Data: 09/06/2015 18:40:00 - Autore: Avv. Maria Manuela Leuzzi

Avv. Maria Manuela Leuzzi

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia in esame ha ancora una volta tutelato il concetto di famiglia, intesa quale società naturale fondata sul matrimonio i cui diritti sono costituzionalmente garantiti sia all'art.29 Cost. che all'art.2 Cost.

Ed infatti, ciò che viene maggiormente salvaguardata è proprio l'unità familiare con il conseguente riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia come soggetto che manifesta la propria personalità nelle formazioni sociali ove la stessa si esprime.

Posto che il matrimonio è connotato dall'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, i quali sono peraltro soggetti ai limiti stabiliti dalla legge, è necessario precisare che, laddove il matrimonio venga meno per una qualsiasi causa, sul piano giuridico rileva, senza alcun dubbio, l'accordo tra i coniugi stessi.

In presenza di una separazione consensuale così come di un divorzio congiunto, entrambi i soggetti stipulano un accordo che, soprattutto per quel che concerne gli aspetti patrimoniali, ha natura contrattuale.

Pertanto, anche se in sede di divorzio tale accordo sia recepito dalla sentenza, il giudice esercita su di esso un mero controllo esterno i cui vizi devono essere fatti valere necessariamente da chiunque ne abbia interesse e quindi, anche da chi ha intenzionalmente violato l'accordo stesso.

(Cfr. Cass. 21 aprile 2015 n. 8096).

Infatti, potrebbe verificarsi che abbia interesse all'annullamento il soggetto incapace o la cui volontà risulti essere viziata (ad es. da un errore o dal dolo di una delle parti).

In tal caso, ciò che rileva è l'azionabilità del giudizio ovvero la nullità o l'annullamento dell'accordo dovrebbero essere fatti valere in un autonomo giudizio di cognizione non potendo tali vizi costituire motivo di impugnazione da parte dei coniugi che restano comunque vincolati all'accordo stesso (Cfr. Cass.civ.18066/2014).

Tali principi trovano concreta applicazione nel caso di specie ove il Tribunale di Prime Cure, su domanda congiunta dei coniugi, dichiarava lo scioglimento del matrimonio tra i due, recependo in toto l'accordo tra le parti in virtù del quale il marito si obbligava a corrispondere alla moglie un assegno mensile pari ad € 1.500,00 per lei ed i figli, oltre l'affidamento del figlio minore alla stessa, assegnataria peraltro della casa coniugale.

Avverso la suddetta sentenza proponeva appello la consorte sostenendo che il marito l'aveva ingannata riguardo la sua reale situazione economica poiché lo stesso aveva affermato di essere stato costretto a vendere la società da lui controllata e di essere diventato lavoratore dipendente.

In realtà, la moglie aveva appreso che il proprio coniuge risultava titolare di varie attività imprenditoriali con ingenti introiti e la società del quale era titolare era stata venduta per un prezzo irrisorio all'attuale compagna e da questi a lui stesso.

Pertanto, la Corte di Appello pronunciava la revocazione della sentenza impugnata e disponeva, con ordinanza, il prosieguo della causa al fine di quantificare ex novo l'assegno di mantenimento per il figlio e per la moglie.

Avverso l'ordinanza de qua, il marito proponeva ricorso per Cassazione adducendo, tra i vari motivi, l'assoluta carenza dei presupposti per l'impugnazione per revocazione e la mancata sussistenza del dolo con specifico riferimento alle difficoltà economiche del ricorrente e alla vendita della società.

Al riguardo, gli Ermellini, investiti della questione, affermano che l'impugnazione per revocazione è ammessa posto che, nel caso di specie, la sentenza gravata, richiama in maniera esplicita i presupposti per la revocazione ex art. 395 n.1 c.p.c.

Infatti, la moglie, nell'atto di appello deduce tempestivamente il cd. "dolo revocatorio" ossia la presenza di artifizi e raggiri posti in essere dal marito e diretti non solo ad impedire al giudice l'accertamento della verità ma anche alla moglie stessa di venire a conoscenza del reale patrimonio di cui è titolare il proprio coniuge (Cfr. Cass.civ. 9817/2005).

A tal proposito, va precisato che il giudice a quo, alla luce dell'istruttoria espletata (interrogatorio formale del ricorrente),aveva rilevato che il marito, intenzionalmente, aveva provveduto a sottrarre la propria società ed i beni ad essa inerenti alla valutazione del giudice per la determinazione dell'assegno di mantenimento dei figli e di divorzio per la moglie.

Circostanze queste ultime che vengono avallate sia dalla deposizione testimoniale della prima acquirente della società sia dalle dichiarazioni della figlia la quale afferma di aver appreso dal padre, dopo il divorzio dei genitori, che la cessione della società era uno stratagemma finalizzato a nascondere i propri guadagni .

Pertanto, alla luce di quanto sin qui esposto, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal marito ritenendo che, nel caso de quo, sussistono i presupposti del cd. dolo revocatorio ex art.395 n.1 c.p.c. atteso che è palese e comprovata la presenza di una vera e propria attività fraudolente consistente in artifizi e raggiri posti in essere dal marito e diretti a fuorviare il giudice facendo apparire una situazione diversa da quella reale con conseguente grave pregiudizio sull'esito del procedimento (Cass. Civ. n. 8096/2015) .

Avv. Maria Manuela Leuzzi


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