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Data: 08/05/2015 18:30:00 - Autore: Marina Crisafi di Marina Crisafi – Non si salva dalla condanna una donna avvocato che ha mandato un collega a “ca..re” alla fine dell'udienza. Per la Cassazione infatti non conta che l'ingiuria sia stata proferita quando entrambi erano spogliati del loro ruolo di difensori, né l'assenza di ragioni idonee a far alterare l'imputata e ad indurla a proferire l'espressione contestata. Con la sentenza n. 19070/2015 pubblicata ieri, la quinta sezione penale ha ritenuto “assolutamente lineare” il percorso motivazionale seguito dal giudice di pace di Olbia che ha condannato la professionista al pagamento della multa di 400 euro per aver offeso l'onore di un altro avvocato. Nessuna illogicità rileva in particolare la S.C. dalla motivazione che ha fondato la responsabilità dell'imputata sulle univoche dichiarazioni della persona offesa e di un terzo avvocato, legato alla persona offesa soltanto da un rapporto di colleganza, svalutando invece le contrarie affermazioni del teste “a favore” della professionista in ragione del concreto rapporto professionale esistente tra i due. Quanto alla configurabilità del reato di cui all'art. 594 c.p., hanno sottolineato gli Ermellini, anche se in generale per verificare se sia stato leso l'onore della persona offesa, occorre “fare riferimento a un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore e al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata, esistono tuttavia limiti invalicabili posti dall'art. 2 Cost. a tutela della dignità umana, di guisa che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e dunque per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e quindi inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utilizzate ioci causa”. Per cui, ai fini della sussistenza dell'ingiuria, si prescinde dall'animus nocendi e il dolo è configurabile “senza necessità di una particolare dimostrazione qualora l'espressione usata sia autonomamente e manifestamente offensiva tale in definitiva da offendere con il suo significato univoco la dignità della persona”. Non regge, quindi, la distinzione introdotta dalla ricorrente che l'espressione fu pronunciata non nel corso dell'udienza ma dopo che la stessa era terminata, giacchè la puntualizzazione “oltre a non elidere la portata offensiva della frase comunque non coglie l'evidente nesso funzionale tra la frase e il precedente svolgimento dell'attività difensiva.” Non regge neanche la tesi dell'”equivoco percettivo”, avallata dal cancelliere nel verbale della deposizione, secondo la quale, per ben due volte, l'avvocato avesse pronunciato la frase “ma che gare”, il cui significato non solo rimane incomprensibile nel contesto di cui si discute, ma hanno concluso i giudici del Palazzaccio, la professionista imputata non si è neanche preoccupata di specificare. |
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