|
Data: 29/10/2015 12:00:00 - Autore: Miserendino Umberto di Uberto Miserendino - In una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione delle regole di correttezza e buona fede e degli inderogabili doveri di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), nonché in relazione all'esigenza di realizzare quanto più possibile il cd. ‘giusto processo', di cui al novellato art. 111 Cost., la Suprema Corte ha recentemente statuito la necessità che l'utilizzo dello strumento processuale venga attuato con prudenza e senza che lo stesso possa di per sé rappresentare un pregiudizio per il soggetto tenuto all'adempimento. In particolare, sussiste, secondo la Corte regolatrice, l'esigenza di impedire che il titolare di un'unica posta risarcitoria possa disarticolarla tramite la proposizione di plurime azioni giudiziali, tali da implicare un aggravio alla sfera del debitore. Tali condotte risulterebbero prive di alcuna apprezzabile motivazione e incongrue rispetto alla rilevata modalità di gestione unitaria delle comuni pretese, atteso che le stesse si porrebbero in contrasto con l'inderogabile dovere di solidarietà sociale: tale dovere comporterebbe l'obbligo di non esercitare il proprio diritto con modalità tali da arrecare danni ingiusti a terzi, traducendosi, quindi, nel divieto di frazionamento giudiziale del diritto stesso, in quanto foriero di un aumento degli oneri processuali in capo al debitore, oltre che di un aggravamento dei costi della giustizia, in termini di ingiustificata proliferazione dei processi. Si giunge così all'elaborazione della figura dell'abuso del processo, quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa. Secondo Cass. Civ., Sez. Un., n. 23726/2007, la proliferazione non necessaria dei procedimenti andrebbe ad incidere negativamente sull'organizzazione giudiziaria a causa dell'inflazione delle attività che la medesima comporterebbe, con la conseguenza di un generale allungamento dei tempi processuali a discapito degli interessi generali della collettività. I principi dettati da tale pronuncia (la quale, peraltro, non ha indicato le conseguenze pratico – applicative derivanti dalla condotta di chi agisca a tutela del proprio credito, frazionandolo in plurime azioni giudiziali), pur condivisibili in astratto, non possono però essere applicati sic et simpliciter alla materia risarcitoria e, soprattutto, a quella afferente la responsabilità civile auto, specificamente regolamentata sia dalla normativa generale (artt. 2043 e 2054 c.c.), che da quella specifica (D.Lgs. 209/2005 e relativo regolamento di attuazione, D.p.r. 254/2006). Benvero, tutte le sentenze avvicendatesi a partire dalla pronuncia a Sezioni unite sopra richiamata si rivelano tese alla precipua tutela del principio di buona fede ed economia processuale (sia di sistema che con riferimento agli oneri di difesa processuale della parte resistente). Trattasi di pronunce relative o a fattispecie di illecito aquiliano dove il danneggiato aveva proposto dinnanzi a Giudici diversi distinte richieste risarcitorie relative alle singole voci di danno sofferte, con l'ausilio di un unico patrocinatore (cfr. Cass. Civ., 28286/2011, relativa ad una fattispecie dove veniva azionato il danno materiale davanti al Giudice di pace ed il danno biologico davanti al Tribunale), ove il giudizio introdotto per secondo terminava con una pronuncia di improcedibilità della domanda, oppure inerenti casi dove il creditore proponeva più azioni esecutive aventi ad oggetto il medesimo credito, una delle quali per il recupero di somme irrisorie (cfr. Cass. Civ., 03.03.2015 afferente un'ipotesi dove l'azione esecutiva introdotta per seconda aveva ad oggetto l'importo di soli € 20,00 circa), ove veniva dichiarata improponibile l'azione introdotta successivamente; anche in tal caso si era inteso sanzionare il comportamento in violazione del principio della buona fede e la sostanziale carenza di interesse ad agire per il recupero di importi minimali. Mentre per quanto riguarda quest'ultimo caso si potrebbe condividere l'esigenza del sistema di censurare azioni che, pur fondate, difettino però del presupposto sostanziale prescritto dall'art. 100 c.p.c., allorquando l'entità del valore economico azionato risulti oggettivamente minima e tale da giustificare un giudizio di irrilevanza giuridica dell'interesse stesso, con riferimento alla prima ipotesi la censura che porta alla pronuncia di improcedibilità si fonda su un discutibile assioma di principio secondo cui si potrebbe cogliere nella condotta del creditore una sorta di rinuncia tacita alle voci di danno non azionate col primo giudizio. Tutto ciò in ragione del principio, pur criticabile, che la giurisdizione statuale, stante la limitatezza delle risorse disponibili, può essere compressa o utilizzata per realizzare i diritti di maggior interesse e portata generale. Seppur tale impostazione possa apparire altamente preclusiva e limitativa dei diritti facenti capo a ciascuno di noi, la stessa sicuramente trae origine da una necessità oggi sempre più avvertita di realizzare un sistema processuale efficiente, tale, cioè, da garantire una maggiore ed idonea tutela ai soggetti portatori di interessi giuridicamente apprezzabili. Tuttavia, l'orientamento giurisprudenziale sopra espresso non può essere utilizzato in maniera distorta per giustificare e limitare in linea generale la portata e l'entità del risarcimento da parte dei soggetti a ciò tenuti, in quanto ben si comprenderà come, se, da un lato, pare sicuramente tutelabile l'interesse del debitore a non protrarre sine die la propria esposizione nei confronti del soggetto danneggiato, dall'altro lato, sussiste il diritto del creditore ad una tutela esaustiva ed effettiva della propria posizione. Senza contare che l'ordinamento prevede, quali uniche fattispecie estintive del diritto risarcitorio, la prescrizione e la decadenza, oltre ovviamente all'adempimento; le pronunce sopra richiamate, laddove sanciscono l'improcedibilità della domanda proposta per seconda, lasciano completamente e definitivamente sfornita di tutela sostanziale una posta di danno legittima, così venendo ad introdurre surrettiziamente un'ulteriore ipotesi estintiva del diritto, non espressamente contemplata dal nostro ordinamento. Anche la rinuncia deve essere espressa o, comunque, confortata da un elemento preciso ed univoco; pertanto, nell'eventualità in cui ci si trovi di fronte ad una richiesta parziale avente ad oggetto solo una delle voci di danno scaturenti da un illecito, da ciò non pare lecito desumere la rinuncia a far valere le altre poste risarcitorie. Maggiormente condivisibile, al fine di garantire la tutela sostanziale del diritto, risulta, invece, quell'orientamento della Suprema Corte che, in caso di proposizione di plurime domande risarcitorie in sede giudiziale, statuisce che le uniche conseguenze sanzionatorie possano attenere al solo piano delle spese processuali, dovendo essere sempre fatto salvo il principio della tutela sostanziale del diritto (in tal senso, Cass. Civ., 10634/2010, secondo la quale "al riscontrato abuso non può tuttavia conseguire la sanzione della inammissibilità della domanda, posto che non è l'accesso in sé allo strumento processuale che è illegittimo, bensì le modalità con cui è avvenuto..."); conseguentemente, la causa giudiziale proposta successivamente non sarebbe da considerarsi inammissibile, ma valutabile nel merito, con facoltà del Giudice, nell'ambito dei poteri riconosciutigli dalla legge - art. 91 c.p.c. - di eliminare per quanto possibile gli effetti distorsivi dell'abuso sul piano delle spese, "valutando le spese come se unico fosse stato il procedimento sin dall'origine"). Non vale ad inficiare il portato di tale orientamento la nota pronuncia a Sezioni Unite n. 26972/2008, in quanto vertente su materia differente: tale pronuncia è, infatti, specificatamente rivolta ad evitare la moltiplicazione indiscriminata delle voci di danno non patrimoniale scaturenti da un illecito e si limita a sancire che il danno biologico ricomprende al suo interno il danno morale, mentre riconosce comunque la facoltà per il danneggiato di allegare e provare la sussistenza di ulteriori e differenti voci di pregiudizio. I principi di divisibilità e di libera cedibilità del credito risarcitorio aquilianoIn ragione delle osservazioni appena esposte, non paiono condivisibili le contestazioni svolte in sede giudiziaria circa la presunta infrazionabilità del credito risarcitorio aquiliano, laddove siano state avanzate richieste stragiudiziali distinte per le singole voci di danno, poi azionate separatamente, in tutto o in parte. Non condivisibili risultano quelle pronunce della giurisprudenza di merito che sono addirittura addivenute a sancire l'improcedibilità dell'azione giudiziaria in riferimento ad ipotesi dove, successivamente all'articolazione in via stragiudiziale di due distinte richieste di ristoro afferenti differenti voci di danno, solo una di esse era stata seguita dal proponimento di una domanda apud iudicem, mentre l'altra aveva trovato soddisfacimento in via conciliativa ed extragiudiziale (sul punto, ex plurimis, cfr. GdP Milano, sentenza 112488/2013). Al fine della relativa confutazione, deve innanzitutto osservarsi che il credito risarcitorio aquiliano ex artt. 2043 e 2054 c.c. è, per sua natura, un credito patrimoniale, come tale pacificamente divisibile ex artt. 1314 e sgg. c.c., nonché liberamente trasferibile a terzi ex artt. 1260 e sgg. c.c. Del tutto legittimamente, quindi, possono sussistere ipotesi, dove, da un lato, vi sia la richiesta risarcitoria avanzata direttamente dal riparatore cessionario per quanto concerne il danno veicolare e, dall'altro lato, sussista altresì la richiesta risarcitoria articolata direttamente dal danneggiato per le lesioni o per altra voce di danno. Trattasi, peraltro, di richieste che, di per sé, non aggravano la posizione del soggetto tenuto al risarcimento, in quanto il D.Lgs. 209/2005 prevede una tempistica precisa per la valutazione della domanda risarcitoria e la conseguente valutazione dell'offerta che, ove rispettate, non comportano il pagamento di alcun onere di assistenza tecnica in capo allo stesso. Si tratta, quindi, di conciliare i principi di buona fede e del giusto processo espressi dalla Suprema Corte nelle pronunce sopra richiamate con i caratteri di divisibilità e cedibilità del credito risarcitorio, sanciti da principi generali del nostro ordinamento civile, ad oggi mai derogati. Il contenuto della richiesta risarcitoria ed il relativo inquadramento normativoAlla luce di quanto appena evidenziato, non può innanzitutto condividersi la tesi di chi sostiene che la richiesta risarcitoria avanzata stragiudizialmente debba essere unica ed esaustiva di tutti i danni. In primo luogo, deve rilevarsi come nessuna delle disposizioni che disciplinano contenuto, termini e modalità della richiesta risarcitoria prescriva che la stessa debba essere omnicomprensiva, ovverosia esaurire tutte le voci di danno derivanti dal sinistro. Lo stesso articolo 148, D.Lgs. 209/2005, nel disciplinare la procedura di risarcimento stragiudiziale fa riferimento ai soli danni a cose (comma I) e al danno biologico (comma II), senza prevedere alcunché in relazione alle altre plurime voci di danno che pur possono scaturire da un sinistro (danno ….). Interpretare letteralmente la disposizione in parola porterebbe all'illogico corollario di lasciare sfornite di tutela poste risarcitorie pur legittime oppure ad una interpretazione, anch'essa illogica, secondo la quale per le voci diverse dal danno alle cose ed al danno biologico non sarebbe neppure necessario che la richiesta sia fornita dei requisiti previsti dal suddetto articolo. Pare, pertanto, ragionevole ritenere che anche le voci non contemplate dall'art. 148 possano essere richieste non contestualmente al danno a cose e/o al danno biologico di lieve entità, senza per questo essere pretermesse; ciò a condizione, ovviamente, che anche per tali voci di danno le relative richieste di ristoro siano accompagnate dall'indicazione degli elementi informativi a valutare nello specifico la legittimità della domanda. Si pensi, inoltre, all'ipotesi relativa alla cessione parziale del credito, non solo non vietata da alcuna norma, ma espressamente riconosciuta dall'art. 1262, II comma, c.c. per qualunque credito avente natura patrimoniale, negoziale o aquiliano che sia (cfr. con specificamente al credito risarcitorio derivante da incidente stradale, Cass. Civ., 22601/2013; Cass. Civ., nn. 51 e 52 del 2012; Cass. Civ., ordinanza n. 11049/2009). Risulta dunque legittimo l'eventuale succedersi di più richieste risarcitorie aventi ad oggetto diverse voci di danno derivanti dal medesimo incidente. Peraltro, come già anticipato, la ricezione di plurime richieste risarcitorie non determina aggravio alcuno per il debitore, laddove lo stesso adempia nei termini prescritti dal D.gs. 209/2005; in tal caso, infatti, questi non è tenuto a rimborsare alcuna spesa di assistenza legale, né risulta avere altro onere. Senza contare che il nostro ordinamento prevede quale precipuo e specifico strumento di tutela del debitore il diritto al rilascio della quietanza (art. 1199 c.c.). Il debitore che paga, quindi, è posto nella condizione di conoscere se il proprio adempimento sia esaustivo o soltanto parziale e, come tale, non pare ragionevole ritenere che lo stesso possa sottrarsi alla pretesa , amentando la violazione del principio della buona fede e del giusto processo. Infondatezza della tesi dell'unicità ed onnicomprensività della domanda risarcitoria stragiudizialePer i motivi appena esposti non può, quindi, condividersi tout court la tesi di chi sostiene che la richiesta risarcitoria stragiudiziale debba essere onnicomprensiva: sussistono, invero, plurime situazioni in cui l'applicazione del principio dell'unicità di tale richiesta, peraltro, non espressamente previsto da nessuna norma, determinerebbe la pretermissione di principi fondamentali del nostro ordinamento civile, quali quello della divisibilità e della libera trasferibilità del credito risarcitorio; principi che, ad oggi, non risultano essere stati derogati da nessuna disposizione specifica di legge. Lo stesso art. 6, D.p.r. 254/2006, nel dare attuazione all'art. 148 D.Lgs. 209/2005, mai individua nell'esaustività della richiesta, uno dei requisiti sine qua non della stessa; tale articolo, oltre a riguardare unicamente l'ipotesi di danno al veicolo ed alle cose, non prescrive alcuna conseguenza sanzionatoria per il caso di omissione di una o più voci di danno. E' dunque impossibile inferire sia dall'art. 148 che dall'art. 6 qualsivoglia principio di unicità della richiesta di ristoro, atteso che proprio tali due disposizioni, nel disciplinare e specificare la procedura di ristoro in via stragiudiziale, contemplano solo alcuni dei possibili danni derivanti da sinistro stradale. L'eventuale improcedibilità della domanda può dunque ed esclusivamente conseguire ad una richiesta risarcitoria che, relativamente ai soli danni al veicolo, alle cose o al danno biologico di lieve entità, sia sfornita dell'indicazione dei requisiti di contenuto previsti dai suddetti articoli, nulla più. Il mero e generico riferimento ai criteri del giusto processo e della buona fede non può quindi ritenersi sufficiente a fondare, da solo, la tesi dell'unicità della domanda risarcitoria in via stragiudiziale e, conseguentemente, giudiziale; ciò anche alla luce del fatto che la normativa in materia di risarcimento diretto specificamente prevede in capo alla Compagnia un obbligo di assistenza tecnica ed informativa per consentire una miglior prestazione del servizio teso al risarcimento (art. 9 D.p.r. 254/2006) che può ritenersi estensibile anche alla Compagnia del responsabile civile, in virtù proprio del principio di buona fede e conseguente cooperazione tra debitore e creditore avente valenza generale. Incombe, semmai, sull'Istituto assicuratore che eccepisca la violazione del principio di correttezza ed onestà da parte del danneggiato provare di aver fatto tutto quanto possibile per evitare il radicamento di una situazione patologica, ovverosia il proponimento di un contenzioso nei propri confronti, ovverosia dimostrare, proprio in virtù dell'art. 9, del sopracitato regolamento, dimostrare di aver fornito quell'assistenza informativa e tecnica al danneggiato tale da scongiurare il radicarsi di un giudizio, con il relativo aggravio di costi per sé e per il sistema processuale statale. Il diritto del danneggiato ad un giusto e congruo risarcimento. Il necessario contemperamento di interessiLa censurabilità dell'impostazione ermeneutica testé indicata risulta ancora più evidente se solo si pensi all'ipotesi, tutt'altro che infrequente nell'ambito della responsabilità civile, della cessione parziale del credito risarcitorio: ben può accadere che il danneggiato possa cedere parte del proprio credito al riparatore, rimanendo titolare di una parte di esso. Ciò non comporta alcun pregiudizio in capo alla Compagnia tenuta al ristoro del danno: a fronte delle plurime richieste risarcitorie derivanti dal medesimo incidente, infatti, la stessa pagherà una parte del danno all'originario creditore, altra parte al cessionario, potendo chiedere ed ottenere da entrambi una quietanza liberatoria da eventualmente poter opporre a terzi, al fine di garantirsi da ulteriori pretese. Rifiutare, pertanto, il pagamento al cessionario facendo forzato riferimento ai criteri del giusto processo e della buona fede porta a lasciare sfornita di tutela sostanziale una legittima parte del credito, con violazione del diritto ad un giusto ed equo risarcimento, sancito oltre che dall'art. 2043 c.c., anche dall'art. 2 della nostra Carta Costituzionale, essendo questo una condizione per il pieno sviluppo della personalità dell'individuo nell'ambito delle singole formazioni sociali dove lo stesso esplica le proprie attività. Tale interpretazione rappresenta null'altro che un'evidente violazione dei principi cardine su cui è imperniata la disciplina della responsabilità civile, che prescrivono la congrua e celere liquidazione del danno nell'interesse del danneggiato e dello stesso danneggiante. In tal senso, si richiamano due recenti sentenze emesse dal Tribunale di Milano (sentenza n. 19786/2013), dal Tribunale di Trento (sentenza n. 251/2013) e dal Tribunale della Spezia, sez. dist. di Sarzana (ordinanza in data 02.12.2012), secondo le quali non pare lecito parlarsi di violazione di principi costituzionali, allorquando intervenga un'ipotesi di cessione del credito: ciò in ragione del fatto che non si è in presenza di due distinte richieste provenienti dal medesimo soggetto, bensì del subentro di un soggetto ad un altro nella titolarità di una parte del credito. Non si rinviene invece alcun riferimento in ordine alla pretesa unicità della domanda stragiudiziale di ristoro, anzi, proprio il riconoscimento della facoltà del cessionario di chiedere ed ottenere il ristoro della posta di danno trasferitagli (dopo che è stata già risarcita la posta di danno rimasta in capo al cedente) conferma come ben possano legittimamente coesistere plurime richieste risarcitorie. Non coglie nel segno, infine, neppure il tentativo di precludere la possibilità di azionare differenti azioni giudiziali facendo riferimento alla cd. ‘minima unità strutturale' della richiesta stragiudiziale, scaturente da una pretesa unicità ed indivisibilità del credito, la quale si rifletterebbe sull'oggetto del giudizio e del giudicato, nel senso che l'attore, nell'azionare parzialmente il proprio credito, andrebbe di fatto, in ordine al principio del dedotto e del deducibile, a interessare con la domanda giudiziale tutto il suo diritto: questo in ragione del fatto che il nostro ordinamento civile, al contrario, prevede espressamente proprio la divisibilità del rapporto obbligazionario (artt. 1314 e sgg. c.c.) in uno alla libera circolazione dello stesso (artt. 1260 e sgg. c.c.). Tale teoria si risolve in una mera petizione di principio, in quanto la regola del dedotto e del deducibile è riferibile al petitum ed alla causa petendi dell'azione, la quale, però, ben può interessare solo una parte del credito e non necessariamente il credito nella sua integralità, attesa la sua divisibilità pro quota e/o pro parte. In proposito, occorre evidenziare che il nostro ordinamento, laddove abbia voluto limitare la cedibilità di un dato tipo di credito, lo ha espressamente previsto, come nel caso dei crediti personali o, in materia previdenziale, statuendo l'improcedibilità delle domande successive alla prima e solo ove non ne sia stata previamente disposta la riunione dal Giudice ex artt. 273 c.p.c. e 151 disp att. c.p.c. (cfr. Legge 133/2008, che è intervenuta sulla frazionabilità del credito previdenziale, dove, tuttavia, gli interessi oggetto di tutela sono nettamente differenti rispetto all'ambito della mera responsabilità civile). In definitiva, non sembra sufficiente richiamarsi esclusivamente al principio della ragionevole durata e a quello dell'abuso del processo per sancire l'improcedibilità di una domanda risarcitoria azionata giudizialmente successivamente rispetto ad un'altra, in quanto differenti sono gli elementi di valutazione che dovranno concorrere semmai come sopra evidenziato a stabilirne l'inammissibilità. Se bastasse infatti la considerazione secondo cui l'instaurazione di due processi in luogo di uno determini l'appesantimento del lavoro dei Tribunali, ripercuotendosi sulla durata media dei processi, dovremmo arrivare allora, per coerenza, a ritenere che nel sistema sussista un obbligo di cumulo processuale ogni qual volta ciò sia possibile, pena l'improponibilità delle domande inizialmente non cumulate. Tutto ciò sarebbe in netto contrasto anche col disposto normativo di cui all'art. 31 c.p.c., ove è previsto come la domanda accessoria possa ma non debba essere proposta davanti al Giudice territorialmente competente per la domanda giudiziale. ConclusioniIn ordine alle motivazioni addotte, si ritiene che, seppur astrattamente condivisibili i precetti sanciti dalla Corte regolatrice, tesi a preservare la tutela di interessi fondamentali, nel rispetto della legittima aspettativa di ciascuno ad ottenere un processo celere senza essere esposto inutilmente a ingiustificate pretese in violazione del principio di buona fede, l'impedire tout court la possibilità di azionare giudizialmente differenti poste di danno derivanti dal medesimo fatto illecito comporti un evidente violazione di altrettanti fondamentali principi del nostro ordinamento, quali l'inviolabile diritto di difesa ex art. 24 Cost. ed il diritto alla piena reintegrazione del proprio patrimonio, quali presupposti per l'effettiva attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost. Uberto Miserendino - ubertomiserendino Riferimenti giurisprudenziali: Cass. Civ., Sez. Un., n. 23726/2007; Cass. Civ., n. 28286/2011; Cass. Civ., 03.03.2015; Cass. Civ., 10634/2010; GdP Milano, sentenza n. 112488/2013; Trib. Trento, n. 251/2013; Trib. Milano, n. 19786/2013; Tribunale della Spezia, sez. dist. di Sarzana, ordinanza in data 02.12.2012.
|
|