Data: 08/10/2015 16:50:00 - Autore: Avv. Paolo Accoti

Avv. Paolo Accoti - Com'è noto, il fatto colposo del danneggiato che ha concorso a produrre il danno può portare alla diminuzione del risarcimento ovvero alla sua completa elisione, secondo la regola portata dall'art. 1227 c.c., per cui: “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.

In altri termini, il danneggiato ha un onere di diligenza, la cui violazione può ridurre o escludere totalmente la responsabilità del danneggiante.

E' cosi, anche il difetto di vista rientra a pieno titolo nell'ordinario dovere di diligenza del pedone.

Ad affermarlo è la III sezione civile della Suprema Corte, nella sentenza n. 18463, del 21 settembre 2015, la quale, tuttavia, si sofferma anche sulla differenza esistente tra le azioni ex art. 2043 e 2051 c.c., in particolare, quando nel corso del giudizio, si invoca l'altra tutela risarcitoria, se questa può essere considerata tempestiva.

La vicende prende spunto dalla caduta di un pedone causata dalla presenza di una buca di cospicue dimensioni, coperta dalla pioggia, presente sul manto stradale.

Convenuto in giudizio l'Ente proprietario della strada per sentirlo condannare al risarcimento di tutti i danni fisici cagionati, in primo grado la domanda veniva rigettata.

In sede di gravame, la Corte d'Appello territoriale condannava l'Ente convenuto al pagamento del 50% dei danni accertati, sulla scorta dell'assodata presenza di una buca di notevoli dimensioni che l'Ente aveva colpevolmente omesso di rimuovere, responsabilità che, tuttavia, era contemperata dalla concorrente responsabilità della danneggiata “la quale, benché ipovedente, consapevolmente aveva attraversato la Via (omissis) pur non essendo in grado di avvistare tutti gli eventuali ostacoli presenti sul suo tragitto, sicché la responsabilità della caduta doveva essere ripartita nella percentuale del 50 per cento tra la V. ed il Comune”.

Per la cassazione della sentenza il pedone si affidava a tre motivi, lamentandosi della illegittima dichiarazione di tardività della (successiva) domanda risarcitoria per danno cagionato da cose in custodia, atteso che nonostante con la domanda originariamente proposta si fosse invocata la responsabilità da fatto illecito, la sopravvenuta domanda ex art. 2051 c.c., era da considerarsi “un minus” rispetto a quella originaria ex art. 2043 c.c.; evidenziava inoltre l'insufficiente e contradditoria motivazione della sentenza gravata, laddove aveva disposto la concorrente responsabilità della danneggiata nella determinazione dell'incidente; infine, per l'insufficiente e contradditoria motivazione della sentenza nella parte in cui ha disposto la parziale compensazione delle spese.

La Suprema Corte, con la menzionata sentenza, rigetta tutti i motivi di ricorso affermando i principi di diritto di seguito riportati.

In relazione alla dedotta tardività della successiva domanda ex art. 2051 c.c., riferisce come nel caso di specie, non sia necessario analizzare se, effettivamente, la Corte d'appello abbia errato nel dichiarare tardiva tale successiva domanda risarcitoria ai sensi dell'art. 2051 c.c., considerato che “la sentenza in esame, infatti, ha accertato, con valutazione di merito adeguatamente motivata e priva di vizi logici, che sussisteva una colpa dell'amministrazione e che, nel contempo, c'era anche una colpa concorrente della danneggiata. L'accertamento positivo delle colpe e delle conseguenti rispettive responsabilità toglie rilevanza al problema posto dal motivo in esame; secondo costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, il caso fortuito, rilevante ai fini dell'esclusione di responsabilità prevista dall'art. 2051 cod. civ. può derivare anche dal fatto colposo del danneggiato, ai sensi dell'art. 1227 c.c.”.

Tuttavia, sul punto la III sezione civile rimarca il costante orientamento della medesima corte, peraltro, ribadito anche di recente (tra le altre, sentenze 20 gennaio 2014, n. 999, e 26 maggio 2014, n. 11660), per cui “l'azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente, per così dire, diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere. Ciò in quanto "l'applicabilità dell'una o dell'altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d'indagine”.

In tema di responsabilità da fatto illecito, infatti, è necessario accertare se la parte ritenuta responsabile abbia posto in essere un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi.

Nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, il comportamento del custode rimane estraneo alla fattispecie delineata dall'art. 2051 c.c., per il quale pertanto non sarà necessario alcun tema d'indagine, considerato che il fondamento di siffatta “responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito".

Più nello specifico: “mentre l'azione ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. comporta la necessità, per il danneggiato, di provare l'esistenza del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel caso di azione fondata sull'art. 2051 cod. civ. la responsabilità del custode è prevista dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito”.

Così ricondotti i termini della questione, se ne deduce che: “una volta proposta in primo grado una domanda ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. - fondata, ad esempio, sulle figure dell'insidia e del trabocchetto, ancorchè impropriamente richiamate - non è consentito alla parte in grado di appello fondare la medesima domanda sulla violazione dell'obbligo di custodia, perché ciò verrebbe inevitabilmente a stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate”, con la conseguente violazione del diritto di difesa.

Viceversa, ricorda la Suprema Corte, “la giurisprudenza più recente ha esplicitato che la domanda fondata sull'art. 2051 cod. civ. può non essere considerata nuova rispetto a quella fondata sull'art. 2043 cod. civ. - e, quindi, improponibile in appello - solo se l'attore abbia "sin dall'atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli (sentenze 21 giugno 2013, n. 15666, e 5 agosto 2013, n. 18609)”.

Si deve evidenziare che, in ogni caso, “deve ritenersi insufficiente un generico richiamo alla norma di legge che disciplina suddetta responsabilità speciale, ove tale richiamo non sia inserito in una argomentazione difensiva chiara e compiuta” (Cass. civ. Sez. III, 21/06/2013, n. 15666).

A ciò va senz'altro aggiunto che: “Nondimeno, le diverse regole di imputazione della responsabilità previste da detti articoli, essendo più favorevoli per l'attore danneggiato poiché comportanti un'inversione dell'onere della prova, in tanto possono essere poste a fondamento della responsabilità del convenuto in quanto non si ascriva al medesimo la mancata prova di fatti che egli non sarebbe stato tenuto a provare in base al criterio di imputazione della responsabilità (art. 2043 cod. civ.) originariamente invocato dall'attore” (Cass. civ. Sez. III, 05/08/2013, n. 18609)

Passando all'esame del secondo motivo di ricorso, la Suprema Corte conferma l'orientamento del giudice di secondo grado, ed infatti, la sentenza, ha rivelato come la danneggiata, nonostante fosse ipovedente, in maniera del tutto consapevole abbia attraversato la via, pur non essendo in grado di avvistare tutti gli eventuali ostacoli presenti sul suo tragitto.

Secondo la Suprema Corte, pertanto, la ridotta capacità visiva della danneggiata avrebbe avuto una valenza causale nella determinazione del fatto, a nulla valendo la dedotta grande dimensione della buca, né la circostanza per la quale la stessa non fosse avvistabile neppure da persona con una normale acuità visiva, risultando “argomentazione assai debole” che, peraltro, involgerebbe un giudizio sul merito non consentito in sede di legittimità (In tal senso: Cass. civ., Sez. III, 21/09/2015, n. 18463).

Pertanto, il ridotto visus, al pari - a questo punto - di altre menomazioni psichiche o fisiche che influiscono sulle capacità personali dell'individuo, possono determinare una riduzione del risarcimento dovuto, qualora in presenza delle anzidette ridotte capacità psico-fisiche il soggetto si ponga consapevolmente in una situazione di possibile pericolo.


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