Data: 10/10/2015 10:30:00 - Autore: Avv. Emanuela Foligno

Avv. Emanuela Foligno - Il Supremo Collegio è intervenuto con la recente pronunzia in commento (n. 13693 del 3.7.2015) per chiarire la ripartizione dell'onere della prova nei casi di mobbing, in base ai dettami degli artt. 1218 c.c. e 369 c.p.c. 

Il caso oggetto di esame riguarda il danno subito da un lavoratore a causa di una pluralità di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro. Le doglianze del lavoratore danneggiato sono state respinte in tutti i gradi di giudizio per difetto di prova.

I Giudici d'Appello di Roma hanno confermato la sentenza di prime cure con la quale era stata dichiarata legittima la sanzione della multa irrogata al lavoratore in relazione a una serie di ritardi avvenuti nel corso di oltre quattro mesi, ed hanno respinto la domanda risarcitoria del lavoratore a titolo di mobbing per difetto di prova in ordine alle sussistenza della condotta vessatoria del datore.

Come noto, i comportamenti molesti e vessatori del datore di lavoro sono presupposto cardine per la configurabilità del mobbing e dei conseguenti aspetti risarcitori.

Il lavoratore invoca il giudizio della Cassazione dolendosi della circostanza che grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psicofisica del lavoratore, sul quale, invece, incombe l'onere di dimostrare l'evento e il nesso di causalità con la prestazione lavorativa.

Gli Ermellini confermano le statuizioni della Corte territoriale precisando che le stesse sono conformi all'orientamento giurisprudenziale in materia e rimarcano, con un incisivo obiter dictum, i presupposti necessari ai fini della configurabilità del mobbing, indicando che devono sussistere: “una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.

Ed ancora, la Corte, a maggior chiarezza, precisa che in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 c.c., il lavoratore danneggiato non deve dimostrare la colpa del datore ai sensi dell'art. 1218 c.c., ma deve allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate.

Deve cioè provare che il datore, ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto, o a norme inderogabili di legge, o alle regole generali di correttezza e buona fede o anche alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Il Supremo Collegio ha anche ribadito, sempre sotto l'aspetto dell'onere della prova, il principio di diritto gravante sul ricorrente ex art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c.

Ed infatti nel caso esaminato, il lavoratore ricorrente non ha depositato i contratti collettivi di riferimento sui quali ha fondato la propria pretesa. Essendosi lo stesso lamentato dell'omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, doveva produrre tali documenti ed indicarne in atti il contenuto ai sensi del duplice onere imposto dall'art. 366 c.p.c., comma I, n. 6.

In conclusione, i Giudici di legittimità sottolineano che l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva poiché la responsabilità del datore di lavoro deve essere collegata alla violazione di obblighi di comportamento imposti ex lege o suggeriti dalle tecniche disponibili nel contesto storico.

La conseguenza è che "incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di allegare e provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro e solo se il lavoratore abbia fornito la dimostrazione di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”.

Condivisibile e impeccabile nella ratio la conclusione cui è giunta la Corte, peraltro, in linea con orientamenti pregressi anche risalenti (cfr. Cass. n. 19053/2005 e Cass. n. 9817/2008).


Sui presupposti del mobbing, leggi anche: "Fumo passivo: va risarcito il danno da mobbing"


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