|
Data: 11/10/2015 18:30:00 - Autore: Marina Crisafi di Marina Crisafi - Per la condotta contraria al decoro professionale in violazione del codice deontologico forense, gli ordini professionali hanno pieno potere di aprire un procedimento disciplinare, per accertare appunto se l'eventuale violazione c'è stata o meno. E la Cassazione va interessata soltanto se il potere disciplinare è utilizzato per scopi diversi da quelli riconosciuti loro per legge. Così ha stabilito la terza sezione civile della Suprema Corte, con la recente sentenza n. 19246/2015 (qui sotto allegata), rigettando il ricorso di un avvocato che chiedeva ragione dei danni subiti a causa di due procedimenti disciplinari promossi nei suoi confronti dall'ordine forense di Gorizia, grazie al voto di alcuni avvocati, poi rivelatasi infondati. La Corte d'Appello di Trieste rigettava le sue istanze, ritenendo che la fattispecie dovesse essere inquadrata nell'ambito dell'articolo 2043 c.c. e che mancasse in radice il fatto illecito generatore di responsabilità, non potendo essere tale l'aver concorso all'apertura di un procedimento disciplinare in quanto lo stesso non è altro che il mezzo attraverso il quale il Coa accerta se il soggetto incolpato abbia posto o meno comportamenti contrari alla dignità e al decoro professionale e, di conseguenza, “essendo l'esercizio dell'azione disciplinare da parte dei componenti del consiglio dell'ordine attività non solo lecita e legittima, ma anzi doverosa, mancava l'antigiuridicità della condotta”. Avverso la decisione d'appello, il professionista adiva la Suprema Corte, sostenendo che per “aversi risarcibilità del danno prodotto da provvedimenti della pubblica amministrazione, poi dichiarati illegittimi ed annullati, non occorre dimostrare l'elemento soggettivo della colpa, in quanto l'aggettivo ‘ingiusto' riferito al danno fa sì che per aversi ingiustizia, non è richiesto che il provvedimento sia violatore di norme, ma soltanto che sia stato emanato in assenza di una causa di giustificazione”.
Ma gli Ermellini dissentono e spiegano che “il codice deontologico forense non ha carattere normativo ma è costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono date per attuare i valori caratterizzanti la professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa, con la conseguenza che la violazione di detto codice rileva in sede giurisdizionale, solo in quanto si colleghi all'incompetenza, l'eccesso di potere o la violazione di legge, cioè ad una delle ragioni per le quali il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 3, convertito con modificazioni nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle sezioni unite della Cassazione, che è possibile esclusivamente in caso di uso del potere disciplinare dagli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce”. E, nel caso di specie, il comportamento degli ordini professionali è stato correttamente inquadrato come il mezzo per esercitare il controllo loro demandato affinchè le condotte del professionista non fossero contrarie alla dignità e al decoro professionale. Per cui ha ragione il giudice di merito e il ricorso va rigettato in toto. |
|