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Data: 18/06/2015 23:00:00 - Autore: Avv. Paolo Accoti Nella seduta n. 67 del Consiglio dei Ministri, in data 11.06.2015, sono stati licenziati gli ultimi sei decreti attuativi sul jobs act. Diverse le materie trattate, dal contratto a tempo indeterminato, alla somministrazione di manodopera, passando per l'apprendistato e la cassa integrazioni guadagni ordinaria e straordinaria. Tra le novità di maggior rilievo la prevista riformulazione dell'art. 2103 c.c., in materia di mansioni. Nella versione ancora (per poco) in vigore, la norma prevede tra l'altro che: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. …” In buona sostanza le mansioni devono essere quelle previste nel contratto di lavoro ovvero quelle superiori conseguite nel corso del tempo. Era prevista altresì la possibilità, per il datore di lavoro, di variare le mansioni del proprio dipendente (cd. ius variandi), tuttavia, senza possibilità alcuna di diminuzione della retribuzione e ferma restando l'equivalenza delle stesse, vale a dire il mantenimento del medesimo livello di inquadramento. Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare come: “Il divieto per il datore di lavoro di variazione in "pejus" ex art. 2103 cod. civ., opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso” (Ex multis: Cass. civ. Sez. lavoro, 05/08/2014, n. 17624). In sostanza, l'elaborazione giurisprudenziale aveva portato a ritenere che l'equivalenza delle mansioni doveva tenere conto sia del dato formale, vale a dire il medesimo inquadramento professionale, ma anche del dato concreto, ossia che le nuove mansioni fossero aderenti e confacenti alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente, di modo da garantirgli l'accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze (Cfr. da ultimo: Cass. civ. Sez. lavoro, 03/02/2015, n. 1916). Entro tali limiti e, pertanto, con il rispetto delle anzidette condizioni, la possibilità di mutamento delle mansioni del dipendente era riconosciuta, anche in maniera unilaterale, in capo al datore di lavoro. Il decreto attuativo spariglia le carte e ridisegna profondamente la norma. Viene previsto, infatti, che il lavoratore possa essere assegnato a qualunque mansione inerente il medesimo livello di inquadramento, analogamente a quanto già avviene nel pubblico impiego, tanto è vero che il decreto attuativo richiama espressamente l'art. 52 del D.Lgs. n. 165/2011 “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Disciplina delle mansioni”. Sostanzialmente viene eliminato il principio dell'equivalenza delle mansioni, pertanto, sparisce il riferimento alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e al suo accrescimento. L'unico limite rimasto è quello per cui le nuove mansioni dovranno rientrare nella medesima categoria di inquadramento. Si è privilegiato, pertanto, soltanto il dato formale ed economico a scapito della professionalità del lavoratore, e tanto nell'ottica di un processo innovativo già intrapreso con il jobs act, che prevede una maggiore flessibilità lavorativa. Sono previste, tuttavia, due ulteriori ipotesi nelle quali è possibile anche derogare al principio del medesimo livello di inquadramento e che, pertanto, consentono la legittima adibizione del lavoratore a mansioni inferiori di un livello sia con identica retribuzione, ma anche con stipendio inferiore. La prima ipotesi è quella per cui, in presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro potrà modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore di un livello, senza possibilità però di modificare il suo trattamento economico, fatte salve quelle indennità accessorie proprie delle mansioni ricoperte in precedenza che, pertanto, potranno essere legittimamente decurtate. Si pensi, a titolo di esempio, alle indennità di disagio, a quelle di cassa ovvero a quelle di turno, e così via. Ebbene, salvo diverso accordo tra le parti, queste indennità, se rientranti nelle precedenti mansioni assegnate, in caso di variazione delle stesse, potranno essere lecitamente sottratte. Il decreto attuativo, con una sorta di delega in bianco, prevede altresì che la contrattazione collettiva e, pertanto, le associazioni sindacali e quelle di categoria dei datori di lavoro, possano individuare ulteriori ipotesi (al di fuori di quelle viste: ristrutturazione o riorganizzazione aziendale), nelle quali consentire l'adibizione a mansioni inferiori di un livello. Il riferimento generico alla “contrattazione collettiva”, porta a presumere che il riferimento possa essere, oltre che alla contrattazione nazionale, anche a quella di secondo livello, vale a dire su base territoriale e aziendale di settore. A tal proposito, ci auguriamo che la norma non presti il fianco ad eventuali abusi, da una parte o dall'altra, magari concernenti ristrutturazioni o riorganizzazioni aziendali inesistenti, utilizzate al solo scopo di demansionare il dipendente ovvero a continui ricorsi alla magistratura per eccepire l'inesistenza della fattispecie riorganizzativa. Ed invero, ricordiamo che la giurisprudenza si è già occupata di tali problematiche, sia pure in ambiti diversi, ad esempio per i trasferimenti, i licenziamenti o la cassa integrazione. In dette occasioni, la stessa, ha avuto modo di precisare come tali processi aziendali tecnico-organizzativi solitamente comportano la soppressione del settore lavorativo o del reparto cui era addetto il dipendente licenziato, sempreché risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (Cfr.: Cass. 7/01/2004, n. 28), la perdita di commesse e la riduzione degli ordini (Cfr.: Cass. 7/08/2013, n. 18827) e, comunque, ogni ragione, in senso economico, non escluse le esigenze di mercato o il perseguimento di un incremento dei profitti attraverso modifiche organizzative, ragione che tuttavia deve essere seria e non pretestuosa (Trib. Bari, 26/04/2012). Fermo restando che il giudizio non può estendersi fino a sindacare le scelte imprenditoriali, ma limitarsi a verificare la sussistenza del nesso causale tra la progettata riorganizzazione ed i singoli provvedimenti assunti nei confronti dei lavoratori. Infine, la terza e ultima ipotesi, quella sicuramente più gravosa per il lavoratore, prevede la possibilità di accordi individuali tra datore di lavoro e lavoratore, assunti “in sede protetta” - il riferimento è alle sedi di conciliazione previste dalla legge - con i quali, gli stessi, al fine di salvaguardare il posto di lavoro o per conseguire una diversa professionalità o il miglioramento delle condizioni di vita, possono modificare in peius sia il livello di inquadramento che la retribuzione. Pertanto, per la prima volta, viene prevista anche la possibilità di diminuzione della retribuzione percepita fino a quel momento dal prestatore di lavoro. Questa ipotesi, a differenza della precedente, non prevede che il livello di inquadramento possa essere ridotto al massimo “fino a un livello”, pertanto, appare plausibile che la modifica al ribasso possa riguardare anche più di un livello, rispetto all'inquadramento iniziale ovvero a quello acquisito successivamente. Appare evidente, infine, la necessità della forma scritta dell'accordo derogativo delle mansioni e della retribuzione, considerata l'obbligatorietà di raggiungere l'accordo in sede conciliativa. A tal uopo, la mancanza di forma scritta, potrebbe comportare la nullità del mutamento di mansioni, esponendo il datore di lavoro alla corresponsione di tutte le differenze retributive fino ad allora maturate. Avv. Paolo Accoti |
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