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Data: 01/10/2015 18:00:00 - Autore: Avv. Eraldo Quici Avv. Eraldo Quici - La condotta negligente/imprudente/imperita del sanitario può determinare un serio pregiudizio nei confronti del paziente: si configura così in capo a quest'ultimo il diritto ad essere adeguatamente risarcito. I danni risarcibili in questa ipotesi, non patrimoniali, sono in genere di due tipi: il danno biologico e quello morale. Il primo rappresenta una qualsiasi menomazione dell'integrità psico-fisica del soggetto; inteso in codesto modo, esso abbraccia tutte le possibili sofferenze ricollegate alla lesione della salute. Il danno morale, invece, si configura come forme di dolore e di patimento del paziente; è in sostanza un turbamento dell'animo, una sofferenza intima che prescinde da eventuali degenerazioni patologiche (“pecunia doloris”). Mentre il danno biologico presuppone la presenza di un'alterazione fisica e/o psichica dell'individuo, quello morale, al contrario, essendo soggettivo ed intimo, attrae patimenti non legati alla lesione della sfera fisica. La possibilità di risarcire i danni non patrimoniali è stata decretata dalla Corte Costituzionale con l'importante sentenza 184 del 14/07/1986. In passato, difatti, tale opportunità era esperibile solo nelle tassative ipotesi delineate dall'art. 2059 c.c., coincidenti, in sostanza, con le obligationes ex delicto previste dall'art. 185 c.p. L'intervento effettuato dalla Consulta ha potuto allargare le ipotesi di risarcibilità dei danni non patrimoniali, le quali oggi pertanto prescindono dalla presenza o meno di fattispecie delittuose. Nonostante il rilevante intervento della Corte Costituzionale del 1986, per molti anni la giurisprudenza ha individuato una sola categoria di danno non patrimoniale risarcibile, ossia quella facente capo al pregiudizio biologico. Al danno morale, al contrario, è stata negata per molto tempo la propria autonomia ed indipendenza. Solo recentemente la giurisprudenza ha riconosciuto anche al danno morale un proprio spazio di autonomia: ciò è stato possibile in particolare grazie al dettato costituzionale. E' la Costituzione, difatti, che prevede e garantisce i due tipi di pregiudizio. Nello specifico, il danno biologico si pone a tutela del diritto alla salute così come sancito dall'art. 32 Cost., mentre quello morale viene ricondotto alla lesione dell'integrità morale, massima espressione della dignità umana, desumibile essenzialmente dall'art. 2 Cost. Le due categorie di pregiudizio sono pertanto ontologicamente distinte e differenti. Importante e significativa a tal proposito è la sentenza n. 24082 del 17/11/2011 della Terza Sezione della S.C. di Cassazione. La decisione de quo assume una rilevanza positiva, in quanto ha riconosciuto il danno morale c.d. “riflesso” da morte del congiunto anche senza prova dell'insorgere della patologia. La S.C. ha sancito l'esistenza di un pregiudizio morale riflesso derivante dal rapporto di parentela tra la vittima ed il richiedente la liquidazione del danno anche in assenza della prova dell'insorgere della malattia. Il danno morale trova causa immediata e diretta nello stesso fatto dannoso, e la sua prova può essere desunta dallo stretto vincolo familiare che i congiunti avevano con la vittima quando essa era ancora in vita. Il danno morale, dunque, è una categoria ontologicamente autonoma rispetto a quella del pregiudizio biologico: il primo può ben configurarsi ed essere risarcito anche in assenza di una menomazione dell'integrità psico-fisica del soggetto. Il valore dell'integrità morale non può assolutamente essere considerato una quota minore del danno alla salute (Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 29191 del 12/12/2008; Trib. Roma, Sez. XIII, sent. del 17/05/2012). Il fatto poi che qualsiasi lesione della salute determini necessariamente una sofferenza fisica e psichica non esclude, anzi, avvalora la tesi dell'autonomia delle due voci di danno; e la voce di danno morale soggettivo ha lo scopo di assicurare al paziente danneggiato un'utilità sostituiva e ristoratrice delle sofferenze psichiche patite (Trib. Palermo, Sez. III, sent. del 15/10/2010). Riguardo al tema della valutazione e della liquidazione del danno, trovano applicazione i principi desunti dagli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c. In primo luogo, il risarcimento del danno deve comprendere sia la perdita subita, sia il mancato guadagno. In ordine alla valutazione del danno, vi provvede il giudice mediante un apprezzamento equitativo. Tale valutazione deve tenere conto delle specifiche circostanze del caso concreto, tra le quali si rammentano: la gravità delle lesioni, i postumi permanenti, l'età del danneggiato e le condizioni sociali e familiari di quest'ultimo. La valutazione viene così ad articolarsi in due distinte fasi: a) il giudice dapprima determina un ammontare base, ricavandolo da un calcolo svolto secondo le regole proprie del modello equitativo che egli ha inteso utilizzare; b) in seguito, egli decide se e come adeguare la somma determinata in precedenza al caso concreto (cfr. Cassano - Cirillo, “Casi di responsabilità medica”, Maggioli Editore). Nulla osta all'utilizzo, da parte del giudice, di apposite tabelle per la determinazione del quantum (esempio tipico è quello delle tabelle delineate dal Tribunale di Milano). Ma anche l'uso di una tabella non esonera l'organo giudicante dal personalizzare l'ammontare del danno al singolo caso concreto, dato che, al contrario, la liquidazione sarebbe trasferita dal potere equitativo del giudice ai rigidi parametri delle tabelle (Cass. Civ., sent. n. 4852 del 19/05/1999). L'interpretazione equitativa, infine, non solo risponde ad esigenze di proporzione, ma anche di uguaglianza: si evita così che danni identici possano essere liquidati in misura diversa, poiché le relative controversie sono decise da magistrati differenti (Cass. Civ., sent. n. 12408 del 07/06/2011). |
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