Data: 01/08/2015 16:30:00 - Autore: Carmelo Cataldi

In previsione di realizzare un volume sullo stato della condizione militare del cittadino italiano in armi, ho avuto modo di esaminare il contenuto del Codice dell'Ordinamento Militare e del Testo Unico delle disposizioni regolamentari.

Dall'analisi dei principi fondamentali e costituzionali sull'esercizio dei diritti del personale militare e dal raffronto comparativo tra la precedente normativa e quella attuale, che l'avrebbe dovuto soltanto filtrare, sfoltire, sfrondare, ma soprattutto compendiare, emerge che, uno fra gli articoli più importanti del Codice dell'Ordinamento Militare, presenta due profili di illegittimità costituzionale.

L'art. 1465 del COM, (”Ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini. Per garantire l'assolvimento dei compiti propri delle Forze armate sono imposte ai militari limitazioni nell'esercizio di alcuni di tali diritti, nonché l'osservanza di particolari doveri nell'ambito dei principi costituzionali.”) entrato in vigore con il decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 avrebbe dovuto riproporre l'articolo più importante della normativa di settore e cioè quello dichiarativo sull'esercizio e l'attribuzione al personale militare di tutti i diritti previsti dalla Carta Costituzionale.

Esso avrebbe dovuto riproporre sintatticamente lo stesso contenuto giuridico dell'art. 3 della precedente legge n. 382 del 1978 ("Ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini. Per garantire l'assolvimento dei compiti propri delle Forze armate la legge impone ai militari limitazioni nell'esercizio di alcuni di tali diritti, nonché l'osservanza di particolari doveri nell'ambito dei principi costituzionali.”), ma così non è avvenuto.

Ai meno accorti può sembrare che nel contenuto e nella forma nulla sia cambiato, ma ciò non corrisponde al vero, infatti, mentre la legislazione precedente prendeva che una possibile limitazione dei diritti costituzionali per il personale militare poteva avvenire esclusivamente attraverso una riserva di legge: “…legge impone ai militari limitazioni nell'esercizio di alcuni di tali diritti...", l'attuale normativa invece consente che tali limitazioni possano avvenire semplicemente attraverso un atto dispositivo interno: “… sono imposte ai militari limitazioni nell'esercizio di alcuni di tali diritti...”.

Lasciando invariato il presupposto essenziale (… per garantire l'assolvimento dei compiti propri delle Forze armate) secondo cui é possibile una limitazione dei diritti fondamentali dell'uomo in ambito militare, si pone in essere una trasmigrazione potestativa dal legislatore a quel singolo caporale di giornata che voglia obliterare un qualsiasi diritto di un suo sottoposto!

Il giurista capisce bene che la questione rileva costituzionalmente in quanto la riserva di legge posta nella precedente normativa, ed oggi omessa in quella regolamentare del C.O.M., ha rilevanza costituzionale perché espressa proprio all'interno del dettato costituzionale e discendente in forma cogente nell'ordinamento nazionale, in particolare proprio in quello militare.

In buona sostanza se prima, nel 1978, si pretendeva che i diritti dei militari potevano essere limitati, secondo un principio di contemperamento degli interessi generali con quelli particolari, in funzione di una riserva di legge, oggi invece dal 2010 con l'accezione “sono imposte” e non più “la legge impone”, si ha uno scavalcamento del dettato costituzionale ed il prospettarsi di una china in cui, attraverso dei semplici regolamenti interni, che nella gerarchia delle fonti si trovano al penultimo posto, prima delle circolari, è possibile obliterare qualsiasi diritto del militare. Ovviamente alle prime avvisaglie vi sarebbe un ricorso alla Corte Costituzionale che dichiarerebbe palesemente illegittimo l'art. 1465 richiedendone una sua corretta e precedente riformulazione.

Da tutto ci emerge che i diritti dei militari, alla stessa stregua della valenza dei compiti particolari delle Forze Armate, hanno rilevanza costituzionale e che le limitazioni dei primi sono giustificate soltanto se costituiscono il frutto di un'operazione di contemperamento di interessi necessari a garantire il perseguimento dei secondi, secondo una tassativa riserva di legge.

La dottrina militare ammette e condivide il principio del contemperamento riconducendo il tutto al dettato Costituzionale che, nel caso specifico del personale militare, lo fa discendere dal contenuto dell'art. 98 comma 3° e relativamente soltanto a quella parte che pone limiti e non divieti alla iscrizione ai partiti politici per magistrati, i militari di carriera etc., principio che è stato recentissimamente ripreso dalla CEDU in materia di diritti sindacali delle Forze Armate ricordando che la limitazione di un diritto non deve essere inteso come un'obliterazione totale dello stesso.

In effetti così il legislatore, non smentito da pareri della Corte Costituzionale, successivamente all'art. 3 della Legge sulle norme di principio sulla disciplina militare, ha ragionevolmente inteso contemperare i diritti costituzionali del cittadino militare con le esigenze dei particolari doveri propri di un'istituzione intesa a perseguire finalità parimenti tutelate dalla Costituzione e concernenti l'interesse dell'intera collettività nazionale.

Ciò sta a significare che il principio non è soltanto la giustificazione della riserva di legge, ma anche misura delle limitazioni e il cui equilibrio consiste nella esatta calibrazione dell'ampiezza della sua applicazione e dei principi posti in gioco.

Alla fine quello che risulta determinante, ai fini del giudizio oggettivo e soprattutto sotto il profilo giuridico, è valutare quali di questi interessi possono essere contemperati con i diritti legittimandone una limitazione sostanziale.

Il principale e il più importante, dettato proprio dalla Carta Costituzionale, è il sacro dovere del cittadino, di tutti i cittadini, ma soprattutto quello in uniforme, di difendere la Patria; i successivi sono quelli così detti “interessi organizzativi” delle Forze Armate e che devono essere considerati solo come interessi "mediati" in quanto non espressamente previsti e citati dalla Carta, ma ugualmente garantiti per il perseguimento dell'interesse principale, quello della difesa della Patria, il tutto nell'ottica di come possono, minimum laedere, essere opposti alla libera espansione delle libertà individuali del personale militare.

Da ciò ne discende che è l'efficienza della struttura militare delle FF. AA. il problema di immediata evidenza ed è proprio la Carta Costituzionale, che ha enunciato come supremo il sacro compito la difesa della Patria, affidandone il compito a tutti i cittadini, ma caricandolo di un significativo rilievo, per le Forze Armate, i cui membri sono chiamati, ad una cosciente esposizione a rischio della propria esistenza e integrità fisica, differenziandoli dal resto di tutti gli altri cittadini e proprio perché unica in tutto il testo costituzionale, l'aggettivazione “sacro dovere” attribuisce sostanza alle norme che hanno come finalità quella di consentire la realizzazione delle finalità di difesa della Patria a cui le Forze Armate sono precostituite istituzionalmente.

Rientrando nei parametri prettamente discorsi e tecnici, si può concludere affermando che l'art. 1465 è afflitto da due tipi di vizi che ne inficiano la copertura costituzionale del proprio dettato e cioè: la carenza di delega e la riserva di legge.

Per quanto attiene alla carenza di delega occorre osservare che questa è stata attribuita secondo i parametri previsti dalla legge 28 novembre 2005, n. 246 e, in particolare, dall'articolo 14, comma 14, così come sostituito dall'articolo 4, comma 1, lettera a), della legge 18 giugno 2009, n. 69, con il quale è stata attribuita al Governo la delega ad adottare, con le modalità di cui all'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, decreti legislativi che individuano quelle disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, delle quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, secondo i principi e criteri direttivi fissati nello stesso comma 14, dalla lettera a) alla lettera h) cioè:

a) esclusione delle disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita;

b) esclusione delle disposizioni che abbiano esaurito la loro funzione o siano prive di effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete;

c) identificazione delle disposizioni la cui abrogazione comporterebbe lesione dei diritti costituzionali;

d) identificazione delle disposizioni indispensabili per la regolamentazione di ciascun settore, anche utilizzando a tal fine le procedure di analisi e verifica dell'impatto della regolazione;

e) organizzazione delle disposizioni da mantenere in vigore per settori omogenei o per materie, secondo il contenuto precettivo di ciascuna di esse;

f) garanzia della coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa;

g) identificazione delle disposizioni la cui abrogazione comporterebbe effetti anche indiretti sulla finanza pubblica;

h) identificazione delle disposizioni contenute nei decreti ricognitivi, emanati ai sensi dell'articolo 1, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131, aventi per oggetto i principi fondamentali della legislazione dello Stato nelle materie previste dall'articolo 117, terzo comma, della Costituzione;

e comma 15, con cui si stabilisce che i decreti legislativi di cui al citato comma 14, provvedono, altresì, alla semplificazione o al riassetto della materia che ne è oggetto, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui all'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, anche al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970. Quindi riassetto e non stravolgimento dei principi fondamentali della norma e del recepimento in essa dei principi stessi della Costituzione.

Per quanto attiene alla riserva di legge è ormai consolidato principio tecno-giuridico che l'eventuale limitazione di un diritto previsto costituzionalmente debba essere prevista per riserva di legge stante la sua portata di diritto superiore all'interno di una gerarchia delle fonti dell'ordinamento italiano.

Rebus sic stantibus appare ovvio che il problema esiste e che prossimamente sarà argomento di discussione non solo in ambito giuridico ma anche dottrinale e scientifico.

Dr. Carmelo Cataldi


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