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Data: 25/07/2015 18:30:00 - Autore: Marina Crisafi di Marina Crisafi - Illegittimo, discriminante, sproporzionato e irragionevole. Tale da violare la libertà sindacale sancita dall'art. 39 della Costituzione. Queste le motivazioni della nota sentenza n. 178/2015 depositate in questi giorni dalla Corte Costituzionale (qui sotto allegata) con la quale è stata decisa l'illegittimità del blocco dei contratti nel pubblico impiego. Una sentenza che, a differenza di quella sulla perequazione delle pensioni, non ha fatto venire l'ennesimo “colpo al cuore” al Governo visto che l'illegittimità non vale per il passato. La pronuncia, infatti, non ha effetti retroattivi ma ha efficacia dalla data di pubblicazione in Gazzetta ed è stato quindi evitato il buco di bilancio di 35 miliardi di euro paventato dall'Avvocatura dello Stato. Ma per il futuro il rinnovo dei contratti dovrà essere fatto senza se e senza ma. E le motivazioni che hanno indotto la Consulta a ritenere fondate le censure sul congelamento della parte economica delle procedure contrattuali e negoziali dei contratti pubblici (scattato per il 2013-2014 ed esteso fino al 2015) prendono le mosse dalla violazione dell'art. 39, primo comma, della Costituzione. Si tratta infatti per il giudice delle leggi di un blocco negoziale protratto nel tempo, con un susseguirsi “senza soluzione di continuità” di norme, tale da rendere evidente la violazione della libertà sindacale. Sia le norme impugnate dai giudici rimettenti che quelle sopravvenute della legge di stabilità 2015 sono accomunate dalla medesima direzione finalistica, quella di imporre il blocco agli aumenti che quindi va “colto in una prospettiva unitaria” per la sua incidenza sui valori costituzionali coinvolti. Valori che non ineriscono all'art. 36 della Costituzione sul diritto ad un'equa retribuzione, come sostenuto dalle censure, perché spiega la Corte le misure di contenimento, programmate triennalmente, rispondono “all'esigenza di governare una voce rilevante della spesa pubblica, che aveva registrato una crescita incontrollata, sopravanzando l'incremento delle retribuzioni del settore privato”. Tuttavia, osserva il giudice delle leggi le esigenze di mantenere l'equilibrio del bilancio dello Stato vanno contemperate con il diritto alla libertà sindacale. E se è vero che i periodi di sospensione delle procedure negoziali e contrattuali non possono ancorarsi “al rigido termine di un anno”, è altrettanto vero che questi periodi devono essere comunque definiti, non potendo protrarsi ad libitum. Una prolungata sospensione delle procedure negoziali e della regolare dinamica retributiva si pone, ha affermato con decisione la Corte “in contrasto con i principi di eguaglianza, di tutela del lavoro, di proporzionalità della retribuzione al lavoro svolto, di libertà di contrattazione collettiva”, la quale deve potersi esprimere con pienezza su ogni aspetto riguardante le condizioni lavorative e dunque anche sulla parte riguardante i profili economici. Ed ecco che bacchettando la condotta degli ultimi governi sulle proroghe, ha affermato la Corte, “le limitazioni, imposte dal legislatore per il periodo 2010-2014, introdurrebbero una disciplina irragionevole e sproporzionata, discriminando, per un periodo tutt'altro che transitorio ed eccezionale, i lavoratori pubblici rispetto ai lavoratori del settore privato”. Tuttavia, a conti fatti, la sentenza ha scongiurato il pericolo dell'ennesimo “buco” e il Governo, per ora, si è limitato a rinviare qualsiasi soluzione all'autunno, nella prossima legge di stabilità.
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