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Data: 02/10/2015 19:00:00 - Autore: Marina Crisafi di Marina Crisafi - Abogados, avocat e avvocati. A ciascuno il suo, senza creare confusione. A mettere i paletti è l'ordine forense di Bologna con una circolare (la n 70/2015 diramata a tutti gli iscritti il 28 settembre scorso) che specifica esplicitamente i limiti alla spendita del titolo di avvocato “stabilito” conseguito in un Paese straniero. La normativa, si ricorda, consente l'iscrizione nell'apposita sezione speciale dell'albo degli avvocati stabiliti, permettendo l'esercizio della professione forense da parte dei cittadini europei che abbiano conseguito l'abilitazione nel loro Paese d'origine. “Il principio, giusto e corretto, ha tuttavia avuto negli ultimi anni – si legge nella circolare - un'applicazione distorta: molti laureati in giurisprudenza italiani, grazie a percorsi integrativi agevolati, hanno ottenuto in Spagna e in Romania l'omologazione della propria laurea italiana al corrispondente titolo spagnolo o rumeno, per poi fare ritorno in Italia e chiedere l'iscrizione nella sezione speciale degli avvocati stabiliti”. Il 92% degli avvocati stabiliti in Italia è, infatti, secondo i dati, continua la circolare, di nazionalità italiana, e tra costoro l'83% ha conseguito il titolo in Spagna e il 4% in Romania. La predilezione per tali mete, si legge ancora nella circolare, “è, notoriamente, dovuta al fatto che, in quei Paesi non è previsto un esame di abilitazione alla professione di avvocato, che può essere svolta liberamente da chi si sia semplicemente laureato in giurisprudenza; dunque, il successivo rientro in Italia come "stabilito" consente, di fatto, di eludere il superamento dell'obbligatorio esame da avvocato che è previsto nel nostro ordinamento”. Una situazione palesemente non gradita dal Consiglio che negli anni, facendo leva sulla giurisprudenza (anche del CNF) in materia di “abuso del diritto”, ha ripetutamente rigettato le richieste di iscrizione nelle sezioni speciali presentate dai cittadini italiani in possesso del titolo di abogado o di avocat. Ma oggi, spiega il COA, dopo le sentenze delle sezioni Unite della Cassazione (cfr. n. 28340/2011), del provvedimento del 23 aprile 2013 dell'Authority e l'intervento della Corte di Giustizia Europea con sentenza del 17 luglio 2014 (C58/13), “il rigetto di tali domande d'iscrizione ha margini molto più ristretti”. Per cui, dovendo fare i conti con tale situazione, il Coa di Bologna ha deciso allora di attrezzarsi, scandendo le regole necessarie per una pacifica convivenza tra le due tipologie di avvocati, evitando qualsiasi commistione. A tal fine, ricorda che l'avvocato stabilito, è tenuto a spendere il proprio titolo, di abogado o di avocat a seconda dei casi, e giammai quello italiano di avvocato, “nemmeno in forma abbreviata (per esempio, "avv.") – e né - negli atti, nelle lettere, nella carta intestata e nell'indirizzo e-mail o pec”. La qualifica inoltre va indicata per intero non potendo essere limitata alla "sola indicazione, dopo il titolo di avvocato, della lettera ‘S' ovvero dell'abbreviazione ‘stab.', trattandosi di segni che la gran parte del pubblico non ha strumenti conoscitivi per interpretare". Ma non solo. Per l'esercizio delle prestazioni giudiziali, il collega stabilito deve agire d'intesa con un tutor, ossia con un “professionista abilitato a esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l'autorità adita o procedente e nei confronti della medesima è responsabile dell'osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori”, e l'affiancamento non può essere previsto in via generale “ma in relazione alla singola controversia trattata".
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