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Data: 14/06/2015 22:10:00 - Autore: Marina Crisafi
di Marina Crisafi – Niente reato
di spaccio per il coltivatore che ha fatto marcire
le 4 piantine di cannabis coltivate sul balcone del proprio appartamento. A
salvarlo è proprio la mancanza di
pollice verde che ha portato le piante ad un così cattivo stato vegetativo da
ridurre di fatto la gravità della sua condotta.
È quanto emerge
dalla sentenza della Cassazione n. 24732
depositata l'11 giugno scorso, che ha accolto il ricorso di un uomo contro
la decisione della Corte d'Appello di Caltanissetta che aveva confermato la
condanna per il reato di cui all'art. 73,
comma 5, D.p.r. n. 309/1990 pronunciata dal tribunale di Nicosia per aver
coltivato cannabis in quattro piantine in vaso sul balcone del proprio
appartamento.
Anche se non
regge la tesi, sostenuta dalla difesa, secondo la quale, considerato che l'entità del principio attivo complessivo
non superava “la dose media giornaliera” mancava la “prova della destinazione della sostanza alla cessione” e ciò
escludeva, dunque, l'offensività della condotta, il Palazzaccio ha ritenuto comunque fondato il ricorso.
Pur
chiarendo, infatti, che “con riferimento alla
condotta di coltivazione, non assume alcun rilievo la destinazione ad uso
personale della sostanza, sicché la circostanza sottolineata dalla difesa che le dosi
potenzialmente ricavabili dal materiale in sequestro fossero quantificabili al di sotto della
dose media giornaliera non è dirimente al fine di escludere l'accertamento del
reato”, a conti fatti, ha
affermato la Cassazione, ciò che rileva e
che non appare verificato in concreto, “è l'effettiva
offensività della condotta di coltivazione contestata che risulta eseguita, attraverso il possesso di quattro piantine in vaso alte al massimo 25 cm, in cattivo stato vegetativo”.
In
effetti, hanno spiegato i giudici di piazza Cavour, “il differente e più
rigoroso trattamento della condotta di coltivazione rispetto a quella di
materiale detenzione della sostanza
pronta per l'uso è individuabile
esclusivamente nella potenzialità lesiva della prima, poiché essa è
direttamente connessa alla presenza di ulteriori sviluppi, e risulta, almeno in
via astratta, idonea ad ampliare la
possibilità di diffusione della sostanza”.
Conseguentemente,
l'offensività della condotta va valutata in concreto, sulla base di una
prospettazione ideale delle sue possibilità future, “al fine di poterne
verificare la concreta lesione del bene giuridico tutelato”.
Nel
caso concreto invece, il cattivo stato
di coltivazione, tale da incidere irreversibilmente sulle prospettive di
accrescimento, non era stato minimamente
valutato dal giudice di merito, mettendo così in dubbio l'accertamento dell'antigiuridicità
della condotta. Parola, dunque al
giudice del rinvio.
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