legge "reintroduce" in ambito penale - pur limitatamente alla categoria di professionsti in esame - il concetto di culpa levis, concetto indiscutibilmente di antica tradizione giuridica, ma da tempo messo da parte dai giudici di legittimità nonchè dalla dottrina penalistica.


Ictu oculi, perciò, come le linee guida e la prassi terapeutica, costituenti per definizione "raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di coadiuvare medici e pazienti a decidere le modalità asistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche", rappresentino un' importante criterio di valutazione della colpa del sanitario, intorno al quale ruota e si realizza il giudizio di colpa professionale.


Non meno però, come bene rileva la Suprema Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 9923/2015, degna di nota per esaustività sull'argomento e chiarezza espositiva, "tali essenziali criteri di valutazione della colpa del sanitario, pur facenti riferimento agli standard di agire dell'agente modello, devono applicarsi al caso specifico, avendo attenzione alle peculiarità oggettive e soggettive dell' agente, soggetto al vaglio di responsabilità".


Ne deriverà, quindi, sotto il primo profilo, "un esame da parte del giudice in ordine alla complessità, oscurità del quadro patologico, difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche nonchè il grado di atipicità e novità della situazione data. Si dovrà, inoltre, tenere conto della fattispecie concreta nella quale il terapeuta si sia trovato ad operare, tenendo conto dell'eventuale assenza di presidi adeguati, la quale potrebbero avere reso complicato anche ciò che astrattamente rientra negli standard professionali di agire dell'agente modello".


Così, i giudici di piazza Cavour rilevano pure che "sotto il profilo soggettivo, per determinare la misura del rimprovero, bisognerà considerare le specifiche condizioni dell'agente, sulla base del principio secondo cui tanto più è adeguato il soggetto all'osservanza delle regole, tanto maggiore deve ritenersi il grado della colpa, l'inosservanza delle regole terapeutiche avrà un maggiore disvalore per un insigne specialista che per un comune medico generico.


In definitiva,potendosi configurare la "colpa grave" nel caso di errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti la professione, o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell'uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell'atto operatorio che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente, o infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che mai devono diffettare in chi esercita l'attività sanitaria".


Un tanto rileva, in sintesi, la Corte, riconosciuto che la Legge n. 189/2012, art. 3, per come costituita e come interpretata dalla precedente giurisprudenza di legittimità, pone si un limite alla possibilità per il giudice di sancire la responsabilità del medico rispettoso delle linee guida e della best practices, ma non esclude la possibilità che il medico venga riconosciuto responsabile penalmente, per colpa grave, per omicidio o lesioni, pur essendosi attenuto agli standard di riferimento, allorchè invece avrebbe dovuto discostarsene in ragione della peculiare situazione clinica del malato, essendo tale necessità macroscopica ed immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al suo posto.


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