Data: 20/06/2015 12:00:00 - Autore: Marina Crisafi

di Marina Crisafi - Non sempre dare dello “sbirro” a un pubblico ufficiale integra il reato di oltraggio. Occorre, infatti, che la frase offensiva assuma una valenza obiettivamente denigratoria di colui che esercita la pubblica funzione e che non costituisca mera espressione di critica o villania.

Lo ha stabilito la sesta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 25903 depositata il 18 giugno scorso, accogliendo il ricorso di un uomo avverso la sentenza della Corte d'Appello di Palermo che lo aveva condannato ad un mese di reclusione per il reato di cui all'art. 341-bis c.p. per aver pronunciato, davanti a un bar e in presenza di diversi soggetti l'espressione “Ecco, sono arrivati gli sbirri” all'indirizzo delle forze dell'ordine denotando “un evidente disprezzo” confermato dal successivo rifiuto di fornire le proprie generalità.

La difesa dell'uomo ricorreva in Cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione in quanto il reato non poteva ritenersi integrato posto che la frase non era “offensiva dell'onore e della reputazione dei pubblici ufficiali coinvolti”.

Per la S.C. il ricorso è fondato.

Sbaglia infatti la Corte d'appello a ritenere sussistente il delitto di pubblico ufficiale, il quale, per come reintrodotto dal legislatore nel 2009, diversamente dalla incriminazione precedente abrogata, richiede “che l'offesa sia connotata dal requisito della pubblicità, e cioè avvenga in un luogo pubblico ovvero aperto al pubblico ed in presenza di più persone” e che le espressioni utilizzate abbiano “un'obiettiva idoneità offensiva”, siano tali cioè “da recare nocumento a quella particolare forma di decoro e di rispetto che deve circondare quanti esercitano una pubblica funzione”. Pertanto, non basta limitarsi a valutare il mero significato obiettivo delle parole, “ma si deve tenere conto anche dei criteri etico sociali comunemente condivisi e, soprattutto, della evoluzione del linguaggio nella società”. 

Ciò non significa, ovviamente, ha spiegato la Corte, “che l'obiettiva capacità offensiva delle parole possa ritenersi elisa dalla facilità con cui nella società contemporanea vengono abitualmente usate espressioni volgari o dal fatto che una data locuzione ricorra frequentemente nel linguaggio comune” ma per integrare il reato occorre che questa esprima “senza possibilità di equivoci, disprezzo e disistima per le funzioni del pubblico ufficiale”.

Inoltre, sebbene l'art. 341-bis non lo richieda expressis verbis (a differenza dell'ipotesi previgente), “l'offesa deve avvenire anche in presenza del pubblico ufficiale” ossia "mentre" lo stesso "compie un atto d'ufficio ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni" e che sia strettamente connessa a queste (prova del nesso funzionale).

Ne consegue, ha sintetizzato la Corte, che il delitto di oltraggio a p.u. non può ritenersi integrato quando le parole o le frasi offensive “costituiscano espressione di mera critica, anche accesa, o di villania – e non siano correlate - alla funzione pubblica del soggetto passivo, così da incidere sul consenso che la P.A. deve avere nella società”.

Nel caso di specie, anche se il termine “sbirro”, di ormai abituale utilizzo nel linguaggio corrente, risulta connotato da “valenza denigratoria”, non veniva rivolto dall'imputato direttamente agli esponenti dell'Arma dei carabinieri (come sarebbe avvenuto nel caso in cui lo stesso avesse detto, ad esempio, “siete proprio degli sbirri” o “vi state comportando da sbirri”), per cui rimane solo un “epiteto negativo”, irriverente e provocatorio, formulato in occasione dell'arrivo sul posto dei p.u. senza essere associato in modo diretto alla loro qualità o alla funzione svolta. Non c'è, dunque, quel “nesso funzionale” tra l'offesa e l'esercizio contemporaneo della funzione pubblica richiesto dall'incriminazione, né è integrata quell'”idoneità offensiva”, tale da recare il pregiudizio all'onore e al prestigio sanzioni dall'art. 341-bis c.p.

Né può avere rilievo ai fini della valenza oltraggiosa, come invece assume la Corte territoriale, il rifiuto dell'imputato di consegnare i propri documenti, “trattandosi di comportamento cronologicamente successivo ed ontologicamente distinto dall'articolazione della frase offensiva”. In definitiva, quindi, ricorso accolto e sentenza annullata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

 


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