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Data: 03/08/2015 09:50:00 - Autore: Marina Crisafi di Marina Crisafi – Lenzuolo esposto in bella vista sul balcone di casa con la scritta “Questa donna è stata truffata dall'avvocato”, l'immagine della stessa e l'indicazione del nome e cognome del professionista. Questa l'operazione preparata con cura da un uomo per denunciare urbi et orbi l'errore professionale commesso da un avvocato, a danni della propria madre, in una vecchia vicenda giudiziale. Uno “scherzetto” che non ha fatto certo piacere al legale e che è valso all'uomo una condanna per diffamazione, confermata definitivamente dalla Cassazione (con sentenza n. 33274/2015, qui sotto allegata). Concordando con i giudici di merito, infatti, la quinta sezione penale, ha escluso categoricamente che il gesto dell'uomo potesse catalogarsi, come sostenuto dallo stesso, quale “reazione”. Pur considerando acclarato l'errore professionale del legale (il quale anni prima aveva assistito in sede civile la madre dell'imputato e una volta ricevuto dall'assicurazione un assegno di 90 milioni di lire lo aveva consegnato a un figlio della donna anziché alla stessa, il quale lo aveva quindi trattenuto per sé), la vicenda (peraltro conclusasi, a seguito di azioni legali, positivamente per la donna) era troppo risalente nel tempo. Non regge, quindi, per il Palazzaccio, l'ipotesi della provocazione. L'esimente è prevista, infatti, a favore di chi commette uno dei fatti previsti dagli artt. 594 e 595 c.p. “nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”. Pur essendo vero che “nei reati contro l'onore, ai fini dell'integrazione dell'esimente della provocazione, l'immediatezza della reazione deve essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell'esimente in questione e di frustarne la ‘ratio' – tuttavia è altrettanto vero, hanno precisato gli Ermellini che “l'azione reattiva sia condotta a termine persistendo l'accecamento dello stato d'ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l'insorgere della reazione e tale fatto sussista una reale contiguità temporale, così da escludere che il fatto ingiusto altrui diventi pretesto di aggressione alla sfera morale dell'offeso, da consumare nei tempi e con le modalità ritenute più favorevoli”. Per cui, nel caso di specie, non possono esservi dubbi sull'esclusione della contiguità temporale, posto che il “fatto ingiusto” era stato commesso diversi anni prima e il ricorrente aveva avviato le opportune azioni legali ottenendo, infine, soddisfazione. L'uomo non sfugge dunque alla condanna per il reato di diffamazione.
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