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Data: 06/08/2015 18:00:00 - Autore: Avv. Prof. Stefano Lenghi Con la sentenza 21 luglio 2015 n. 15218 (qui sotto allegata), la Corte di Cassazione, Sezione Civile-Lavoro, ha stabilito l'illegittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione comminata nei confronti di una dipendente comunale, sia perchè, riguardando la contestazione illeciti consistenti nella violazione di prescrizioni strettamente attinenti alla organizzazione aziendale, il Comune avrebbe dovuto provvedere all'affissione del codice disciplinare (statuita dall'art.7 della legge 20 maggio 1970 n.300-Statuto dei Lavoratori), sia perchè lo stesso Ccnl per il personale degli enti locali dispone che al codice disciplinare dev'essere data la massima pubblicità proprio mediante quell'affissione in luogo accessibile a tutti prevista dallo stesso art. 7 della legge n. 300/1970.
L'onere datoriale di affissione della normativa in materia disciplinare in luogo accessibile a tutti Prima di addentrarci nel cuore della motivazione della sentenza, cogliamo l'occasione per rivisitare, per chiarezza del lettore, il tema espresso dal titolo del paragrafo in questione. L'art. 7 della legge n. 300/1970, che, a tutela dell'interesse del lavoratore a poter esprimere nel modo più pregnante le sue difese nei confronti di un datore che intenda procedere disciplinarmente nei di lui confronti, ha introdotto un sistema di limiti di carattere procedurale e sostanziale all'esercizio del potere disciplinare, ha previsto, al primo comma, che “Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano”. La ratio della norma La ratio, la funzione di tale norma, che, come sappiamo, è collocata, sotto il profilo logico-sistematico, nel Titolo I della legge n. 300/1970, intitolato alla tutela del lavoratore sul piano della sua dignità, libertà e personalità morale, è, in buona sostanza, quella di individuare uno strumento apparso come il più idoneo a favorire la conoscenza, da parte dei lavoratori, delle norme e delle procedure in materia disciplinare, considerato che la violazione degli obblighi contrattualmente assunti dal lavoratore espone il medesimo a provvedimenti destinati ad incidere negativamente nella sua sfera giuridica, quando non addirittura sulla stessa stabilità del rapporto di lavoro. In sede di prima interpretazione dello Statuto dei Lavoratori (risaliamo agli anni '70) da parte di taluno, ricorrendo ad una similitudine con quanto avvenuto in materia penalistica, si era voluto motivare l'intervento del legislatore con l'intendimento di attuare, anche in materia giuslavoristica, quel principio di stretta legalità (principio di civiltà giuridica e morale) affermato dall'art.1 del codice penale (“Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”), in conformità a quanto stabilito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione (“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”). A prescindere dalla questione se il ricorso a tale similitudine sia o no appropriato (per la diversità che tratteggia le due situazioni), possiamo, però, riconoscere che, in relazione al tipo di tutela che si vuole accordare ai lavoratori, il parallelo può essere in un certo senso calzante, atteso che, attraverso una formulazione della norma nel suo spirito, l'art. 7, primo comma, potrebbe essere espresso affermando che “nessun lavoratore può essere punito per un fatto-comportamento che non sia previsto da norme e punito con sanzioni che il datore di lavoro ha portato a conoscenza del medesimo mediante affissione in luogo accessibile a tutti”. In altri termini, ha opinato il legislatore che, in materia di provvedimenti di natura sanzionatoria, che, come si è osservato, vanno ad incidere negativamente e restrittivamente nella sfera giuridica della persona umana, come ogni normale cittadino sa che può essere punito sul piano penalistico dallo Stato soltanto se si è reso responsabile di un fatto previsto dalla legge come reato e con pene previste dalla legge stessa e sa che le norme in materia penalistica sono rinvenibili nel codice penale e negli strumenti ufficiali di pubblicizzazione delle leggi, così è giusto che anche il cittadino-lavoratore, prima di essere punito dal suo datore di lavoro per un comportamento contrario ai doveri contrattualmente assunti nei confronti del medesimo, sia posto in grado di conoscere quali siano le norme in materia disciplinare, gli specifici doveri che esse sanciscono, le sanzioni alle quali si espone in caso di violazione di dette norme e le procedure attraverso le quali si attiva l'adozione e l'impugnativa delle sanzioni stesse. E' un'esigenza, questa, che un ordinamento democratico del lavoro non poteva non impegnarsi a voler soddisfare a tutela della dignità e della personalità morale del lavoratore in relazione all'interesse del medesimo a poter esprimere al meglio le sue difese nei confronti del datore, che lamenti eventuali inadempienze, anche in considerazione dell'incidenza e degli effetti che i provvedimenti disciplinari, come già più sopra osservato, possono spiegare sulla stessa stabilità del rapporto di lavoro. Ecco, quindi, la ragione dell'intervento del legislatore statutario, che, proprio attraverso il primo comma dell'art.7, ha voluto introdurre quella che deve considerarsi addirittura come la condizione-presupposto per l'esercizio di quel potere disciplinare, la cui titolarità è stata dall'art.2106 c.c. posta in capo al soggetto datore di lavoro: l'affissione in luogo accessibile a tutti della normativa in materia disciplinare. Per quanto concerne l'ultima parte dell'art. 7, primo comma, della legge n. 300/1970, teniamo a far rilevare al lettore quanta importanza il legislatore abbia annesso, proprio a partire dallo Statuto dei Lavoratori (che, come sappiamo, attraverso le norme del Titolo III, ha gettato le fondamenta per l'istituzione di un vero e proprio “diritto sindacale aziendale”), alla dimensione contrattuale e, in particolare, a quella sindacale, sino a pervenire ai giorni nostri, in cui, nel sistema di relazioni industriali, come abbiamo avuto modo di rilevare in vari nostri articoli, vuoi per l'intervento del legislatore, vuoi per la spinta propulsiva impressa proprio dalle grandi imprese, sta acquisendo un ruolo sempre più centrale e determinante la contrattazione collettiva aziendale (o di secondo livello). Tale ultima parte dell'art. 7, primo comma, della legge n. 300/1970 opera, in materia disciplinare, una decisa devoluzione di potestà normativa alla contrattazione, soprattutto collettiva, riducendo, così, il potere di determinazione normativa unilaterale del datore di lavoro. A fronte di ciò, il potere datoriale di determinazione unilaterale in materia disciplinare deve considerarsi del tutto residuale, potendo il medesimo intervenire in sede di produzione normativa soltanto laddove si manifesti un vuoto normativo da parte della contrattazione collettiva ed individuale. Rammentiamo soltanto, a riprova del ruolo sempre più incisivo che è avviato ad assumere il contratto collettivo aziendale, che, per effetto di quanto previsto dall'art. 51 del D.Lgs. 15 giugno 2015 n. 81 (Jobs Act-Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'art.1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014 n.183”), salvo diversa previsione, per contratti collettivi si intendono non solo i contratti collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale , bensì anche quelli territoriali, nonchè, soprattutto, i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
L'oggetto dell'affissione Per quanto concerne l'oggetto dell'affissione, diciamo subito che, in conformità al pensiero che oggi può considerarsi espresso in modo assolutamente prevalente sul piano dottrinario e giurisprudenziale, può affermarsi che la norma non obbliga certo il datore alla stesura di un vero e proprio codice disciplinare (ovverosia di una sorta di libello, che codifichi in modo autonomo ed organico tutte i possibili comportamenti sanzionabili). La redazione di un siffatto codice richiederebbe all'azienda un impegno assai consistente, con il rischio, comunque, di confezionare un documento non esaustivo e non certo di agevole comprensione. Ciò, anche se riconosciamo che si è assistito ad alcune produzioni aziendali in materia di tutto rispetto. Proprio a chi scrive, del resto, era stato conferito, per la verità già alcuni decenni or sono, da parte di un gruppo internazionale con sede in Francia ed operante, anche in Italia, nella gestione di servizi ferroviari in determinati settori, l'incarico di provvedere alla stesura di un vero e proprio libello disciplinare, che, nell'intenzione dei proponenti, avrebbe dovuto regolamentare tutti i possibili comportamenti in contrasto con norme di legge, con obblighi contrattuali e con il sistema delle disposizioni aziendali. In funzione dell'esigenza di elaborare un manuale a cui nulla sfuggisse in materia disciplinare, era stato richiesto dalla società di attendere alla sua stesura dopo aver condotto l'analisi, attraverso studi di documentazione ed interviste, di ciò che era avvenuto in decenni e decenni di operatività aziendale (fu un lavoro immane, che condusse, comunque, in relazione alla effettiva complessità delle esigenze datoriali, ad un risultato ragguardevole e, per quei tempi, unico….). Se, comunque, non si richiede l'elaborazione di un vero e proprio manuale organico ed esaustivo, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie richiedono, comunque, che il datore raccolga ed esponga nella documentazione da affiggere tutte le norme che, in quella determinata azienda ed in quel determinato momento, sono operanti in materia disciplinare. Volendo apprestare alle imprese un consiglio sul piano della concreta operatività, riteniamo che un'affissione possa considerarsi, in tutto e per tutto, veramente esaustiva, ove esponga gli articoli 2104, 2105 e 2106 del codice civile, l'art. 7 della legge 20 maggio 1970 n.300 (Statuto dei Lavoratori), il testo degli articoli del contratto collettivo nazionale di lavoro e degli eventuali accordi sindacali aziendali relativi alla materia disciplinare ed a quella sui licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, eventuali procedure di contestazione degli addebiti o di adozione dei provvedimenti espresse in accordi tra datore e rappresentanze sindacali aziendali o unilateralmente adottate dal datore di lavoro e quant'altro, in termini di normative o procedure, operi all'interno di quella determinata azienda con incidenza o riflessi di tipo disciplinare, sia di produzione contrattuale che datoriale, nulla escluso. E ci sembra essere proprio questa la migliore indicazione operativa da fornire ai professionals d'impresa, affinchè possano considerarsi pienamente attuate le finalità della norma in relazione agli interessi del lavoratore ch'essa mira a tutelare e l'impresa sia, quindi, certa di aver adottato un'impostazione giuridicamente ineccepibile. Ci sia solo consentito aggiungere che, in omaggio ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro (artt.1175 c.c. e 1375 c.c.), riteniamo che, nel caso in cui di una determinata sede o unità produttiva facciano parte anche lavoratori stranieri, il codice disciplinare debba essere esposto, nell'unità o sede alla quale appartengano detti lavoratori, anche con la traduzione nella lingua degli stessi o, comunque, in una lingua per essi senz'altro comprensibile.
Le modalità dell'affissione In ordine, poi, alle modalità dell'affissione, il pensiero dottrinario e giurisprudenziale prevalente ha affermato che “per luogo accessibile a tutti” deve intendersi un locale presso il quale i lavoratori dell'azienda transitano molto frequentemente. Ci sembra, peraltro, che, in relazione alle finalità perseguite dalla norma, tale accezione non possa considerarsi sufficiente. Se, infatti, scopo della norma è assicurare che tutti i lavoratori dell'azienda siano posti in grado di prendere visione e conoscenza della normativa in materia disciplinare, in relazione a tale interesse tutelato dalla norma stessa ci sembra che affermare che l'affissione dev'essere effettuata in luogo accessibile a tutti non possa significare che richiedere ch'essa debba avvenire in luoghi presso i quali devono necessariamente transitare tutti i dipendenti dell'azienda, per cui senz'altro in tutti i luoghi di ingresso/uscita (se l'azienda, quindi, è articolata in una o più sedi o unità produttive, l'affissione dovrà essere effettuata presso ogni accesso (ingresso/uscita) di ogni sede od unità produttiva). Ciò a meno che l'azienda non abbia deciso di porre a disposizione dei lavoratori di una determinata sede od unità produttiva un apposito locale, sempre accessibile ed agibile, dotato degli appositi spazi (bacheche) per l'affissione di comunicati di carattere sindacale e di interesse dei lavoratori (potrebbe anche trattarsi del locale messo a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali). In tal caso, però, la tassatività della norma e la tutela che essa mira ad apprestare esigono che il datore comunichi a ciascun lavoratore di aver posto a disposizione di tutti i dipendenti un locale, adibito, fra l'altro, all'affissione delle norme e procedure in materia disciplinare. Il datore dovrà, quindi, allestire, negli appositi spazi allocati presso tutti gli ingressi/uscite aziendali o presso il locale posto a disposizione delle maestranze, delle bacheche, all'interno delle quali effettuerà le prescritte affissioni (stante la responsabilità del datore di lavoro, che è chiamato a garantire l'affissione durante l'orario di lavoro, è assolutamente consigliabile l'installazione di bacheche con vetrine ermeticamente chiuse, che non consentano l'accesso dei dipendenti al materiale affisso, onde evitare eventuali sempre possibili asportazioni di tutto o parte di esso). Ove, poi, la prestazione di alcuni lavoratori sia resa presso locali di proprietà di soggetti terzi, (persone fisiche o giuridiche), la Corte di legittimità ha affermato la necessità che l'affissione del codice disciplinare abbia luogo anche in detti locali (Cfr. Cass., Sez.Civ.Lav., n. 24 del 2007) e, a nostro avviso, molto correttamente, in quanto, in tal caso, l'affissione sarebbe materialmente possibile. In ordine al concetto di accessibilità del luogo di affissione aggiungiamo che, da parte di dottrina e giurisprudenza, si è anche precisato che il locale dev'essere facilmente individuabile, immediatamente accessibile ed agibile, illuminato a sufficienza e dev'essere utilizzabile, senza che sia a ciò necessario l'ottenimento di particolari autorizzazioni (in tal senso si veda Cass., Sez.Civ.Lav, n.20733 del 2007). Per concludere sul punto, se vogliamo, insomma, esprimere, con una espressione succinta ma onnicomprensiva, l'onere previsto dall'art.7, primo comma, della legge n.300/1970, possiamo affermare che il datore deve affiggere tutto (tutto ciò che opera sul piano normativo nella sua azienda in materia disciplinare sotto il profilo legislativo, contrattuale e delle disposizioni o procedure aziendali) in luogo o in luoghi presso i quali devono necessariamente transitare tutti i lavoratori subordinati dell'impresa.
Illegittimità delle cc.dd. forme equipollenti di pubblicizzazione della materia sanzionatoria, ove sostitutive dell'affissione in luogo accessibile a tutti In relazione alla norma in questione è sorto, sin dalla sua entrata in vigore, il problema se l'obiettivo di far conoscere al lavoratore la normativa in materia disciplinare possa essere conseguito dal datore anche in modi diversi dall'affissione in luogo accessibile a tutti (ad es., attraverso la consegna brevi manu al lavoratore o l'invio al medesimo tramite lettera-raccomandata a.r. di un fascicolo, contenente la raccolta di tutte le norme in materia disciplinare o mediante comunicazioni telematiche). Diciamo pure subito che il magistero giurisprudenziale ha sempre assunto univocamente un orientamento inteso ad escludere la legittimità delle cosiddette forme equipollenti di adempimento dell'onere di pubblicizzazione, ove sostitutive della forma espressamente prevista dalla legge, dal momento che la norma ha operato, per le ragioni che ora vorremmo richiamare all'attenzione del lettore, una scelta di carattere tassativo. Non possiamo che concordare pienamente con la linea espressa dal pensiero giurisprudenziale. Il legislatore, infatti, ha giustamente ritenuto che l'affissione in luogo accessibile a tutti sia la forma di pubblicizzazione della normativa disciplinare che possa meglio contribuire a favorire la conoscenza delle norme disciplinari da parte del lavoratore, in quanto attuata in permanenza in quegli ambiti presso i quali il prestatore, vivendo tutte le sue giornate di lavoro e dovendo necessariamente transitare, è particolarmente richiamato a gettare l'occhio su ciò che attiene al suo rapporto di lavoro. La mera consegna del codice disciplinare al lavoratore o l'invio al domicilio del medesimo di detto codice (magari poi dimenticato dal prestatore in qualche scaffale o libreria di casa) o l'invio di comunicazioni telematiche non avrebbero esercitato, nei confronti dei lavoratori, quella funzione di incentivo ad attingere informazioni, che è, invece, svolta dalla permanente affissione delle stesse nei luoghi in cui tutti i giorni si lavora, ci si relaziona con i colleghi e ci si reca alle bacheche per prendere conoscenza dei comunicati e di quanto di interesse dei problemi del lavoro. Di qui l'esigenza di adottare uno strumento di conoscenza e pubblicizzazione delle norme disciplinari, che richiamasse perennemente l'attenzione dei lavoratori proprio nel luogo ove essi vivono il loro rapporto di lavoro come singoli e come comunità aziendale. Apparendo l'affissione in luogo accessibile a tutti lo strumento conoscitivo che meglio si attaglia allo scopo, il legislatore ha giustamente optato per la sua adozione in via esclusiva e tassativa, anche al fine di assicurare, all'interno delle aziende, l'applicazione di un criterio unico ed uniforme, che fosse quello da ritenersi il più confacente al conseguimento dell'obiettivo. Tutto ciò dà contezza delle ragioni per le quali il pensiero giurisprudenziale ha ritenuto le forme equipollenti, ove sostitutive dell'affissione in luogo accessibile a tutti, assolutamente insufficienti.
Casi in cui viene meno l'onere datoriale dell'affissione in luogo accessibile a tutti Tutto ciò posto, vi sono due casi in cui viene meno, a carico del datore, l'onere di procedere alla affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti. - Impossibilità di procedere all'affissione quando il luogo di lavoro del prestatore è un'area geografica e non un'unità produttiva in senso organizzativo E' chiaro, innanzitutto, che l'onere dell'affissione in luogo accessibile a tutti verrebbe necessariamente meno nei casi in cui la sua attuazione si rivelasse materialmente impossibile. Si pensi al caso di un informatore medico-scientifico del farmaco, la cui unità produttiva in cui opera è la zona o l'area geografica, nella quale deve quotidianamente muoversi per visitare i medici che ivi esercitano la loro professione. In tal caso, non esistendo un'unità produttiva in senso organizzativo od un locale presso il cui ingresso/uscita effettuare l'affissione, al datore non resterebbe che l'invio al lavoratore del fascicolo recante le norme disciplinari, in allegato a lettera-raccomandata a.r., nella quale il datore, motivando la lettera stessa con la necessità di ottemperare a quanto prescritto dall'art.7, primo comma, della legge n.300/1970, stante l'impossibilità di effettuare l'affissione in luogo accessibile a tutti, richiamasse l'attenzione del lavoratore sulla necessità di prendere conoscenza di tutto ciò che concerne gli aspetti disciplinari e di operare in conformità a quanto prescritto. Giova, peraltro, rammentare che, come già anticipato nel precedente paragrafo 2.3), nel caso in cui vi siano dipendenti chiamati a svolgere contrattualmente attività lavorativa presso determinati locali di proprietà di soggetti terzi, persone fisiche o giuridiche, la Corte di legittimità ha affermato la necessità di procedere all'affissione nei locali stessi (in tal senso Cass., cfr. Sez.Civ.Lav., n.247/2007) e, a nostro avviso, come già si è osservato, molto correttamente, considerando che, in tal caso, l'affissione sarebbe materialmente effettuabile. - Non necessità di procedere all'affissione per comportamenti che ogni persona fisica percepisce immediatamente come illeciti Il pensiero professato dalla giurisprudenza più tradizionale e risalente nel tempo opinava che il principio dell'onere di pubblicizzazione della materia disciplinare non potesse essere derogato in alcun caso. Il magistero giurisprudenziale più recente e, in particolare, quello di legittimità, si è, invece, da anni ormai univocamente orientato (e non si può che concordare pienamente con tale linea di pensiero) nel senso secondo cui non vi è certo necessità, per il datore, di procedere all'affissione, in tutti quei casi in cui il comportamento sia immediatamente percepibile dallo stesso lavoratore come illecito, perchè contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penalistica, ben potendo il lavoratore rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta E ciò viene oggi concordemente affermato dalla magistratura anche relativamente alle sanzioni c.c.d.d. conservative, mentre in base all'orientamento precedente, da anni ormai del tutto superato, nel caso di adozione di sanzioni conservative (ovverosia diverse da quelle c.c.d.d. espulsive del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo), l'affissione della materia disciplinare era da considerarsi indispensabile ai fini della legittimità della sanzione stessa (vedi, ex plurimis, Cass., Sez.Civ.Lav., 21 luglio 2015 n.15218, Cass., Sez.Civ.Lav., 26 marzo 2014 n.7105; Cass., Sez.Civ.Lav., 03 ottobre 2013 n.22626, secondo cui “non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione. Fatta eccezione per comportamenti che potrebbero integrare mere prassi, per cui sorgerebbe la necessità di far conoscere che tali comportamenti siano ritenuti illegittimi”.; Cass., Sez.Civ.Lav. 27 gennaio 2011 n. 1926). Tanto per esemplificare, ogni lavoratore sa benissimo che il furto o il danneggiamento di beni aziendali o il porre in essere atti di minaccia o violenza nei confronti di chicchessia concretano comportamenti che assumono rilevanza penalistica o sa benissimo che svolgere durante la malattia attività a favore di terzi palesemente idonea a compromettere la guarigione concretano comportamenti di rilevanza penalistica o, comunque, illeciti, senza che ci sia bisogno dell'affissione di una norma che espressamente li preveda come comportamenti sanzionabili. Invitiamo, pertanto, gli operatori della gestione delle risorse umane ed i professionisti che li assistono, a tener presente che l'affissione in luogo accessibile a tutti può considerarsi non obbligatoria:
a) nel caso di sanzioni adottate per comportamenti immediatamente percepibili dal lavoratore come contrari al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penalistica: b) relativamente ad addebiti comunque inerenti a comportamenti che ogni lavoratore, indipendentemente dal fatto di non aver rispettato le regole tecniche o le procedure da osservare nello svolgimento della prestazione, percepisce immediatamente come posti in essere per sua negligenza (ad es., un lavoratore adibito, durante il turno notturno, alle sistematiche operazioni di controllo del regolare funzionamento di una delicata apparecchiatura , da eseguirsi, per evitare blocchi del processo produttivo, nonchè danni a persone o beni aziendali, nel rispetto di determinate procedure, il quale non svolge diligentemente la sua prestazione, perché distratto dal guardare un piccolo televisore o perché si addormenta); c) nel caso in cui una legge nazionale preveda specifiche sanzioni per una determinata condotta e si tratti di condotta, la cui illiceità è ormai di dominio pubblico e, quindi, nota a tutti i consociati.
Torniamo alla sentenza della Suprema Corte: le vicende processuali, cui la fattispecie ha dato luogo Il Comune di Lauro, con provvedimento in data 04 luglio 2003, irrogava nei confronti della propria dipendente P.A.M. la sanzione disciplinare di quattro giorni di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, per violazione consistita nell'aver disatteso la specifica disposizione, impartitale dal dirigente, di usufruire di un protocollo interno del settore di competenza per il deposito di documentazione attinente ad una pratica relativa ad un invalido, avendo la dipendente affidato a persona estranea alla Amministrazione i documenti da recapitare al protocollo generale. Avendo la dipendente impugnato la sanzione in via giurisdizionale, il giudice di prime cure, ritenendo legittima la sanzione, respingeva il ricorso. Avverso la sentenza di primo grado interponeva appello la dipendente avanti alla Corte d'Appello di Napoli, la quale, in riforma della decisione del giudice di prima istanza, dichiarava l'illegittimità della sanzione disciplinare, fondando il proprio convincimento essenzialmente sul rilievo della intervenuta violazione dell'obbligo di affissione del codice disciplinare sancito dall'art.7 della legge 20 maggio 1970 n. 300. Argomentava, in particolare, la Corte territoriale che, nella specie, si verteva in tema di applicazione di una sanzione conservativa; che il Comune non aveva dedotto né tantomeno provato, di aver pubblicizzato mediante affissione in luogo accessibile a tutti, il codice disciplinare (così come previsto dall'art. 23 comparto regioni-autonomie locali); che detto adempimento, diversamente dall'ipotesi di contestazione di comportamenti contrari agli interessi dell'impresa o ai doveri morali generalmente condivisi, era irrinunciabile, non essendo oggetto di addebito fattispecie integranti ipotesi di reato o violazione di regole elementari di vita, bensì illeciti consistiti nella violazione di prescrizioni strettamente attinenti all'organizzazione datoriale. Avverso tale decisione del giudice di appello esperiva ricorso per cassazione il Comune di Lauro, articolandolo su tre motivi, che, investendo questioni giuridiche fra loro connesse, sono stati esaminati congiuntamente e ritenuti tutti infondati dalla Suprema Corte, la quale ha respinto il ricorso, accogliendo pienamente le argomentazioni sviluppate dalla Corte territoriale.
Il pensiero espresso dalla Corte di legittimità: un magistero pienamente da condividere La sentenza in commento, recependo integralmente gli assunti della Corte d'Appello di Napoli, fonda la sua motivazione sullo sviluppo di un duplice ordine di argomentazioni. Innanzitutto, il Supremo Collegio respinge vibratamente il ragionamento logico-giuridico del Comune di Lauro (a nostro modesto parere, proprio privo di ogni giuridico fondamento), che, criticando la linea di pensiero della Corte territoriale, assumeva che i giudici di appello avrebbero dovuto adottare l'interpretazione flessibile dell'art.7, primo comma, della legge n.300/1970, dal Supremo Consesso estesa anche alle sanzioni disciplinari conservative, secondo cui la pubblicità del codice disciplinare non è necessaria, se la mancanza addebitata dipende dalla violazione di norme di legge e, comunque, di doveri fondamentali del lavoratore. Non possiamo che condividere in toto il pensiero espresso dai supremi giudici. Se è vero, infatti, che l'interpretazione flessibile dell'art.7, primo comma, è stata estesa dalla Corte di Cassazione anche al caso delle sanzioni conservative, è, però, altrettanto vero che, nella fattispecie oggetto del contenzioso, è completamente fuori luogo richiamare tale tipo di interpretazione, non sussistendo minimamente gli estremi per la sua applicazione. Quando, infatti, come nella specie, la condotta contestata “appaia violatrice non di generali obblighi di legge, ma di puntuali regole comportamentali negozialmente previste e funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro”, l'affissione non può che rivelarsi necessaria, affinchè, ci sembra di dover aggiungere, il lavoratore prenda conoscenza, attraverso di essa, del modello di comportamento da tenere in quella determinata situazione. Ed in linea con tale orientamento, muovendo dalla constatazione che, nella specie, la contestazione riguardava non un comportamento immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito (in quanto comportamento contrario al minimo etico o a norme di rilevanza penalistica), bensì un comportamento consistente nella violazione di prescrizioni strettamente attinenti alla organizzazione aziendale (“aver disatteso la specifica disposizione, impartitale dal dirigente, di usufruire di un protocollo interno del settore di competenza per il deposito di documentazione attinente ad una pratica relativa ad un invalido, avendo la dipendente affidato a persona estranea alla Amministrazione i documenti da recapitare al protocollo generale”), la Corte territoriale ha molto correttamente ritenuto la essenzialità della affissione del codice disciplinare. In secondo luogo, la Suprema Corte contesta la tesi di parte comunale, secondo cui, stante la natura “normativa” dei contratti collettivi di lavoro nella pubblica amministrazione (che sono l'esito di un procedimento regolato ex lege, ai sensi dell'art.47 del D. Lgs. n.165/2001, la cui efficacia si perfeziona con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale), la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale sarebbe sufficiente alla conoscenza da parte della generalità dei consociati, ciò che renderebbe inutile l'affissione (il Comune di Lauro si è richiamato alla sentenza Cass., Sez. Civ.Lav., 08 gennaio 2007 n.56). A tale argomentazione i giudici di legittimità ribattono che “in tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendenti pubblici, la disposizione di cui all'art. 25, n.10, del c.c.n.l. del 6 luglio 1995 per il personale degli enti locali, prevede che al codice disciplinare deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti. La particolare disciplina contenuta nel CCNL di settore - di natura pubblicistica e quindi oggetto di accertamento ed interpretazione diretta da parte della Corte di Cassazione - prevede che al codice disciplinare deve essere data una particolare forma di pubblicità, che è tassativa e non può essere sostituita con altre (vedi, in tali sensi, anche Cass. 23 marzo 2010 n. 6976)”. In tale prospettiva, osserva molto correttamente il Supremo Collegio, resta superato anche il rilievo sollevato dal ricorrente, così come non può ritenersi invocabile il precedente della giurisprudenza di legittimità richiamato dal Comune, poichè, nel caso di specie, a tagliare la testa al toro, “è il contenuto stesso della disposizione collettiva che disciplina la fattispecie scrutinata - relativa all'obbligo di idonea pubblicità del codice disciplinare - che palesa come inderogabile siffatto obbligo, e rende inapplicabile sia quella giurisprudenza la quale ha ritenuto non necessaria l'affissione del codice disciplinare, quando la violazione è percepita come tale dal senso comune o in base ai principi generali (vedi Cass. cit. n. 6976/10), sia quell'orientamento che sulla natura "normativa" delle disposizioni collettive di comparto, fonda il giudizio di non necessità della affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti”. Non si può, pertanto, a nostro avviso, che aderire pienamente all'assunto della Corte di legittimità e della Corte territoriale. Essendo, infatti, la stessa norma del c.c.n.l. per i dipendenti egli enti locali oltremodo chiara, tassativa ed inequivocabile nel senso di negare che la pubblicizzazione per affissione della normativa disciplinare possa ammettere equipollenti, giustamente chiosano i giudici in ermellino che “la statuizione della Corte di Appello, che su detta disposizione si fonda…., è ineccepibile e si sottrae alle censure svolte”. Insomma, è la stessa norma contrattuale dell'art.25, n.10, del c.c.n.l. 06 luglio1995 per i dipendenti pubblici dagli enti locali a stabilire in assoluto che al codice disciplinare dev'essere data la massima pubblicità proprio mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti, per cui un disposto di carattere così tassativo esclude di per sè, a priori, la validità di ogni altra forma equipollente. Due ragioni incontrovertibili, pertanto, per sposare, nel caso di specie, la tesi della necessità dell'affissione della normativa disciplinare in luogo accessibile a tutti! Avv. Prof. Stefano Lenghi
Qui di seguito il testo della sentenza: Cass. Civ. Lav. 21 luglio 2015, n. 15218Lavoro - Sanzione disciplinare della sospensione dal servizio - Illegittimità - Violazione dell'obbligo di affissione del codice disciplinare
Svolgimento del processo Con sentenza 23/2/09 la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della pronuncia resa dal giudice di prima istanza, dichiarava l'illegittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per quattro giorni, irrogata dal Comune di Lauro nei confronti di P.A.M. con provvedimento in data 4/7/03, per violazione consistita nell'aver disatteso la specifica disposizione impartitale dal dirigente di usufruire di un protocollo interno del settore di competenza per il deposito di documentazione attinente ad una pratica relativa ad un invalido, avendo la dipendente affidato a persona estranea alla Amministrazione, i documenti da recapitare al protocollo generale. La Corte territoriale fondava il proprio convincimento essenzialmente sul rilievo della intervenuta violazione dell'obbligo di affissione del codice disciplinare sancito dalla L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 7. Osservava che nella specie si verteva in tema di applicazione di una sanzione conservativa; che il Comune non aveva dedotto né tantomeno provato, di aver pubblicizzato mediante affissione in luogo accessibile a tutti, il codice disciplinare (così come previsto dall'art. 23 comparto regioni-autonomie locali); che detto adempimento, diversamente dall'ipotesi di contestazione di comportamenti contrari agli interessi dell'impresa o ai doveri morali generalmente condivisi, era irrinunciabile, non essendo oggetto di addebito, fattispecie integranti ipotesi di reato o violazione di regole elementari di vita, bensì illeciti consistiti nella violazione di prescrizioni strettamente attinenti all'organizzazione datoriale. Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il Comune di Lauro affidato a tre motivi. P.A.M. non ha svolto attività difensiva. Motivi della decisione Con il primo motivo si denuncia, ex art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300, artt. 112- 420- 421 c.p.c. nonché difetto di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. Si critica la decisione impugnata per aver argomentato in ordine alla mancata allegazione della affissione in luogo accessibile a tutti, del codice disciplinare, tralasciando di considerare che in sede di memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, era stata espressamente dedotta la circostanza della intervenuta affissione della normativa del c.c.n.l. applicabile ratione temporis relativa alle infrazioni e sanzioni disciplinari, era stata regolarmente affissa nell'Albo Pretorio, e che detta circostanza non era stata oggetto di contestazione ex adverso. Con il secondo mezzo di impugnazione, si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300, nonché difetto di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Parte ricorrente stigmatizza l'argomentare dei giudici del gravame, laddove hanno reputato l'adempimento concernente l'affissione del codice disciplinare in luogo visibile a tutti, come indefettibile ai fini della validità della sanzione irrogata e si richiama all'orientamento espresso in sede di legittimità che estende l'interpretazione flessibile dell'art. 7 L. 300/70 (secondo cui la pubblicità del codice disciplinare non è necessaria se la mancanza addebitata dipende dalla violazione di norme di legge e, comunque, di doveri fondamentali del lavoratore), anche alle sanzioni disciplinari conservative. Con il terzo motivo si denuncia, ex art. 360 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione degli artt. 47 e 55 d.lgs. 30 marzo 2001 n.165 nonché dell'art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300. Si lamenta che la sentenza impugnata abbia tralasciato di considerare il dettato normativo di cui all'art. 47 comma 8 d.lgsl. 165/01, alla cui stregua per i contratti collettivi di lavoro nel pubblico impiego privatizzato, è prescritta la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Si osserva, quindi, che i contratti collettivi di lavoro nella P.A. sono atti normativi che configurano una categoria di fonti di diritto oggettivo ed, in quanto tali, non rendono necessario l'obbligo di procedere alla pubblica affissione. I motivi, che per presupporre la soluzione di questioni giuridiche fra loro connesse possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati. Occorre premettere che giurisprudenza di questa Corte, anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative - e non per le sole sanzioni espulsive - ha ritenuto che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (vedi ex plurimis, Cass. 27 gennaio 2011 n. 1926). Da quanto esposto emerge, tuttavia, che quando la condotta contestata al lavoratore appaia violatrice non di generali obblighi di legge ma di puntuali regole comportamentali negozialmente previste e funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro, l'affissione si presenta necessaria. Orbene, in linea con tale orientamento, la Corte territoriale, muovendo dalla constatazione che, nella specie, la contestazione riguardava illeciti consistenti nella violazione di prescrizioni strettamente attinenti alla organizzazione aziendale, ha ritenuto la essenzialità della affissione del codice disciplinare. Va inoltre, considerato che, in tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendenti pubblici, la disposizione di cui all'art. 25, n.10, del c.c.n.l. del 6 luglio 1995 per il personale degli enti locali- prevede che al codice disciplinare deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti. La particolare disciplina contenuta nel CCNL di settore - di natura pubblicistica e quindi oggetto di accertamento ed interpretazione diretta da parte della Corte di Cassazione - prevede che al codice disciplinare deve essere data una particolare forma di pubblicità, che è tassativa e non può essere sostituita con altre (vedi, in tali sensi, Cass. 23 marzo 2010 n. 6976). In tale prospettiva resta superato anche il rilievo sollevato dal ricorrente con riferimento alla natura "normativa" dei contratti collettivi di lavoro nelle pubbliche amministrazione, che sono l'esito di un procedimento regolato ex lege (art. 47 d.lgsl. n. 165/01) la cui efficacia si perfezione con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Non può, infatti, ritenersi in questa sede invocabile il principio, pur enunciato da questa Corte, alla cui stregua la previsione nella disposizione di legge, pubblicata nella Gazzetta ufficiale, è sufficiente alla conoscenza da parte della generalità e rende inutile la suddetta affissione (vedi Cass. 8 gennaio 2007 n. 56). Ciò in quanto è il contenuto stesso della disposizione collettiva che disciplina la fattispecie scrutinata - relativa all'obbligo di idonea pubblicità del codice disciplinare - che palesa come inderogabile siffatto obbligo, e rende inapplicabile sia quella giurisprudenza la quale ha ritenuto non necessaria l'affissione del codice disciplinare quando la violazione è percepita come tale dal senso comune o in base ai principi generali (vedi Cass. cit. n. 6976/10), sia quell'orientamento che sulla natura "normativa" delle disposizioni collettive di comparto, fonda il giudizio di non necessità della affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti. Conclusivamente, essendo la norma pattizia chiara nel senso di negare che la pubblicazione per affissione ammetta equipollenti, deve ritenersi che la statuizione della Corte di Appello, che su detta disposizione si fonda (vedi pag. 5), è ineccepibile e si sottrae alle censure svolte. Né, onde pervenire a diverse conclusioni, può aderirsi alla tesi prospettata con il primo motivo di doglianza, secondo cui sarebbe stato onere della lavoratrice contestare la allegazione contenuta in sede di memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, e relativa alla circostanza della intervenuta affissione della normativa del c.c.n.l. applicabile ratione temporis concernente le infrazioni e sanzioni disciplinari nell'Albo Pretorio, oltre che fornire prova contraria. Nella specie, infatti, nel ricorso introduttivo la P. ha lamentato la mancata affissione del codice disciplinare con la conseguenza che, di fronte a tale doglianza, era onere del Comune convenuto non solo contestare tale assunto, ma anche fornire la prova del relativo adempimento (vedi ex plurimis, Cass. n. 4572 del 1995), ciò che non è avvenuto. In definitiva, sotto tutti i profili delineati, il ricorso si presenta privo di pregio e va pertanto respinto. Nessuna statuizione va emessa in punto spese, non avendo l'intimata svolto attività difensiva. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
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