Data: 10/05/2015 12:30:00 - Autore: Marina Crisafi

di Marina Crisafi - Non c'è risarcimento per il capitombolo a bordo piscina anche in presenza di un liquido scivoloso, a meno che non si provi specificamente la “natura” del liquido stesso.

Così si espressa la terza sezione civile della S.C. con sentenza n. 9009/2015 depositata il 6 maggio scorso, rigettando le doglianze di un uomo che rimaneva vittima di una disavventura in un centro sportivo della Polizia di Stato, prendendo uno “scivolone” mentre camminava a bordo piscina.

L'uomo trascinava in giudizio il Ministero dell'Interno e il Fondo di Assistenza del personale della Polizia di Stato per il risarcimento dei danni subiti, addebitando la caduta alla presenza di un liquido scivoloso mescolato all'acqua del bordo piscina.

L'istanza, rigettata in primo grado, veniva accolta dalla Corte d'Appello di Roma che liquidava alla vittima quasi 11mila euro oltre interessi e rivalsa delle spese processuali, sulla base della violazione del principio del neminem laedere, ex art. 2043 c.c., ravvisando la sussistenza dell'elemento oggettivo della presenza di “sostanze solitamente non rinvenibili in quel luogo e di quello soggettivo della loro non visibilità o rilevabilità con la normale diligenza”.

Ma la Cassazione tira una brusca frenata, ribaltando il verdetto.

Ribadendo un principio pacifico e anche abbastanza scontato, la Corte infatti ha ricordato che il bordo della piscina è per sua natura “bagnato” proprio a ragione dell'attività che vi si svolge, e dunque il rischio “va doverosamente calcolato ed evitato”, magari indossando calzature adeguate e comunque adeguandosi alla massima prudenza, non potendosi invocare, “una volta che una caduta dannosa si è verificata, come fonte di responsabilità l'esistenza di una situazione di pericolo che rientra nel rischio generico proprio dei luoghi, evitabile in base a una condotta normalmente diligente”. 

Va considerato, inoltre, ha sottolineato la S.C., che quando venga invocata, come nel caso di specie, la regola generale dettata dall'art. 2043 c.c., grava sul danneggiato l'onere di provare un'anomalia dello stato dei luoghi che anche se non integra gli estremi dell'insidia o trabocchetto “è comunque idonea a prefigurare una condotta colposa (o dolosa) della parte convenuta, fornendo quindi almeno implicitamente la prova dell'elemento soggettivo, comunque necessaria”. E in ogni caso, sia nell'ipotesi di responsabilità del custode ex art. 2051 c.c., sia in quella evocata ex art. 2043 c.c., hanno spiegato gli Ermellini, “il comportamento colposo del danneggiato può - in base ad un ordine crescente di gravità - o atteggiarsi a concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell'art. 1227, 1° comma, c.c.), ovvero escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode (integrando gli estremi del caso fortuito rilevante a norma dell'art. 2051 c.c.) e a maggior ragione ove si inquadri la fattispecie del danno nella previsione di cui all'art. 2043 c.c.”

Quanto all'”elemento oggettivo”, la mancanza di qualsiasi ulteriore precisazione sulla “natura del liquido” che avrebbe provocato la caduta, hanno concluso dal Palazzaccio accogliendo il ricorso del Ministero, rende “insuperabilmente insufficiente la motivazione, in fatto, della sentenza impugnata e, correlativamente, apodittico il giudizio svolto in diritto circa l'ascritta violazione del principio del neminem laedere”. 


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