Data: 02/01/2016 11:30:00 - Autore: Giovanni Tringali

di Giovanni Tringali - Non esiste nel diritto penale italiano una norma che prevede il concorso esterno in associazione di tipo mafioso: il reato si ricava dal combinato disposto dell'art. 110 e 416-bis del codice penale. 

In base alla norma generale in tema di concorso, soggiace alla stessa pena prevista per il reato, ciascuno dei concorrenti. Da questo punto di vista concorrere o partecipare all'associazione di tipo mafioso è indifferente. Ma è ovvio che una cosa è essere mafiosi e un'altra è concorrere con un'associazione di tipo mafioso. Essendo intrinseca al riconoscimento del concorso esterno in associazione di tipo mafioso la possibilità di conferire trattamenti sanzionatori analoghi a comportamenti ontologicamente diversi e aventi un diverso grado di disvalore penale, si pone il problema del contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. La questione interessa il principio di legalità, il divieto di irretroattività della legge penale ma più in generale la certezza del diritto. Si illustreranno alcune decisioni della suprema Corte ma si avverte sin d'ora che si ritiene indispensabile che il lettore tenga ben presente innanzitutto le norme evitando di attribuire alle sentenze (e ancor peggio all'interpretazione delle sentenze) una qualche virtù magica capace di soddisfare l'esigenza di tutti i cittadini alla "certezza del diritto".

Stante la complessità dell'argomento, si chiede umilmente scusa per le eventuali inesattezze e omissioni del presente elaborato.

Le norme

Art. 110 c.p. - Pena per coloro che concorrono nel reato

«Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti».

Art. 416-bis. Associazione di tipo mafioso[1]

«Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.

Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.

L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.

Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma.

L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.

Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.

Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego.

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».

Gli elementi essenziali dell'associazione di tipo mafioso ex art 416-bis c.p.

Premesso che:

· l'esistenza dell'associazione mafiosa denominata "cosa nostra" costituisce una realtà incontrovertibile sul piano giudiziario a seguito della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione il 30 Gennaio 1992 nel definire il procedimento contro Abbate Giovanni ed altri, più noto come primo maxi-processo[2];

· l'espressione legislativa "di tipo mafioso", significa soltanto "modello mafioso", così da ricomprendere nella previsione dell'art. 416-bis anche le nuove organizzazioni, non riconducibili alla mafia tradizionale, che tentano di introdurre metodi di intimidazione, di omertà e di sudditanza psicologica. La tipicità del modello associativo risiede nella "modalità" con cui l'associazione si manifesta e non già negli scopi (genericamente delitti) che si intendono perseguire. Le condotte possono essere infatti le più varie e anche essere costituite da attività lecite: ciò che conta è il modus operandi dell'associazione;

· il metodo mafioso, espressamente descritto nel comma III dell'art. 416 bis c.p., si connota, dal lato attivo, nell'utilizzazione della forza intimidatrice nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, in una correlazione di causa ed effetto, nella condizione di assoggettamento e di omertà che da detta forza deriva per il singolo, sia all'esterno che all'interno dell'associazione;

· l'associazione mafiosa delineata dall'art. 416-bis prescinde sia da profili di ordine territoriale sia da aspetti di carattere organizzativo che richiamino gli ordinamenti mafiosi tradizionali: in altre parole è mafiosa anche l'organizzazione che non sia radicata in Sicilia e che non abbia una struttura verticistica come quella siciliana;

· l'associazione di tipo mafioso è una figura del tutto autonoma e distinta rispetto alla ordinaria associazione per delinquere: ciò che la distingue è certamente il peculiare metodo utilizzato dal sodalizio per conseguire le proprie finalità, le quali, pur potendo essere in taluni casi di per sè non penalmente rilevanti (es. acquisizione del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni ecc.), si convertono in illecite proprio per l'adozione di una peculiare metodologia;

· la forza di intimidazione[3] può sinteticamente ravvisarsi nella capacità propria di certe organizzazioni criminali di incutere timore determinando un diffuso stato di coazione psicologica tale da costringere chi la subisce a comportamenti non voluti per timore di azioni esemplari e terribili (riguardo all'accezione da dare al verbo "si avvalgono" usato dal legislatore, il più recente indirizzo giurisprudenziale ritiene necessario il compimento effettivo ed attuale di atti di intimidazione e non sufficiente che l'associazione sia solita, o comunque, intenda avvalersi di tale forza);

· l'assoggettamento è lo "status" di coartazione psicologica che induce i soggetti terzi rispetto all'associazione, a sottostare ai suoi voleri, divenendone ad un tempo vittime e complici, e che all'interno dell'organizzazione criminale si manifesta nell'impossibilità di recedere dal vincolo associativo inizialmente contratto;

· l'omertà è l'atteggiamento riscontrabile nell'ambiente sociale in cui l'organizzazione mafiosa esercita la propria influenza, di reticenza, tacita connivenza o addirittura di solidarietà nei confronti della stessa che si manifesta nel rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato ostacolandone l'intervento punitivo (c.d. omertà esterna), ma che si riscontra anche all'interno gruppo criminale, e si palesa nella cautela degli adepti nel chiedere spiegazioni su determinati eventi concernenti le dinamiche interne dell'organizzazione criminale, nel subire le direttive ed eseguire remissivamente i compiti assegnati dai capi (c.d. omertà interna);

· le finalità dell'associazione di tipo mafioso hanno carattere alternativo e non cumulativo. Ciò consente che, anche in presenza di una sola di esse, il reato possa ritenersi integrato e viceversa la eventuale compresenza di tutti gli scopi tipici non muta il carattere unitario del reato.

Veniamo agli aspetti essenziali:

- Bene giuridico tutelato: ordine pubblico

Il bene giuridico primario ad essere tutelato è l'ordine pubblico in senso materiale ossia la condizione di pacifica convivenza, di buon assetto e regolare andamento del vivere civile. Vengono tutelati altri interessi tra cui l'ordine pubblico "economico", infatti l'associazione di tipo mafioso tende naturalmente e sempre maggiormente a prendere il controllo dell'economia del luogo. Il controllo delle attività economiche è una finalità riconducibile all'elemento soggettivo del reato (dolo specifico) ma non fa parte degli elementi costitutivi dello stesso, di conseguenza, non è necessario che tale controllo sia concretamente assunto perché si configuri il reato;

- Elemento oggettivo: condotta di partecipazione

L'elemento materiale di questo reato è costituito dalla condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, intendendosi per partecipazione la stabile permanenza del vincolo associativo (c.d. pactum sceleris) tra gli autori del reato - almeno in numero di tre - allo scopo di realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell'associazione;

- Elemento soggettivo: dolo specifico

Per quanto concerne l'elemento soggettivo si tratta di dolo specifico, il dolo cioè caratterizzato dalla cosciente volontarietà di partecipare a detta associazione per delinquere con il fine di realizzare il particolare programma - concretizzantesi sia in condotte "illecite", sia in condotte di per sé "lecite", ma penalmente perseguibili perché realizzate con le modalità sud descritte;

- Tipo di reato: reato di pericolo, plurisoggettivo a concorso necessario, permanente

Parlando di tipo di reato, possiamo affermare che si tratta di un reato plurisoggettivo a concorso necessario, permanente, a forma libera. Possiamo considerarlo un reato di pericolo perché il fatto di costituire un'associazione di tipo mafioso, per ciò solo, mette in pericolo l'ordine pubblico, ma possiamo considerarlo anche un reato di evento per la sussistenza ed operatività del sodalizio attraverso la realizzazione del programma criminoso.

Perché possa compiutamente ritenersi accertata l'esistenza di un sodalizio criminoso di stampo mafioso, sarà, dunque, necessario avere la prova di un accordo criminoso tra almeno tre persone (da cui la natura di reato necessariamente plurisoggettivo del delitto in oggetto), a carattere generale e continuativo (da cui la natura di reato permanente), destinato a rimanere in vita anche dopo la consumazione, prevista solo come eventuale, di singoli fatti criminosi (c.d. autonomia del delitto de quo rispetto ai c.d. reati-fine), volto al perseguimento delle specifiche finalità previste, in via alternativa, dalla norma in esame e mediante il sistematico ricorso alla forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e omertà che ne derivano.

Concorso di persone e associazione di tipo mafioso, tratti distintivi

Ammettere il concorso eventuale di un "soggetto esterno" nel reato di associazione di tipo mafioso significa punire questo soggetto con la stessa pena prevista per chi fa parte dell'associazione stessa. Si equipara cioè l'extraneus con l'intranues. Si capisce come la dottrina e la giurisprudenza si siano più volte occupati della questione.[4]

Il concorso di persone nel reato è caratterizzato dalla presenza di una serie di elementi strutturali:

a. la pluralità di persone (almeno due - fattispecie plurisoggettiva eventuale);

b. la commissione, in forma plurisoggettiva, di un reato;

c. il contributo causale di ciascun concorrente;

d. l'elemento soggettivo tipico della commissione plurisoggettiva del reato.

L'associazione mafiosa è caratterizzata;

a. dalla pluralità di persone (almeno tre – fattispecie plurisoggettiva necessaria);

b. formazione e permanenza di un vincolo associativo continuativo (far parte[5]) allo scopo di commettere una serie indeterminati di delitti ovvero di realizzare taluna delle altre azioni descritte dalla norma (reato di natura permanente);

c. consapevolezza di ciascun associato di far parte dell'illecito sodalizio e di essere disponibile ad operare per l'attuazione del comune programma criminoso;

d. dal metodo mafioso (avvalersi della "forza di intimidazione" e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva);

e. struttura organizzativa (non è sufficiente un mero accordo);

f. la distinzione tra condotte principali (coloro che promuovono, dirigono o organizzano) e condotte secondarie (semplici partecipi che comunque offrono un contributo causale utile alla lesione di beni giuridici penalmente tutelati dalle norme);

g. dolo specifico, il quale richiede che il partecipe voglia coscientemente e volontariamente far parte del sodalizio, adottandone le particolari modalità operative, condividendone gli scopi ed essendo animato dal fine di realizzarli[6].

Dire che i soggetti devono concorrere nel medesimo reato, significa che tutte le diverse condotte di partecipazione devono essere finalisticamente orientate verso il medesimo evento il che implica, tra l'altro, la coincidenza volitiva – ad esempio, se il reato necessita di dolo specifico - è indispensabile che tutti i concorrenti:

a. seguano la finalità specifica richiesta dalla norma incriminatrice o, quanto meno

b. siano consapevoli di contribuire alla condotta di chi, per commettere il reato, agisce con tale finalità.

Pertanto, il concorrente eventuale nel reato associativo deve agire "quanto meno" con la volontaria consapevolezza che la sua azione contribuisce alla realizzazione degli scopi della societas sceleris, il che, in tutta evidenza, non sembra differire dagli elementi - soggettivo e oggettivo - caratterizzanti la partecipazione all'associazione di tipo mafioso e, quindi, dal concorso necessario.

Nel concorso di persone, l'elemento soggettivo del reato plurisoggettivo non differisce dal dolo del reato monosoggettivo, esso consta di due elementi:

1) coscienza del "fatto criminoso";

2) volontà di concorrere con altri alla realizzazione di un reato.

Affinché sussista la volontà di concorrere è sufficiente la coscienza del contributo fornito all'altrui condotta. Non è necessario un accordo preventivo dei correi essendo punibile anche la condotta di colui – anche sconosciuto agli altri agenti – che agevoli il disegno criminoso in via del tutto estemporanea, in vantaggio di un soggetto del tutto ignaro. In altri termini, basta la volontà unilaterale di concorrere.

Il concorso di persone nel reato è concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutti gli atti dei compartecipi, sicché gli atti dei singoli sono, al tempo stesso loro propri e comuni agli altri, purché sussistano due condizioni: una oggettiva, nel senso che tra gli atti deve sussistere una connessione causale rispetto all'evento, l'altra soggettiva, consistente nella consapevolezza di ciascuno del collegamento finalistico dei vari atti, ossia che il singolo volontariamente e coscientemente apporti il suo contributo, materiale o soltanto psicologico, alla realizzazione dell'evento da tutti voluto.

Si rammenta, inoltre, che il nostro legislatore ha accolto, in tema di concorso di persone nel reato, il principio dell'equivalenza causale in forza del quale ogni concorrente che contribuisce alla verificazione dell'evento lo cagiona nella sua totalità e, pertanto, il fatto va integralmente imputato a ciascun concorrente.

Si richiede che ciascun compartecipe apporti un contributo che faccia sua l'intera realizzazione criminosa, favorendo (cioè rendendo più probabile) l'evento del reato. Tale contributo può consistere in un qualunque apporto capace di favorire il verificarsi dell'evento.

Orbene, il "fatto criminoso" (evento) dell'associazione di tipo mafioso è caratterizzato dal "far parte" dell'associazione con lo scopo di commettere delitti utilizzando il metodo mafioso, per cui concorrere nel reato di cui all'art. 416-bis dovrebbe significare, nella sua dimensione minima:

1) coscienza del fatto criminoso altrui (il "far parte" dell'associazione);

2) volontà di concorrere alla realizzazione del reato intesa non come voler "far parte" (altrimenti diventerebbe impossibile distinguere l'intraneus dall'extraneus) ma come "coscienza del contributo" fornito ad altri nella condotta di "far parte" dell'associazione.

In questo senso, l'essenza della responsabilità del "concorrente esterno" può essere desunta da situazioni di contiguità all'organizzazione criminale, le quali, rafforzando l'apparato strumentale e agevolando la realizzazione del programma criminoso dell'illecito sodalizio, possono contribuire in misura rilevante a mettere in pericolo i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice (l'ordine pubblico generale, l'ordine economico, l'ordine democratico, il corretto funzionamento della pubblica amministrazione).

Dal punto di vista prettamente soggettivo, mentre la figura del partecipe tende a realizzare gli scopi dell'associazione mafiosa, quella del concorrente si limita a "contribuire a realizzare" gli scopi della stessa. Ciò che si vuole dire è che realizzare è ben diverso dal contribuire a realizzare gli scopi dell'associazione, come essere mafiosi è diverso dall'essere concorrenti alla mafia.

Rispetto ai fini dell'associazione si può dire che questi sono voluti dall'affiliato mentre sono solamente conosciuti dal concorrente esterno (egli sa che altri vuole).

Vediamo la seguente scheda:

Concorrente necessario

(Affiliato/partecipe)

(Soggetto interno)

Concorrente eventuale

(Soggetto "esterno")

Realizza gli scopi dell'associazione

Contribuisce a realizzare gli scopi dell'associazione

Elemento oggettivo

(c.d. condotta tipica)

consiste nel far parte dell'associazione. Far parte significa avere un rapporto stabile e continuativo. Occorre un grado di compenetrazione del soggetto con l'organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso, vi sia stabilmente incardinato, con determinati e continui, compiti, anche per settori di competenza. L'inserimento nell'organizzazione sussiste anche a prescindere da rituali di iniziazione o formalità che lo ufficializzano, ben potendo risultare "per facta concludentia".

Elemento oggettivo

(c.d. condotta atipica)

consiste nel dare un contributo morale o materiale idoneo al potenziamento o almeno al consolidamento o mantenimento dell'organizzazione. Il contributo può essere continuativo ma anche episodico, purché funzionale al mantenimento in vita dell'ente, non deve riguardare singoli appartenenti ma l'intera organizzazione, non deve riguardare singoli fatti criminali. La condotta atipica, per essere rilevante, deve contribuire alla realizzazione della condotta partecipativa posta in essere da altri, purché rimanga un contributo esterno.

Elemento soggettivo

(dolo specifico)

volontà di far parte dell'associazione e fine di voler contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa (affectio societatis). Il partecipe, volendo far parte dell'associazione, ne condivide gli scopi e le strategie complessive. Si tratta di condotte illecite, sia in condotte di per sé lecite, ma che diventano penalmente perseguibili in quanto realizzate con la consapevolezza di far parte del sodalizio criminoso e con la volontà di operare al fine di conservare ovvero rafforzarne la struttura.

Elemento soggettivo

(dolo specifico/generico)

consapevolezza e volontà di contribuire ad agevolare o rafforzare l'associazione. Il concorrente eventuale non vuole far parte dell'organizzazione. Non rileva il contributo dato perseguendo fini propri dell'agente, ma solo il contributo finalizzato ad aiutare l'organizzazione. Il concorrente eventuale pur consapevole di agevolare, con quel suo contributo l'associazione, può disinteressarsi della strategia complessiva di quest'ultima, degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire.

Esistenza o conservazione dell'associazione sembrano fare riferimento alla condotta partecipativa, mentre agevolazione e rafforzamento invece sembrano più adatti al concetto di contributo e quindi di concorso esterno. E' importante anche stabilire il momento in cui viene prestato il contributo: quest'ultimo, infatti, assume un peso maggiore quanto più è prestato in una situazione di reale pericolo per la sopravvivenza dell'ente. In passato si è tentato di delimitare lo scenario criminologico nel quale si ambienta il concorso esterno richiamando concetti come lo stato di "fibrillazione o di patologia" in cui versa l'associazione. Questi concetti, purtroppo, sono insiti di grande indeterminatezza e su di essi non si può certo stabilire un criterio identificativo per la condotta punibile.

Come si vede il dolo è specifico per l'associato (c.d. dolo di partecipazione) mentre può essere considerato specifico o generico per il concorrente (c.d. dolo di contribuzione). Sicuramente il dolo del concorrente è diverso dal dolo del partecipe: il concorrente eventuale non potrà avere quella parte del dolo che ha il partecipe e che consiste nella volontà di fare parte dell'associazione. In tema, si ricorda inoltre che è pacificamente ammesso in dottrina e in giurisprudenza la possibilità di concorrere con dolo generico in un reato a dolo specifico, a condizione che un altro soggetto abbia agito con la finalità richiesta dalla legge. In questo senso, non è necessario che il concorrente eventuale abbia la volontà di far parte del sodalizio e di realizzarne gli scopi, essendo sufficiente che egli abbia la consapevolezza che altri ne fa parte e agisce con la volontà di perseguirne i fini.

Elemento tipico della condotta di partecipazione (stabile e continuativa) è l'intraneità[7] all'organizzazione mafiosa, la quale si manifesta nell'apporto causale proveniente da chi, previa accettazione delle regole dell'accordo associativo e correlativo riconoscimento da parte dell'ente, è stabilmente inserito nella struttura organizzativa. La condotta potrà ritenersi realizzata quando risulti che il soggetto, nell'ambito dell'organizzazione, esplichi una qualsiasi attività (reato a forma c.d. libera) ancorché di importanza secondaria, che vada a vantaggio dell'associazione considerata nel suo complesso, con la consapevolezza e la volontà di associarsi, condividendo le finalità dell'organizzazione ed allo scopo di contribuire all'attuazione del suo programma criminoso, senza che sia necessario che il singolo persegua direttamente tali fini.

La distinzione con la figura del concorrente eventuale va ravvisata nella prestazione, da parte del "concorrente esterno", di un contributo causale, materiale o psicologico, rilevante ai fini del consolidamento o del rafforzamento dell'associazione e tuttavia atipico rispetto a quanto previsto dall'art. 416 bis c.p., in quanto non dipende dall'assunzione di una posizione funzionale all'interno dell'ente.

Ciò che si vuole rimarcare con questa vignetta è che la differenza tra appartenente e concorrente all'associazione di tipo mafioso è basata, fondamentalmente, sulla volontà di far parte e sulla correlativa accettazione e riconoscimento da parte degli altri membri dell'associazione stessa del soggetto, la qual cosa, ovviamente, non si riscontra nel concorrente esterno.

Partendo dalla considerazione che il dolo del partecipe e il dolo del concorrente non sono sovrapponibili, si può comprendere la piena configurabilità del concorso esterno (il dolo del concorrente non contiene l'elemento dell'affectio societatis).

Il vero problema, a questo punto, sembra quello relativo alla determinazione dei "coefficienti minimi" di rilevanza penale di ciascuna presunta condotta di concorso. In verità, se noi pensiamo che chi concorre nel medesimo reato soggiace alla stessa pena prevista per questo, la questione è quella di distinguere il partecipante dal concorrente e, quest'ultimo, da quel soggetto che non è punibile perché non raggiunge (oggettivamente e/o soggettivamente) il coefficiente minimo per la sua incriminazione.

Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 416-bis c.p., non è necessario:

a) che siano raggiunti effettivamente e concretamente uno o più scopi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice;

b) che ciascuno utilizzi la forza d'intimidazione;

c) che ciascuno consegua direttamente per sé o altri il profitto o il vantaggio contrassegnato dal connotato dell'ingiustizia.

Ai fini della configurabilità del concorso ex art 110 c.p., occorre attentamente verificare l'adeguatezza del contributo rispetto alla dimensione lesiva del fatto e alla complessità della fattispecie e, quindi, la sua apprezzabilità in termini oggettivi e soggettivi in relazione alla vita del sodalizio, dovendo la prestazione esterna consistere in un apporto materialmente idoneo e psicologicamente diretto a irrobustire e a rafforzare la struttura organizzativa che caratterizza il fenomeno associativo.

La dimostrazione della sussistenza dei "limiti minimi" di condotta per la configurazione del concorso esterno - il contributo

La causalità funge da criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto: il nesso causale tra condotta ed evento di regola comprova che non solo l'azione, ma lo stesso risultato lesivo è opera dell'agente, per cui - sussistendo gli altri presupposti di natura psicologica - quest'ultimo può essere chiamato a risponderne penalmente. Il problema è stabilire a quali condizioni l'evento lesivo possa essere considerato conseguenza dell'azione. Secondo la teoria "condizionalistica" è causa ogni condizione dell'evento, ogni antecedente senza il quale l'evento non si sarebbe verificato. Perché l'azione umana assurga a causa è sufficiente che essa rappresenti una delle condizioni che concorrono a produrre il risultato lesivo.

Per sostenere che vi sia "concorso eventuale esterno" all'associazione di tipo mafioso, occorre dimostrare che il contributo sia stato causale alla vita associativa. Infatti, in base al principio dell'equivalenza causale previsto negli artt. 40[8] e seguenti c.p., tutte le condizioni che concorrono a produrre l'evento sono causa di esso (si veda infra per la definizione di evento).

Secondo alcuni critici, la famosa sentenza del 05 ottobre 1994 n. 16 (caso Demitry Giuseppe), avrebbe lasciata irrisolta la questione della necessità o meno che il contributo del concorrente esterno sia effettivo, ossia che la condotta idonea a rafforzare l'organizzazione criminale abbia di fatto condotto alla verificazione di tale effetto. Con la sentenza in commento si tentava di identificare la condotta punibile nei casi in cui contributo fosse coinciso a non meglio definiti stati "patologici" o di "fibrillazione" dell'associazione.

Ciò che in realtà si voleva affermare con la sentenza Demitry è che lo spazio proprio del concorrente eventuale appare essere quello dell'emergenza nella vita dell'associazione. L'anormalità e la patologia possono esigere anche un solo contributo, il quale, dunque, può essere anche episodico, ovvero estrinsecarsi, appunto, in un unico intervento, purché consenta all'associazione di mantenersi in vita. La dottrina maggioritaria ha chiarito in seguito come non sia necessario né che l'apporto del concorrente esterno intervenga in una fase di anormalità del sodalizio, né che, senza lo stesso, l'associazione di tipo mafioso rischi la propria estinzione.

Secondo la sentenza Demitry, il concorso eventuale si configura, non soltanto nel caso di concorso psicologico - nelle forme della determinazione e della istigazione nel momento in cui l'associazione viene costituita - ma anche successivamente quando il terzo non abbia voluto entrare a far parte dell'associazione o non sia stato accettato come socio e, tuttavia, presti all'associazione medesima un proprio contributo, a condizione che tale apporto, valutato ex ante, e in relazione alla dimensione lesiva del fatto e alla complessità della fattispecie, sia idoneo, se non al potenziamento, almeno al consolidamento e al mantenimento della organizzazione.

In tema di idoneità della condotta concorsuale a raggiungere il risultato vantaggioso per l'associazione si può citare la sentenza di secondo grado del 29 giugno 2001 n. 2247 con cui la Corte d'Appello di Palermo condanna alla pena di sei anni di reclusione il giudice Carnevale per aver contribuito in maniera non occasionale alla realizzazione degli scopi dell'associazione "cosa nostra", alterando l'ordinario procedimento di formazione della volontà deliberativa collegiale, componendo i collegi con magistrati a lui fedeli, o esercitando pressioni su altri colleghi, peraltro quasi sempre riuscendo nell'intento.

La sentenza specifica come, nell'ambito del c.d. aggiustamento dei processi, si presentino due modalità alternative di configurazione del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, a seconda che il contributo apportato dall'extraneus sia di tipo:

  • occasionale, oppure
  • si tratti di un'ingerenza manifestata in una pluralità di casi (nella specie procedimenti penali).

Nel primo caso, l'evento di rafforzamento o mantenimento in vita dell'associazione si concretizzerebbe solo per effetto di un aiuto che sia stato effettivamente prestato (giudizio ex post - logica causale); nella seconda ipotesi, invece, la verifica di un'effettiva alterazione dei singoli giudizi sarebbe superflua, poiché l'effetto di rafforzamento si realizzerebbe già mediante la consapevolezza, da parte dell'associazione, dello stabile apporto di un soggetto infungibile nell'apparato giudiziario (giudizio ex ante – paradigma aumento del rischio).

I giudici pongono l'accento:

· sul nesso causale (l'aver svolto un'attività complessivamente idonea ad incidere, con efficacia determinante, sul contenuto delle decisioni);

  • sul contributo agevolatore (aveva agevolato l'organizzazione mafiosa in un frangente decisivo).[9]

Ai fini dell'accertamento giudiziario della responsabilità penale minima del concorrente esterno sarebbe, quindi, utilizzabile un giudizio ex ante o ex post a seconda dei casi.

La sentenza del caso Carnevale sancisce il definitivo affermarsi della configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, sia nella forma morale - fatta eccezione per la mera "contiguità compiacente" - sia in quella materiale.

Le norme sul concorso di persone sono norme di carattere generale: l'art. 110 c.p. consente di assegnare rilevanza penale a condotte diverse da quella tipica e ciò nondimeno necessarie o almeno utili, alla consumazione del reato di associazione di tipo mafioso. In buona sostanza, se il contributo atipico del concorrente non è sovrapponibile alla condotta tipica del partecipe, vi è sempre spazio per il concorso eventuale.

Ora, è pacificamente ammesso che in caso di "concorso di persone" nel reato, i concorrenti possono dare:

a. un contributo necessario, ponendo in essere una condicio sine qua non del reato, contributo che può essere:

· sia di partecipazione morale, che è quella che dà luogo alla determinazione dell'altrui proposito criminoso;

· sia di partecipazione materiale, che si esterna in tutte le possibili forme di estrinsecazione del contributo fisico essenziale.

b. un contributo agevolatore, limitandosi soltanto a facilitare la realizzazione del reato, contributo che può essere, ancora una volta,

· sia di partecipazione morale, che rafforza l'altrui proposito criminoso;

· sia di partecipazione materiale, che si manifesta in tutte le forme in cui l'agevolazione fisica può estrinsecarsi.

La partecipazione morale, sia nella forma della determinazione, sia in quella del rafforzamento, si risolve sempre in una condotta atipica – ad es. sono atipiche sia la condotta di chi determina altri a commettere il furto sia la condotta di chi rafforza il proposito di colui che ha già deciso di commettere il furto, perché nessuna delle due condotte è il furto o parte del furto. Questo tipo di partecipazione proprio perché si risolve in una condotta atipica, è necessariamente tutta "esterna".

Il riconoscimento del concorso morale esterno nella forma dell'istigazione e della determinazione al reato associativo è sempre stato ritenuto pacifico. Si pensi al caso nel quale è stato condannato per concorso esterno nel reato di cui all'art. 416 bis un padre, ex capomafia, che, non facendo più parte dell'associazione aveva istigato il figlio ad abbandonare l'attività bancaria alla quale si era avviato per entrare a far parte della congregazione mafiosa in qualità di dirigente di una società finanziaria costituita e alimentata con i proventi delle attività dell'associazione stessa (cfr. Cass. pen., 14 settembre 1990 Aglieri).

Secondo la sentenza Carnevale, il contributo punibile richiesto al concorrente deve poter essere apprezzato in termini di concretezza, specificità e rilevanza, e deve essere idoneo a determinare, sotto il profilo "causale", la conservazione o il rafforzamento dell'associazione. Occorre, in altre parole, il compimento di specifici interventi indirizzati a questo fine. Ciò che conta, infatti, non è la mera disponibilità dell'extranues a conferire il contributo richiesto dall'associazione, bensì l'effettività di tale contributo, e cioè che a seguito di un impulso proveniente dall'ente criminale il soggetto si sia di fatto attivato nel senso indicatogli.

Accertamento "ex ante" o "ex post" del contributo punibile

Le Sezioni Unite hanno precisato che il contributo del soggetto estraneo deve dispiegare un'efficacia causale reale sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell'ente, da accertare ex post sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità. La Corte ritiene che non sia sufficiente che il contributo atipico - con prognosi di mera pericolosità ex ante - sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell'evento lesivo (viceversa, nella sentenza Carnevale del 2001 richiamata supra, in considerazione dello stabile apporto di un soggetto infungibile nell'apparato giudiziario, si ventila la possibilità di valutare il contributo ex ante).

La Cassazione sostiene che anche il contributo eziologico dell'extraneus deve atteggiarsi a condizione necessaria dell'evento (condicio sine qua non), secondo lo stesso modello di causalità tipico delle fattispecie incriminatrici a forma libera e causalmente orientate: occorre, cioè, un nesso condizionalistico tra condotta ed evento fondato su riconosciute leggi scientifiche universali o statistiche, o comunque su massime di esperienza teoricamente ed empiricamente controllabili, tale da condurre conclusivamente ad un giudizio di responsabilità enunciato in termini di elevata probabilità logica o probabilità prossima alla certezza (si veda, come punto di riferimento in tema di causalità penalmente rilevante, la sentenza del 10 luglio 2002 n. 30328 (caso Franzese).

Quando si parla di evento nell'ambito del concorso eventuale esterno, si può fare riferimento alla nozione di evento "in senso naturalistico", come modificazione del mondo esteriore, per cui risulta plausibile individuare una modificazione del mondo esteriore nel "rafforzamento", mentre l'operazione ermeneutica risulta assai più problematica rispetto al concetto di "conservazione" (il quale ultimo implica, logicamente, l'esatto contrario di una modificazione).

Qualora si adotti, invece, la nozione di evento "in senso giuridico", inteso come lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, si può più agevolmente sostenere che "conservazione e rafforzamento" del sodalizio criminoso si atteggino concettualmente a eventi giuridici in quanto comportano la lesione del bene giuridico, costituito nel caso di specie dall'ordine pubblico.

Con la sentenza del 20 settembre 2005 n. 33748 (caso Mannino) la Cassazione enuncia il seguente principio di diritto: «E' configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nell'ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell'associazione nella competizione elettorale, si impegna ad attivarsi, una volta eletto, a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che:

a) gli impegni assunti dal politico, per l'affidabilità dei protagonisti dell'accordo, per i caratteri strutturali dell'organizzazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza;

b) all'esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé, e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali.

Ad ogni modo, al fine di ribadire una posizione di garanzia del principio di legalità formale la Corte afferma che: «nella pur accertata vicinanza e disponibilità di un personaggio politico nei confronti di un sodalizio criminoso o di singoli esponenti del medesimo sono da ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee, tuttavia, all'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa, la cui esistenza postula la rigorosa verifica probatoria, nel giudizio, degli elementi costitutivi del nesso di causalità e del dolo del concorrente».

Dal punto di vista del dolo, nei delitti associativi si esige che il concorrente esterno, pure sprovvisto dell'affectio societatis, cioè della volontà di far parte dell'associazione, sia tuttavia:

a) consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini);

b) consapevole dell'efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell'associazione.


L'elemento soggettivo del "concorrente esterno"

Nella sentenza Carnevale i giudici considerano non sufficiente riscontrare nell'agente soltanto la coscienza e volontà di fornire un contributo vantaggioso per l'associazione, a prescindere dalla condivisione degli scopi e della strategia complessiva del sodalizio: occorre che il concorrente "pur estraneo" all'associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che sa e vuole sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.

Il ragionamento delle Sezioni Unite muove dalla nozione di "medesimo reato" contenuta nell'art. 110 c.p.: affinché si possa affermare che i concorrenti hanno commesso il "medesimo reato" è necessario che le loro condotte risultino finalisticamente orientate verso l'evento tipico di ciascuna figura criminosa che nel reato di cui all'art. 416 bis c.p. va ravvisato nella sussistenza ed operatività del sodalizio attraverso la realizzazione del programma criminoso. Non è sufficiente la mera accettazione del rischio (dolo eventuale) che l'organizzazione criminale ne esca "conservata o rafforzata", bensì è necessario che di "tale evento" si abbia una rappresentazione piena e sicura.

In realtà, l'aver elevato la condivisione psicologica della realizzazione, anche parziale, del programma criminoso a requisito essenziale della condotta del concorrente esterno altro non ha fatto se non confondere i due piani della partecipazione interna - anch'essa sorretta dalla condivisione del programma criminoso - e del concorso esterno. Inoltre, affermare che l'intervento del concorrente esterno può sostanziarsi anche in un'attività continuativa e ripetuta, determina un ulteriore assottigliamento delle differenze tra intraneus ed extraneus all'associazione.

In sintesi, la sentenza Carnevale si distacca per almeno due aspetti dagli enunciati della sentenza Demitry:

1) non è più richiesto che il contributo del concorrente esterno sia apportato in momento di "fibrillazione" dell'associazione di intensità tale che, senza di esso, la societas sceleris andrebbe inevitabilmente incontro alla sua dispersione o scomparsa;

2) per la struttura del dolo della condotta del concorrente esterno, nel senso che questo non deve solo rappresentarsi, ma anche volere che, attraverso il suo contributo, siano realizzati i fini dell'associazione o, meglio, che la sua condotta sia diretta finalisticamente a realizzare l'evento rappresentato dalla "sussistenza ed operatività" del sodalizio.

Si afferma, quindi, un modello causalmente orientato di concorso esterno, ove l'evento, coperto dal necessario dolo diretto, è rappresentato dalla conservazione o dal rafforzamento dell'associazione criminosa in questione ed è realizzato, con consapevole condotta a forma libera, non necessariamente continuativa, e con condivisione dei fini generali, da un soggetto che non può dirsi, ne vuole essere, stabilmente inserito nell'organigramma associativo.

Opinioni contrarie alla configurabilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso

Parte della dottrina e della giurisprudenza ha escluso la possibilità di configurare il concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Secondo queste posizioni, la cosiddetta "partecipazione esterna" consistente nell'aver prestato al sodalizio:

1) un proprio e adeguato contributo;

2) con la consapevole volontà di raggiungere, con quegli atti, i suoi scopi,

si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile.

Con riferimento all'elemento soggettivo si afferma che il dolo del concorrente esterno debba atteggiarsi in coincidenza con quello del reato associativo, nel senso che non può prescindersi dal considerare l'approvazione del programma del sodalizio malavitoso quale requisito minimale dell'atteggiamento psicologico dell'individuo esterno all'organizzazione che concorra in essa mediante condotte obbiettivamente funzionali ai fini illeciti dell'associazione (cfr. ordinanza del 28 marzo 1991 emessa dal G.I.P. del Tribunale di Catania che ha escluso il concorso nel caso di contiguità tra imprenditori e mafia).

La corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte d'Assise di Palermo, conclusiva del primo maxi-processo celebrato contro la mafia in Italia, afferma che «i c.d. concorsi esterni nell'associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. non sono inquadrabili nell'ipotesi della compartecipazione ai sensi dell'art. 110 c.p., posto che, ove concretatisi in sistematico e continuativo appoggio nel conseguimento degli scopi associativi, sono essi stessi condotte di partecipazione, in nulla dissimili dalle altre concorrenti, omissis». (Sent. Cass. del 30 gennaio 1992 n. 6992).

In generale, le tesi che sostengono l'esclusione della configurabilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso prendono le mosse dal profilo soggettivo, in quanto si asserisce che la particolare struttura del delitto di associazione mafiosa richiede l'accertamento di un complesso bagaglio psicologico che, ove ritenuto sussistente, farebbe automaticamente configurare il reato di partecipazione, senza quindi lasciare spazio al concorso criminoso: la condotta dell'extraneus, se animata dal dolo specifico peculiare che contraddistingue il reato associativo mafioso(volontà di far parte dell'associazione e fine di voler contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa (affectio societatis), non può in alcun modo distinguersi da quella del partecipe.

Dal punto di vista oggettivo si ammette la possibilità di riscontrare nella realtà "condotte atipiche" che si sostanzino in un contributo alla realizzazione della condotta tipica. La differenza tra concorso esterno e condotta partecipativa, da questo punto di vista, è più facile da spiegare, sempre che ovviamente non si riscontri l'esistenza del dolo specifico tipico dell'affiliato.

L'assistenza agli associati

La norma:

Art. 418. Assistenza agli associati

«Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano all'associazione è punito con la reclusione da due a quattro anni.

La pena è aumentata se l'assistenza è prestata continuamente.

Non è punibile chi commette il fatto in favore di un prossimo congiunto».

La questione dei limiti di punibilità della contiguità alla mafia o, altrimenti detto, dei confini applicativi del concorso esterno nell'associazione mafiosa può essere vista alla luce della norma che punisce chi assiste taluna delle persone che partecipano all'associazione mafiosa. Punendo con minore gravità alcuni comportamenti, rispetto alla condotta partecipativa al reato associativo mafioso, l'art. 418 prevede una forma tipica di contributo punibile che è prossimo al concetto di contiguità alla mafia.

Il problema è che anche questa norma può essere intesa in due modi completamente opposti:

a) da una parte si può sostenere che il legislatore abbia voluto escludere il concorso eventuale esterno in associazione mafiosa, tipizzando, come uniche condotte penalmente rilevanti, il fornire rifugio, il vitto, l'ospitalità, i mezzi di trasporto e gli strumenti di comunicazione, delimitando, inoltre, tale assistenza a talune delle persone che partecipano all'associazione, escludendo cioè che tale contributo si possa riferire all'intera organizzazione considerata nel suo complesso;

b) dall'altra, si può legittimamente sostenere che quando gli stessi comportamenti si sostanzino nella prestazione di contributi materiali all'organizzazione criminale complessivamente considerata, può, invece, configurarsi un concorso criminoso nella fattispecie associativa. Il legislatore, cioè, avrebbe voluto prevenire ogni forma residuale di collaborazione non inquadrabile nell'ambito del concorso esterno né in quello del favoreggiamento.

Tutto sembra ruotare sull'inciso "fuori dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento". L'uso del termine "concorso" può significare la volontà di indicare ogni ipotesi di concorso, sia esso eventuale o necessario (partecipazione), e può, di conseguenza, indirettamente confermare che il legislatore dava per scontato che nei confronti dei reati associativi poteva rilevare, oltre che la partecipazione, il concorso eventuale. Sul punto occorre rilevare che la giurisprudenza si è espressa nel senso che il richiamato "concorso" non potrebbe che identificarsi con quello eventuale o esterno. Anche secondo la Suprema Corte l'impiego, per riferirsi agli stessi soggetti, di due diverse locuzioni ("persone che partecipano all'associazione" e "concorso") non avrebbe alcuna giustificazione logica se il termine "concorso" fosse riferito quello necessario, talché ciò confermerebbe la configurabilità del concorso eventuale dell'extraneus nel delitto di cui all'art. 416-bis.

L'aggravante dell'articolo 7 del Decreto Legge 13 maggio 1991, n. 152

La norma:

«1. Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

2. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante».

La ratio sottostante al citato art. 7 non è solo quella di punire più severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma quella di contrastare in maniera più decisa l'atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati associativi, utilizzino "metodi mafiosi", che cioè inducano nelle vittime una particolare coartazione psicologica.

A titolo di esempio, la suprema Corte ha qualificato atti intimidatori di "tipo mafioso" quelli compiuti nella esecuzione di un tentativo di estorsione, mediante telefonate minatorie alla vittima designata e sparando colpi d'arma da fuoco contro la facciata del negozio e l'autovettura di quest'ultima (Cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 30246 del 17/05/2002).

L'aggravante scatta per la commissione di delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, in due casi distinti:

1) avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis (c.d. metodo mafioso);

2) al fine di agevolare l'attività delle associazioni di cui all'art. 416-bis (c.d. agevolazione mafiosa).

Mentre nel primo caso la sussistenza della circostanza aggravante dell'utilizzazione del "metodo mafioso" non implica che sia stata dimostrata l'esistenza di un'associazione di tipo mafioso[10], nel secondo caso è necessario che l'associazione esista essendo impensabile l'aggravamento di pena per aver favorito un'entità astratta.

Il problema è stabilire cosa deve intendersi per "avvalersi o giovarsi" del metodo mafioso. La risposta dovrebbe risultare agevole se detta modalità fosse sufficientemente tipizzata all'art. 416 bis c.p., cui l'aggravante in esame fa espresso rinvio. Purtroppo vi sono limiti di determinatezza che contraddistinguono la fattispecie incriminatrice dell'associazione di stampo mafioso; ne consegue che, per effetto traslativo, il deficit di tassatività dell'art. 416 bis c.p. si estenda anche agli elementi tipizzanti del Decreto Legge13 maggio 1991, n. 152. Sembra corretta l'interpretazione della locuzione "avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale" come effettivo sfruttamento della fama di organizzazioni criminali operanti nell'ambito di un determinato territorio.

Ad ogni modo, si cercherà di fare chiarezza.

La circostanza aggravante in questione, nel primo caso (metodo mafioso):

a) si applica anche al soggetto non appartenente all'associazione il quale si avvalga della forza intimidatrice dell'associazione mafiosa medesima per realizzare un fine proprio mafioso, sfruttando l'esistenza in una data zona di associazioni mafiose;

b) è applicabile anche al reato tentato, per cui non si richiede che il fine particolare perseguito debba essere in qualche modo realizzato;

c) occorre l'effettivo utilizzo del metodo mafioso nel commettere i delitti, inoltre, essa scatta anche se posta in essere da un solo soggetto;

d) ha natura oggettiva.

Nel secondo caso (agevolazione mafiosa):

a) si applica anche al soggetto non appartenente all'associazione;

b) ha natura soggettiva, riguardando una modalità (volontà) dell'azione rivolta ad agevolare un'associazione di tipo mafioso e si trasmette, quindi, a tutti i concorrenti nel reato, ivi compreso il soggetto affiliato all'organizzazione criminale, che risulti essere stato favorito dalla condotta agevolatrice;

c) l'elemento soggettivo è il dolo specifico, proprio perché ha ad oggetto la specifica finalità di agevolare l'associazione. Peraltro, si ritiene che l'agevolazione dell'attività dell'associazione non deve essere provata per la sussistenza dell'aggravante (ciò comporta l'applicazione di inaccettabili schemi di tipo presuntivo). Occorrerebbe, invece, raggiungere almeno la prova della oggettiva idoneità della condotta al raggiungimento della finalità perseguita dall'agente.

Riguardo la questione circa l'applicabilità o meno dell'aggravante ai partecipanti ad un'associazione di stampo mafioso, esistono due orientamenti:

1) il primo esclude l'operatività della disposizione citata nei confronti dei membri di un sodalizio di stampo mafioso sostenendo che il legislatore con la medesima ha inteso colmare possibili spazi di condotte che, pur senza configurare partecipazione all'associazione mafiosa, dimostrino finalità collaborative o contiguità. In pratica, la circostanza, nella sua configurazione materiale, concerne condotte ricomprese nella fattispecie associativa, di conseguenza non può essere contestata a chi già risponde di quest'ultima poiché si determinerebbe una duplicazione di sanzione per un unico addebito, in antitesi con l'art. 84 c.p. in tema di reato complesso;

2) il secondo ne afferma l'applicabilità. Il fatto che ad un partecipe sia addebitato ai sensi della norma codicistica il metodo mafioso quale patrimonio sociale e caratteristica dell'azione del gruppo, non preclude la possibilità di contestargli il suddetto metodo, quale da lui effettivamente utilizzato in determinate occasioni delittuose.

Orbene, la condotta sanzionata dall'art. 416 bis c.p. consiste nell'essere inserito stabilmente in un sodalizio, arrecando un contributo di un qualche rilievo ai fini dello scopo comune, il quale è rappresentato dalla commissione di un numero indeterminato di delitti, dall'acquisizione della gestione o del controllo di attività economiche, dal conseguimento di ingiusti profitti ovvero dall'incidere indebitamente sul diritto di voto; obiettivi che gli adepti perseguono avvalendosi della forza intimidatrice che promana dal vincolo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.

Non è necessario che ogni socio:

a) realizzi i reati-fine che, mano a mano, vengono posti in essere;

b) compia le specifiche azioni funzionali alla conquista di supremazia;

c) utilizzi il metodo mafioso essendo sufficiente che egli sia consapevole che altri lo impiegano.

Affinché l'associato risponda anche dei "singoli delitti" occorre che egli vi abbia dato uno specifico consapevole apporto, non bastando che essi rientrino nel programma associativo.

Riguardo invece al metodo mafioso, si osservi la differenza tra i due casi:

1) quello previsto dall'art. 416 bis c.p. connota il fenomeno associativo ed è, al pari del vincolo, un elemento che permane indipendentemente dalla commissione dei vari reati;

2) quello di cui alla disposizione che sancisce l'aggravamento di pena è caratteristica solo eventuale di un concreto episodio delittuoso, facendo scattare l'operatività dell'aggravante solo se viene effettivamente utilizzato.

Di conseguenza, il metodo mafioso può essere addebitato al partecipe in due casi:

a) quale patrimonio sociale e caratteristica dell'azione del gruppo,

b) perché da lui effettivamente utilizzato in determinate occasioni delittuose.

In definitiva, nel caso in cui questi "singoli delitti" vengono commessi dal partecipe e la sua condotta è sorretta dal dolo specifico di agevolare l'attività dell'associazione, allora potrà essergli ascritta anche l'aggravante ex art. 7 D.L. 152/91, in quanto si verifica l'esistenza di un fattore psicologico in più, mentre se i singoli delitti vengono commessi utilizzando il c.d. metodo mafioso la circostanza aggravante non può trovare applicazione ostandovi il principio del ne bis in idem.

Che non si tratti di un "concorso apparente" di norme valga la considerazione che il reato associativo postula un effettivo apporto alla causa comune mentre la configurazione dell'aggravante è relativa alla semplice volontà di favorire, indipendentemente dal risultato. Si tratta di due realtà fattuali diverse pertanto non è violato il principio del ne bis in idem sostanziale.

Guardando il problema da una prospettiva diversa, cioè dal punto di vista della vittima, il problema diventa quello di stabilire se basti la mera consapevolezza di rapportarsi con un soggetto intraneo a una associazione di tipo mafioso per la contestazione aggravata di cui all'art. 7. Il rischio è che si opti per l'integrazione dell'aggravante anche in occasioni in cui la forza di intimidazione non è esplicitata, ossia anche nei casi di mera notorietà nel territorio dell'associazione criminale o in quelli in cui la forza derivi automaticamente dal carisma della caratura mafiosa del soggetto agente.

Al fine di riportare entro i limiti della legalità l'aggravante in esame si può concludere che, anche quando il delitto sia commesso in un territorio in cui sia notoriamente presente l'associazione mafiosa, la sua configurabilità, nella forma dell'avvalersi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p., (cd. metodo mafioso), è subordinata alla sussistenza, nel caso concreto, di condotte specificamente evocative di forza intimidatrice, derivante dal vincolo associativo e non dalle mere caratteristiche soggettive di chi agisce idonee a determinare una condizione di assoggettamento e omertà (Cfr., sez. V, n. 28442 del 17 aprile 2009).

Ovviamente, occorre che il giudice provi l'esistenza dell'associazione agevolata, ma direi anche l'operatività della stessa, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un'entità solo immaginaria o sia semplicemente esistente senza essere di fatto operativa.

Altra questione è quella relativa ai rapporti dell'aggravante in esame e l'ipotesi di concorso esterno (rectius eventuale) nel reato di associazione di tipo mafioso.

Lecita è la domanda: chi commette un "delitto" aggravato ex art. 7 per il fatto di usare il c.d. metodo mafioso o per agevolare l'attività delle associazioni di cui all'art. 416-bis c.p., si rende responsabile anche di concorso "esterno" in quest'ultimo reato?

Considerando le condotte, si può affermare che l'agevolare è condotta ben diversa dall'assumere un ruolo "essenziale, ineliminabile ed insostituibile". Inoltre, non è detto che l'agevolazione avvenga nei momenti di difficoltà dell'organizzazione criminale. In sintesi:

a) l'aggravante di cui all'art. 7 legge 13 maggio 1991, n. 152 si sostanzia nella semplice finalità di agevolazione dell'attività posta in essere dalla consorteria mafiosa, essendo solo necessario che venga accertata tale oggettiva finalizzazione dell'azione;

b) il concorso esterno deve essere occasionale, deve presentare il carattere di una rilevante importanza, tale da comportare l'assunzione di un ruolo esterno ma essenziale, ineliminabile ed insostituibile, particolarmente nei momenti di difficoltà dell'organizzazione criminale.

La risposta alla domanda è che il concorrente esterno all'associazione di tipo mafioso non è necessariamente responsabile dell'aggravante di cui all'art. 7 in questione, dipende da caso a caso. L'aggravante può scattare solo se, già integrati tutti i presupposti per ritenerlo concorrente esterno, nel commettere un delitto si avvalga del c.d. metodo mafioso e non anche nel caso in cui sia mosso dal fine di agevolare l'associazione mafiosa: tale fine, infatti, è già elemento costitutivo del concorso esterno a livello di elemento soggettivo (dolo generico). Se si ammettesse l'aggravante anche nel caso in questione verrebbe violato il principio del ne bis in idem sostanziale.

In definitiva, si possono delineare tre ruoli distinti:

1) il partecipante all'associazione;

2) il concorrente eventuale;

3) colui che consuma un reato aggravato ex art. 7 L. 152/91.

Immaginiamo che Tizio (partecipante), Caio (concorrente esterno) e Sempronio (che consuma reato aggravato) commettano il reato di estorsione di cui all'art. 629 c.p.. Vediamo i casi possibili:

Con la sentenza del 30 marzo 2011 la corte di Cassazione ha annullato l'ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Bologna aveva confermato la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 7 D.-L. 13 maggio 1991, n. 152 nei confronti di un dottore commercialista, indagato per il reato di riciclaggio aggravato e continuato, nonché per reati fiscali (artt. 2 e 8 D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) e fallimentari (art. 223 R. D. 16 marzo 1942, n. 267) in relazione al dissesto di una società riconducibile ad una organizzazione mafiosa.

Più in particolare il ricorrente era accusato di avere gestito – nell'interesse dell'emissario della citata cosca– talune ditte con sede in Italiae all'estero, emettendo false fatture di vendita di materiale in realtà inesistente e consentendo, così, il conseguimento di un indebito lucro fiscale.

Nell'annullare "in parte" l'ordinanza, la Corte di cassazione ha osservato come mancasse la prova della consapevolezza da parte del ricorrente di avere agito al fine di favorire, nell'esercizio dell'attività professionale, non solo gli interessi illeciti del proprio cliente, ma soprattutto quelli della cosca mafiosa della quale quest'ultimo era il referente.

In sostanza la circostanza aggravante sussiste solo a condizione che tale comportamento risulti assistito dalla consapevolezza di favorire l'intero sodalizio, e non un suo singolo componente del quale si ignorino le connessioni con la criminalità organizzata.

Ulteriore questione è quella dei rapporti tra l'aggravante in argomento e il delitto di favoreggiamento personale.

La norma stabilisce: «Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena di morte) o l'ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell'autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti, è punito con la reclusione fino a quattro anni. Quando il delitto commesso è quello previsto dall'art. 416-bis, si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni. Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena è della multa fino a euro 516. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto» (Art. 378. Favoreggiamento personale).

In tempi recenti la suprema Corte ha chiarito che, in tema di favoreggiamento personale, l'aggravante di cui al secondo comma dell'art. 378 c. p. è compatibile con quella prevista dall'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, quando il favoreggiamento si riferisca non solo alla persona facente parte dell'associazione di stampo mafioso ma sia diretto anche ad agevolare l'intera associazione.

Tale compatibilità discenderebbe dalla diversa natura delle due circostanze aggravanti:

1) l'aggravante di cui all'art. 378 comma 2, ha natura oggettiva perché sussiste per il solo fatto che il soggetto favorito abbia fatto parte dell'organizzazione mafiosa e non è necessario avere la prova che l'attività del soggetto sia diretta ad agevolare l'intero sodalizio;

2) la circostanza aggravante di cui all'art. 7 comma 1 della legge 203/1991, (caso dell'agevolazione mafiosa) invece ha natura soggettiva dovendo l'agente avere l'intento di agevolare l'intera organizzazione o un suo esponente di spicco. Si pensi all'aiuto fornito al capo che si concretizzi nell'agevolazione per dirigere da latitante l'associazione così finendo per costituire un aiuto all'associazione la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto. (cfr. Fattispecie relativa all'agevolazione, protrattasi per rilevanti periodi di tempo, di esponenti di spicco di "cosa nostra" attraverso l'ospitalità presso vari immobili di pertinenza dei favoreggiatori - Sez. V, sent. n. 6199 del 30-11-2010).

Il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non determina necessariamente la sussistenza dell'aggravante, deve, infatti, valutarsi la oggettiva funzionalità della condotta agevolativa posta in essere e i suoi riflessi nei confronti dell'intera organizzazione. Favorire un semplice affiliato di un'associazione mafiosa difficilmente può integrare la circostanza aggravante di cui all'art. 7 comma 1 della legge 203/1991, perché normalmente manca il fine di agevolare l'associazione intera e la consapevolezza di fornire un contributo al perseguimento dei suoi fini (Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4971 del 22/01/2010).

Riguardo ai rapporti tra l'aggravante in tema di "rapina" di cui all'art. 628 comma 3 c.p. e l'aggravante di cui all'art. 7 comma 1 della legge 203/1991 sì è ritenuto che queste possono concorrere essendo le stesse ancorate a presupposti di fatto diversi.

La norma: (Art. 628 - Rapina) «Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065. Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità. La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098:

1) se la violenza o minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite;

2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire;

3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'articolo 416-bis;

3 bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all'articolo 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;

3 ter) se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto;

3 quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell'atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro;

3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.

Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'articolo 98, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo comma, numeri 3, 3 bis, 3 ter e 3 quater, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti».

La compatibilità delle due aggravanti è spiegata con la differenza strutturale che esiste tra le stesse:

1) l'aggravante di cui all'art. 628 comma terzo, n. 3, c.p. necessita dell'uso della violenza o minaccia e la provenienza di questa da soggetto appartenente ad associazione mafiosa. Non è indispensabile accertare in concreto le modalità di esercizio della suddetta violenza o minaccia o che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza dell'agente al sodalizio mafioso;

2) l'aggravante di cui all'art. 7 sussiste sole se l'attività criminosa sia stata posta in essere con modalità di tipo "mafioso", pur non essendo necessario che l'agente appartenga al predetto sodalizio.

Riguardo al "delitto di estorsione" si ritiene che, a determinate condizioni, possa configurarsi l'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. n. 152 del 1991.

La norma: (Art. 629 - Estorsione) «Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.

La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente».

La circostanza di cui all'art. 7 può configurarsi anche nel caso di estorsione allorché la condotta minacciosa, oltre ad essere obiettivamente idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, sia espressione di capacità persuasiva in ragione del vincolo dell'associazione mafiosa e sia, pertanto, idonea a determinare una condizione d'assoggettamento e d'omertà.

Occorre che siano accertati un'attività intimidatoria caratterizzata da "mafiosità" e l'esplicazione di condotte che siano, altresì, riconducibili agli interessi del clan mafioso che ha il controllo sul territorio ovvero siano rese possibili con l'ausilio degli appartenenti al sodalizio. Ad esempio è stato ritenuto configurabile il delitto di tentata estorsione, con l'aggravante del metodo mafioso, nel caso in cui si costringa la persona offesa a stipulare un contratto per essa non vantaggioso, quanto al prezzo e alle modalità, con l'attivo intervento nella trattativa di un "pregiudicato" ben noto per la sua caratura criminale (Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12882 del 17/12/2007 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5783 del 22/01/2010).

L'aggravante in questione è stata ritenuta integrata sia con riferimento alla delitto di ricettazione di cui all'art. 648 c.p. sia con riferimento ai delitti di rivelazioni ed utilizzazione di segreti d'ufficio di cui all'art. 326 c. p. e di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico di cui all'art. 615 ter, sempreché le condotte delittuose, ivi previste, siano tenute per apprendere notizie sulle sorti del procedimento penale in relazione al reato di associazione mafiosa di cui all'art. 416 bis c.p.(Cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 23134 del 16/04/2004).

L'aggravante del metodo mafioso si ritiene compatibile con il delitto di usura, in quanto il metodo mafioso può ben sussistere nella fase della stipula dell'accordo usurario come condizionante l'accordo stesso nella prospettiva del futuro adempimento. Così, a titolo di esempio, la circostanza aggravante del metodo mafioso, è stata ritenuta configurabile nel caso in cui l'indagato ha come tecnica di intimidazione il riferimento alla provenienza dei capitali da persone legate alla criminalità organizzata (Cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 23153 del 16/05/2007.

La circostanza aggravante in oggetto può trovare applicazione anche in relazione al delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui all'art. 12 quinquies del D.L. n. 306 del 1992. (Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3472 del 08/01/2010).

Si consideri inoltre che, allorché siano contestate, in relazione al medesimo reato, le circostanze aggravanti di aver agito sia al fine di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, sia per motivi abietti di cui all'art. 61 n. 1 del c.p., le due circostanze concorrono se quella comune, nei termini fattuali della contestazione e dell'accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un "quid pluris" rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso.

Infine, il delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e di reimpiego di capitali (art. 648-ter c.p.) può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti. Di conseguenza non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter c. p. e quello di cui all'art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa (Cass. pen., Sez. Un., 27 febbraio 2014, n. 25191).

Il concorso eventuale nei reati a concorso necessario – alcuni casi pratici tratti dalla giurisprudenza

L'efficacia causale della singola condotta di ogni compartecipe viene tradizionalmente riferita alla realizzazione in forma collettiva di un reato. Nei casi di sostegno esterno che sono al vaglio si tratta di condotte di concorso eventuale che accedono non già alla realizzazione in forma collettiva di un reato qualsiasi da eseguire o in corso di esecuzione, bensì a un reato a concorso necessario già consumato, essendo l'associazione mafiosa preesistente rispetto al contributo dell'estraneo.

In altre parole, si tratta di contributi prestati dall'esterno nei confronti di un'entità associativa già costituita e che perdura nel tempo, secondo lo schema del reato permanente: ribadendo quanto già detto, la condotta di sostegno dell'estraneo è stata identifica dalla giurisprudenza nella "conservazione" o nel "rafforzamento" dell'associazione criminosa (o di un suo particolare settore).

Il problema è che la condotta dell'extraneus dovrebbe porsi come condizione necessaria per la produzione della lesione dell'ordine pubblico, ma detta lesione deriva piuttosto dalla preesistenza dell'intero sodalizio: sicché l'unico modo per ammettere la configurabilità del concorso esterno consiste nel ritenere che esso realizzi una forma di incremento di una lesione (o messa in pericolo) che si è verificata e continua a verificarsi anche a prescindere dal contributo stesso.

Caso 1 (Avvocato)

In tema di associazione di tipo mafioso, l'avvocato che - senza limitarsi a fornire al proprio cliente-associato consigli, pareri ecc. mantenendosi nell'ambito di quanto legalmente consentito - si trasformi in un "consigliori" della cosca, assicurando un'assistenza tecnico-legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge (nella specie, diretti a far acquisire agli esponenti del sodalizio il controllo di una società), risponde del delitto di concorso esterno, ovvero di quello di partecipazione all'associazione, qualora ricorrano gli ulteriori presupposti della "affectio societatis" e dello stabile inserimento nella struttura organizzativa del sodalizio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17894 del 08/04/2014)

Caso 2 (Forze di Polizia)

Integra il concorso esterno in associazione mafiosa la condotta di un appartenente alle forze di polizia giudiziaria che fornisce ripetutamente agli esponenti apicali di una cosca notizie in ordine ad indagini in corso, ad operazioni preventive in preparazione e ad iniziative di polizia in danno degli affiliati, in tal modo rendendo più sicuri i piani criminali del sodalizio e favorendone l'ideazione e l'esecuzione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che tale sistematica attività non poteva essere ricondotta nell'alveo del delitto di favoreggiamento, che ricorre invece nell'ipotesi di episodico aiuto ad eludere le investigazioni o sottrarsi alle ricerche in favore del singolo associato, che abbia commesso un reato eventualmente compreso nel programma associativo) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 11898 del 13/11/2013).

Caso 3 (Imprenditore)

In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, deve ritenersi "colluso" l'imprenditore che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo della "affectio societatis", instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per l'imprenditore, nell'imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l'organizzazione mafiosa, nell'ottenere risorse, servizi o utilità. (Nel caso di specie, l'imprenditore operava nell'ambito del sistema di gestione e spartizione degli appalti pubblici attraverso un'attività di illecita interferenza, che comportava, a suo vantaggio, il conseguimento di commesse e, in favore del sodalizio, il rafforzamento della propria capacità di influenza nel settore economico, con appalti ad imprese contigue) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 30346 del 18/04/2013).

Caso 4 (Borghesia mafiosa)

Nei rapporti tra partecipazione ad associazione mafiosa e mero concorso esterno, la differenza tra il soggetto "intraneus" ed il concorrente esterno risiede nel fatto che quest'ultimo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur fornendo ad essa un contributo causalmente rilevante ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione, e, sotto il profilo soggettivo, è privo della "affectio societatis", mentre il partecipe "intraneus" è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell'accordo, e quindi del programma delittuoso, in modo stabile e permanente. (La S.C. ha precisato che anche il contributo degli appartenenti alla c.d. "borghesia mafiosa" può integrare gli estremi della vera e propria partecipazione all'associazione mafiosa, e non del mero concorso esterno). (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18797 del 20/04/2012).

Caso 5 (Corriere)

Integra il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, e non la meno grave fattispecie di favoreggiamento personale, la condotta del soggetto, estraneo all'associazione, che faccia da "corriere" tra un latitante e altri membri del sodalizio criminale, mediante la consegna di messaggi inerenti alle attività delittuose del gruppo (Sez. 1, Sentenza n. 54 del 11/12/2008).

Caso 6(Notaio)

In tema di associazione di tipo mafioso, è configurabile il concorso esterno nella condotta della persona che, pur priva dell'"affectio societatis" e non risultando inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisca un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo - purché questo abbia apprezzabile rilevanza causale - ai fini della sua conservazione o del suo rafforzamento e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso. Ne consegue che integrano la condotta di concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso le prestazioni professionali rese da un notaio le quali, pur astrattamente dovute in favore di chiunque ne faccia richiesta, devono essere rifiutate allorché di esse possa ragionevolmente ritenersi che riguardano atti od operazioni illeciti, o apparentemente leciti, compiuti da soggetti mafiosi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto qualificabile come concorso esterno nel delitto associativo la condotta di un notaio che aveva prestato la sua opera in tutte le fasi, durate per anni, di una complessa e articolata speculazione edilizia, del valore di svariati miliardi di lire, progettata da un noto "clan" camorristico, consentendone la realizzazione non solo mediante il rogito di numerosi atti negoziali, ma anche attraverso l'avallo al pagamento di tangenti da parte di prestanome al capo-clan, la custodia di assegni a garanzia emessi dopo l'acquisto del terreno da lottizzare e, insomma, l'assunzione della veste di garante del buon esito dell'intera operazione, in cambio di che aveva ottenuto dai membri dell'associazione l'appoggio elettorale in un collegio senatoriale) (Sez. 6, Sentenza n. 13910 del 06/02/2004).

Alcuni casi concreti della storia italiana

Lungi dal voler esaminare le questioni nel merito, di verificare cioè se le singole condotte siano state poste in atto e conseguentemente siano state sufficientemente provate in giudizio, con l'ulteriore avvertenza che i nominativi diversi dagli imputati richiamati nell'elaborato sono stati indicati al solo fine di rendere comprensibile il testo, scorrendo questi casi concreti si vuole soltanto mostrare quali comportamenti siano stati ritenuti penalmente rilevanti ai fini dell'affermazione di una responsabilità a titolo di concorso c.d. esterno ex art. 110 c.p..


Il caso Andreotti

Il Tribunale di Palermo aveva assolto l'imputato da entrambe le imputazioni (di associazione per delinquere sino al 28 settembre 1982, di associazione di tipo mafioso per il periodo successivo) ai sensi del comma 2 dell'art. 530 c.p.p., avendo ritenuto carenti o contraddittorie le relative prove.

La sentenza è stata impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, che ne hanno chiesto la riforma con affermazione della responsabilità dell'imputato.

La Corte di Appello ha riformato la statuizione relativa al primo periodo (antecedente al 1980), applicando la prescrizione perché ha ritenuto che l'imputato avesse in tale periodo partecipato (ndr in concorso esterno) al sodalizio criminoso, mentre ha confermato la statuizione assolutoria per quello successivo.

La Cassazione con la sentenza del 15 ottobre 2004 n. 49691 rigetta il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo e dell'imputato e condanna quest'ultimo al pagamento delle spese processuali.

La suprema Corte stabilisce che:

1) la "partecipazione" all'associazione criminosa si sostanzia nella volontà dei suoi vertici di includervi il soggetto e nell'impegno assunto da costui di contribuirne alla vita attraverso una condotta a forma libera, ma in ogni caso tale da costituire un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all'esistenza o al rafforzamento del sodalizio;

2) in mancanza dell'inserimento formale nel sodalizio, è soltanto la prestazione di "contributi reali" che rende concreta ed effettiva, e non meramente teorica, la disponibilità e nel contempo ne materializza la prova.

Secondo la suprema Corte la costruzione giuridica della Corte territoriale di Palermo resiste al vaglio di legittimità perché essa ha interpretato i fatti di cui è processo: Andreotti, facendo leva sulla sua posizione di uomo politico di punta soprattutto a livello governativo, avrebbe manifestato la propria disponibilità - sollecitata o accettata da Cosa Nostra - a compiere interventi in armonia con le finalità del sodalizio ricevendone in cambio la promessa, almeno parzialmente mantenuta, di sostegno elettorale alla sua corrente e di eventuali interventi di altro genere.

La sentenza della Corte di Appello ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi della mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una "concreta collaborazione", sviluppatasi anche attraverso l'opera di Lima, dei Salvo e di Ciancimino, oltre che nella ritenuta interazione con i vertici del sodalizio (il riferimento è alla questione Mattarella), oltre che alla rinunzia a denunciare i fatti gravi di cui era venuto a conoscenza.

Più analiticamente, la Corte territoriale ha affermato che il sen. Andreotti aveva avuto piena consapevolezza che i suoi referenti siciliani (Lima, i Salvo e poi anche Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli aveva, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; che aveva loro chiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essi; che aveva loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire ad ottenere, in definitiva, che le stesse indicazioni venissero seguite; che aveva conquistato la loro fiducia tanto da discutere insieme anche di fatti gravissimi (come appunto l'assassinio del Presidente Mattarella), nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati, che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all'omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza.

In merito al concetto di disponibilità, la Corte specifica che la stessa deve trovare concreta estrinsecazione attraverso comportamenti specifici: in mancanza di un'affiliazione rituale, con conseguente assunzione formale della qualifica di "uomo d'onore", è solo attraverso la prestazione di un contributo concreto al sodalizio associativo che si materializza e si manifesta anche all'esterno la prova della relativa partecipazione.

Bisogna, cioè, che l'agente tenga un comportamento funzionale al sodalizio, fornendogli un contributo che può anche essere minimo e di qualsiasi forma e contenuto, ma che deve essere effettivo e provato.

Riguardo al problema della "estrinsecazione dei comportamenti specifici", la Corte territoriale, nell'affermare la sussistenza del reato associativo, aveva valutato non determinante il deficit probatorio in ordine a specifici e concreti interventi agevolativi degli interessi dell'associazione mafiosa da parte dell'imputato, essendo sufficiente la consapevole instaurazione, non senza personale tornaconto, di una relazione stabile con il sodalizio e l'apprestamento di un contributo rafforzativo attraverso la manifestazione di disponibilità verso i mafiosi.

Al di là, quindi, di specifici contributi (che poi non furono provati) si afferma che può costituire "concreto contributo punibile" anche la semplice relazione stabile con il sodalizio.

E per usare le parole della Corte di Appello, il reato era integrato trattandosi di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all'ambiente siciliano, il quale, nell'arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di un'organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell'Isola:

a) aveva chiesto e ottenuto, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli;

b) aveva incontrato ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione;

c) aveva intrattenuto con essi relazioni amichevoli, rafforzandone l'influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti;

d) aveva palesato autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso;

e) aveva indicato ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discusso con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati;

f) aveva omesso di denunciare elementi utilità far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui era venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi;

g) aveva dato, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici – e non meramente fittizi - di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale.

In definitiva, una serie di comportamenti (anche non penalmente rilevanti, se singolarmente considerati) protratti nel tempo che inducevano gli affiliati a pensare di essere protetti al più alto livello. Questi comportamenti possono costituire un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all'esistenza o al rafforzamento del sodalizio.

E a questo punto, in tema di prova, potremmo richiamare quanto detto sopra a proposito della sentenza della Cassazione del 2005 (caso Mannino): detta prova sussisterebbe se all'esito della verifica probatoria ex post della efficacia causale degli impegni assunti dal politico risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli stessi impegni abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé, e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali.

A livello normativo non si può dimenticare l'esistenza di un raccordo tra "libero convincimento del giudice" e "l'obbligo di motivazione", messo in risalto dalla correlazione tra la norma di cui all'art. 192 c. I° e quella di cui all'art. 546 lett. e) c.p.p, che richiede che la sentenza contenga, tra l'altro, l'indicazione delle prove poste a base della decisione e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie.

Ma perché la motivazione del giudice possa assolvere adeguatamente al proprio scopo essa deve tenere conto di altro principio cardine del nostro Ordinamento penale che è quello della valutazione unitaria delle complessive emergenze processuali; in tal senso cfr. Cass. Sez. VI Sent. 10642 del 03/11/92:"Ai sensi dell'art. 192 cod. proc. pen. non può dirsi adempiuto l'onere della motivazione ove il giudice si limiti ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi probatori, senza pervenire a quella valutazione unitaria della prova, che è principio cardine del processo penale, perchè sintesi di tutti i canoni interpretativi dettati dalla norma stessa". (Nella specie la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata sul rilievo che il giudice di merito aveva isolatamente considerato gli indizi a carico dell'imputato senza considerare la loro eventuale valenza complessiva nell'ambito della successione degli eventi e del collegamento con altri imputati).

L'accertamento dei fatti è quindi il risultato ultimo cui deve tendere il giudizio penale in una analisi dei risultati probatori che deve essere globale e critica.

Per quanto concerne la prova c.d. logico-critica il legislatore ha espressamente posto all'art. 192 secondo comma, con una formula mutuata dall'art. 2729 del cod. civile, la regola secondo cui "l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti".

A tal proposito si consideri la seguente sentenza:

"L'art. 192 comma secondo nuovo cod. proc. pen. riconosce formalmente la validità probatoria degli indizi, quando siano gravi, precisi e concordanti. Gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e, quindi attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile, perciò non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi. Quando hanno queste caratteristiche gli indizi possono costituire prova di un fatto, se valutati nel loro complesso e in logica coordinazione"(Cass. Sez. 1- Sent. n. 03499 del 27/03/1991).

Il caso Contrada

In sintesi, la vicenda si snoda:

1) con sentenza del 5 aprile 1996 n. 338, il tribunale di Palermo condannò Bruno Contrada alla pena di dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione di stampo mafioso (articoli 110, 416 e 416 bis del codice penale). In particolare, il tribunale lo ritenne colpevole di avere, tra il 1979 e il 1988, in qualità di funzionario di polizia poi di capo di gabinetto dell'alto commissario per la lotta alla mafia e di vicedirettore dei servizi segreti civili (SISDE), apportato sistematicamente un contributo alle attività e al perseguimento degli scopi illeciti dell'associazione mafiosa denominata «Cosa nostra». Il 1 gennaio 1997 il ricorrente interpose appello.

2) con sentenza del 4 maggio 2001, la corte d'appello di Palermo assolse il ricorrente perché il fatto non sussiste. (le prove prese in considerazione non fossero determinanti) Il procuratore generale della Repubblica propose ricorso per cassazione.

3) con sentenza del 12 dicembre 2002, la Corte di cassazione annullò la sentenza della corte d'appello di Palermo e rinviò la causa ad altra sezione di questa stessa corte.

4) con sentenza del 25 febbraio 2006, una diversa sezione della corte d'appello di Palermo confermò il contenuto della sentenza del tribunale di Palermo del 5 aprile 1996. In particolare essa fece valere che al momento della presentazione dell'appello, il 1° gennaio 1997, la Corte di cassazione si era pronunciata due volte a sezione unite nel senso dell'esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso in particolare nelle sentenze Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994 e Mannino, n. 30 del 27/09/1995, e che questa posizione fu confermata nelle due sentenze intervenute successivamente in materia ossia, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio 2005). Il ricorrente propose ricorso per cassazione.

5) con sentenza depositata l'8 gennaio 2008, la Corte di cassazione respinse il ricorso del ricorrente.

Varie le richieste di revisione del processo presentate dalla difesa di Bruno Contrada, l'ultima delle quali presentata a seguito della sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo (14 aprile 2015 - Ricorso n. 66655/13) ha stabilito che il loro assistito non poteva essere condannato per concorso esterno in quanto si tratta di un'accusa non prevista come reato nel periodo contestato. La Corte d'Appello di Caltanissetta ha respinto in data 18 novembre 2015 tale richiesta di revisione del processo all'ex funzionario del Sisde.

Prima della sentenza Demitry del 5 ottobre 1994 la giurisprudenza aveva oscillato tra l'esclusione e il riconoscimento del concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso.

In data 4 luglio 2008, invocando l'articolo 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo, Bruno Contrada adisce alla Corte europea dei diritti dell'uomo sostenendo che il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso è il risultato di una evoluzione giurisprudenziale "posteriore" all'epoca dei fatti per i quali è stato condannato. Perciò, tenuto conto delle divergenze giurisprudenziali sull'esistenza di detto reato, non avrebbe potuto prevedere con precisione la qualificazione giuridica dei fatti che gli erano ascritti e, di conseguenza, la pena che sanzionava le sue condotte. In sostanza denunciava la violazione del principio di irretroattività della norma penale (cosa, peraltro, che Contrada aveva invocato sia dopo il giudizio di primo grado del tribunale di Palermo sia dopo la sentenza di secondo grado della Corte d'appello di Palermo). Lo stesso ha sostenuto in particolare che, all'epoca dei fatti di causa, l'applicazione della legge penale relativa al concorso in associazione di tipo mafioso non fosse prevedibile in quanto era il risultato di una evoluzione giurisprudenziale successiva.

Il governo solleva tre obiezioni riguardo la ricevibilità del ricorso, ma la Corte lo dichiara ricevibile.

Si consideri il contenuto dell'articolo 7 - Nulla poena sine lege - della Convenzione CEDU:

«1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili».

In sintesi, la Corte sostiene che la garanzia sancita all'articolo 7 (elemento essenziale dello stato di diritto), occupa un posto preminente nel sistema di protezione della Convenzione, come sottolineato dal fatto che non è permessa alcuna deroga ad essa ai sensi dell'articolo 15 neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione. Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, essa dovrebbe essere interpretata e applicata in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie. L'articolo 7 della Convenzione non si limita a proibire l'applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell'imputato, esso sancisce anche, in maniera più generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene «nullum crimen, nulla poena sine lege». Se vieta in particolare di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, esso impone anche di non applicare la legge penale in modo estensivo a svantaggio dell'imputato, ad esempio per analogia. Di conseguenza la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l'assistenza dell'interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti.

Pertanto, il compito della Corte è, in particolare, quello di verificare che, nel momento in cui un imputato ha commesso l'atto che ha comportato l'esercizio dell'azione penale e la condanna, esistesse una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione. La Corte rammenta anche che non ha il compito di sostituirsi ai giudici nazionali nella valutazione e nella qualificazione giuridica dei fatti, purché queste si basino su un'analisi ragionevole degli elementi del fascicolo. Più in generale, la Corte rammenta che sono in primo luogo le autorità nazionali, in particolare le corti e i tribunali, a dover interpretare la legislazione interna. Il suo ruolo si limita dunque a verificare la compatibilità con la Convenzione degli effetti di tale interpretazione.

La Corte ha ritenuto che la questione della causa Contrada fosse quella di stabilire se, all'epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso.

La Corte osserva anche che, nella sua sentenza del 25 febbraio 2006, la Corte d'Appello di Palermo, pronunciandosi sull'applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994, Mannino n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino n. 33748 del 17 luglio 2005, tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente.

La Corte fa presente, per di più, che la doglianza del ricorrente relativa alla violazione del principio della irretroattività e della prevedibilità della legge penale, sollevata dinanzi a tutti i gradi di giudizio, non è stata oggetto di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio l'esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell'ordinamento giuridico interno senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all'epoca dei fatti a lui ascritti.

In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry.

Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti

In definitiva, la Corte ritiene che questi elementi siano sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione. Vi è da aggiungere che l'art. 46 CEDU, relativo alla forza vincolante ed all'esecuzione delle sentenze, prevede che "Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti".

Si ricorda (vedi supra) che la Corte d'Appello di Caltanissetta ha respinto, in data 18 novembre 2015, la richiesta di revisione del processo presentata da Bruno Contrada proprio in forza della decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo.

Il punto è che non esiste in Italia un diritto penale di origine giurisprudenziale. Tuttavia, per usare le parole Corte europea per i diritti dell'uomo, il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry.

In realtà, il reato esisteva già prima per il semplice fatto che l'art 110 c.p. è norma generale con funzione di estensione della responsabilità penale esistente da quando è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 ottobre 1930, n. 251 il codice penale approvato con R.D. 19 ottobre 1930 n.1398, mentre il reato di cui all'art. 416-bis "associazione di tipo mafioso" è stato introdotto con la legge 13 settembre 1982, n. 646 c.d. Rognoni - La Torre, ed è in vigore dal 29/09/1982. I giudici avevano quindi la possibilità di applicare correttamente la legge sin dal 29/09/1982. Allo stesso modo, anche i cittadini avevano la possibilità teorica di comprendere una loro possibile responsabilità penale per il concorso (eventuale/esterno) nel nuovo reato di associazione di tipo mafioso.

Senonché, basterebbe constatare che dal 1982 al 1994 (per ben 12 anni) la giurisprudenza di merito e di legittimità non è riuscita a trovare una linea comune sulla configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso, per ragionevolmente affermare che un cittadino comune difficilmente poteva avere assoluta e certa consapevolezza dell'esistenza di una possibile responsabilità penale a titolo di concorso nel reato in questione.

In definitiva, se si ammette che l'elaborazione giurisprudenziale del reato è "certa" solo a partire dal 1994, tutti i fatti antecedenti non possono essere puniti con la fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 110-416 bis c.p.: da questo punto di vista si può affermare che nel caso Contrada vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione (nulla poena sine lege).

D'altra parte, sappiamo che l'ignoranza della legge penale non scusa, tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile. Si ritiene che l'errore nell'interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riconducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata.

Il vero problema è che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha considerato le decisioni della Cassazione riguardanti i casi "Demitry", "Carnevale", "Mannino", nella loro dimensione normativa legislativa considerando la nostra Suprema corte quasi un giudice-legislatore (rectius: un giudice che si ponga sul medesimo piano delle assemblee parlamentari). La questione in realtà è molto complessa perché riguarda il Rule of Law, dato che nei sistemi di common Law il giudice è anche fonte del diritto; lo è meno, come risaputo, col principio (continentale) di legalità, dato che nei sistemi di civil Law il giudice è fondamentalmente un applicatore di diritto legislativo. Considerato che la Corte europea è costruita sul modello del giudice di common Law, occorrerebbe verificare quantomeno se ciò sia compatibile col sistema vigente, ovvero debba comportare una ridefinizione del principio di legalità valido in ambito nazionale o, ancora, mettere in crisi la relazione stessa tra diritto legislativo statale e diritto sovranazionale CEDU.

Ammesso e non concesso che la fattispecie di reato può essere anche estratta da una base legislativa solo iniziale e successivamente completata da una giurisprudenza integrativa, purchè stabile e risalente, il tutto non sembra collocarsi troppo distante dal concetto di «ignoranza incolpevole» della legge penale di cui ragionava la Corte costituzionale nella sentenza n. 364 del 23-24 marzo 198850 (cfr. La certezza in palio: Un Diritto (penale) per (ogni) Contrada?- Antonio Riviezzo - 14 ottobre 2015).

Ma tornando al caso concreto, è un dato di fatto che al momento in cui vennero commessi i fatti ascritti a Contrada (1979-1988), vi era incertezza circa la configurabilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso: un soggetto prudente si sarebbe quantomeno astenuto dal mettere in atto comportamenti di agevolazione di associazioni di tipo mafioso per paura di subire una condanna penale. Fino a che punto la "stessa incertezza interpretativa" doveva mettere in allarme un qualsiasi cittadino, non è facile a stabilirsi anche perché, più correttamente, occorrerebbe valutare le conoscenze e competenze giuridiche di quel particolare cittadino. In altre parole, vi può essere una responsabilità penale se a fronte di una incertezza interpretativa si accetta il rischio di tenere una determinata condotta?

Vi è da aggiungere che, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre che istituisce il reato in questione, vi era già l'art. 416 c.p. di associazione per delinquere e l'applicazione del concorso eventuale ex art 110 c.p. non era messo in discussione. A tal proposito a pag. 822 e 823 della sentenza di primo grado n. 388/1996, i giudici affermando che:

1) l'illecita condotta dell'imputato è iniziata sin dalla seconda metà degli anni settanta permanendo oltre il 1982 e fino ad epoca recente e, quindi, sotto l'imperio della legge del Settembre 1982 che ha introdotto la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 416 bis c.p.;

2) in ordine al divieto del "ne bis in idem" sostanziale che preclude l'applicazione di entrambe le fattispecie di reato contestate in relazione ad una condotta sostanzialmente unitaria, la fattispecie di reato meno grave (p.e p. dagli artt. 110 e 416 c.p.) deve ritenersi assorbita in quella più grave (p.e p. dagli artt. 110 e 416 bis c.p.).

La condotta tenuta dall'imputato, avrebbe comunque configurato il concorso eventuale ex art 110 c.p, nel reato di associazione a delinquere ex art 416 c.p. per i fatti commessi prima del 29/08/1982. (Più o meno come è stato affermato nel caso Andreotti).

Si può concludere che la questione è molto più complessa di quella che appare: vi è in gioco il principio di legalità, la riserva di legge e di giurisdizione, il difficile equilibrio tra il diritto interno e il diritto internazionale, la competizione tra common law e civil law. Non è solo una questione di diritto penale, ma di diritto costituzionale innanzitutto. Si verifica una sempre maggiore importanza delle sentenze che, grazie all'influenza del diritto del common law, tendono ad autopromuoversi quali fonti del diritto e ci fanno scivolare verso per il principio dello stare decisis.

Nel caso specifico, siamo in presenza di una situazione paradossale:

Ø applicando il più garantista principio di legalità basato sulle norme esistenti, il concorso eventuale (c.d. esterno) in associazione di tipo mafioso è perfettamente integrato a carico del reo, con la conseguenza che questi ne risulta penalizzato;

Ø applicando il meno garantista principio dell'elaborazione giurisprudenziale, il concorso eventuale in associazione di tipo mafioso non si configura almeno fino al 1994 (data della famosa sentenza Demitry) con la conseguenza di essere più favorevole al reo.

Conoscere dei mafiosi, frequentarli, adoperarsi per fargli qualche favore personale (quale ad es. interessarsi per il disbrigo delle pratiche atte a conseguire la patente di guida o il porto d'armi), non costituisce certamente condotta penalmente rilevante ex art 110 c.p.. L'indeterminatezza della questione deriva sia dalla formula usata dal legislatore nel predetto articolo "Quando più persone concorrono nel medesimo reato", sia dalle parole usate per introdurre il reato di associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416-bis o meglio dalla difficoltà concreta di individuare condotte che, anche se svolte da persone "esterne" all'associazione, possono considerarsi "medesimo reato".

Informare i mafiosi delle indagini in corso, avvertirli preventivamente nel caso di mandati di cattura al fine di procurargli la fuga, intimidire dei testimoni affinché questi non parlino di fatti che possano nuocere all'associazione mafiosa, contravvenire ai propri doveri d'ufficio di denuncia di fatti penalmente rilevanti, camuffare, dissimulare o il semplice omettere di fare quanto è lecito aspettarsi da un soggetto con una certa posizione giuridica, per un lasso di tempo prolungato, è certamente da considerare un contributo concreto.

Il caso Dell'Utri

La vicenda giudiziaria si riassume nelle seguenti date:

1) l'11/12/2004 la sentenza di primo grado

2) il 29/06/2010 la sentenza di secondo grado

3) il 09/03/2012 l'annullamento da parte della Cassazione della sentenza di appello

4) il 25/03/2013 la seconda sentenza della Corte d'appello

5) il 09/05/2014 la conferma in Cassazione della sentenza del 25/03/2013

In data 11 dicembre 2004 il Tribunale di Palermo emetteva sentenza nei confronti degli imputati Dell'Utri Marcello, a piede libero, e Cinà Gaetano, in stato di custodia cautelare in carcere, per i reati loro contestati come in rubrica. In particolare del delitto di cui agli artt. 110 e 416 commi 1, 4 e 5 c.p., per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "cosa nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982 e del delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p., per le stesse condotte, dal 28.9.1982 alla data del processo di primo grado.

Secondo i giudici di primo grado l'imputato aveva avuto rapporti con "cosa nostra" e in particolare sia con Cinà Gaetano che con il Mangano Vittorio, nel frattempo assurto alla guida dell'importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che "Cosa Nostra" percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall'azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l'organizzazione mafiosa ed il gruppo Fininvest (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella "vicenda Garraffa") e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario.

Proseguendo si dice che, la pluralità dell'attività posta in essere, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di "cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l'opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell'Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato sensu, politici.

In data 25/03/2013 la Corte d'Appello di Palermo, riteneva sussistenti l'elemento oggettivo e soggettivo del reato contestato a Marcello Dell'Utri con riferimento al periodo 1978-1982.

A pag. 451 si legge: «Ed invero a seguito della sentenza della Corte di Cassazione (con riguardo al periodo 1974-1977) era stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a "cosa nostra" per ricevere in cambio protezione. Tale accordo era stato raggiunto proprio in virtù dell'opera di mediazione svolta da Dell'Utri — che aveva fatto ricorso a Gaetano Cinà - tra l'associazione mafiosa e Berlusconi».

L'assunzione di Vittorio Mangano (all'epoca dei fatti affiliato alla "famiglia" mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974 costituiva l'espressione dell'accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell'Utri, tra gli esponenti palermitani di "cosa nostra" e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all'interno della villa di quest'ultimo

Svolgendo detta attività di mediazione, Dell'Utri, che aveva contatti diretti non solo con l'amico Cinà, ma anche con i boss Teresi e Bontade e anche con Vittorio Mangano (che lui aveva segnalato per farlo assumere ad Arcore), aveva contribuito con assoluta consapevolezza e volontà al rafforzamento dell'associazione mafiosa; quest'ultima, con la costante opera di mediazione di Dell'Utri, aveva realizzato il proprio programma economico essendo entrata in contatto con l'imprenditore Berlusconi dal quale riceveva cospicue somme di denaro.

In data 09/05/2014 la corte di Cassazione afferma che assume le vesti di concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminosa della medesima.

Ed ancora, che la rilevanza e la tipicità della condotte del soggetto "esterno", dotate delle caratteristiche ora indicate, é delimitata dalla funzione incriminatrice dell'art. 110 c.p. che combina la clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato. Ciò postula che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato. E' necessario, quindi, per un verso, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi. Per altro verso occorre che il contributo atipico del concorrente esterno (sia esso di natura materiale o morale), diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell'evento lesivo del bene giuridico protetto, costituito, nella specie, dall'integrità dell'ordine pubblico, violata dall'esistenza e dall'operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso.

La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell'evento lesivo del "medesimo reato". Pertanto il concorrente esterno, pur sprovvisto dell'affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell'associazione, deve essere consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell'efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell'associazione.

Secondo la Cassazione, la Corte d'Appello di Palermo ha correttamente applicato i principi illustrati dalla stessa corte, dopo un accertamento condotto ex post: difatti, dopo avere descritto le specifiche condotte poste in essere da Marcello Dell'Utri nel periodo1978-1982, ha ricostruito l'effettivo nesso condizionalistico tra le stesse e il fatto di reato storicamente verificatosi nelle sue caratteristiche essenziali sia in positivo che mediante l'operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica dell'imputato quale concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura, generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica.

Il caso Cuffaro

Il caso Cuffaro è interessante per capire cosa (in punto di diritto) non costituisce condotta penalmente punibile per concorso esterno in associazione di tipo mafioso e quando scatta la preclusione processuale del "ne bis in idem".

Il procedimento — instaurato a seguito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo in merito alle dichiarazioni rese, a decorrere dal mese di giugno 2002, dal collaboratore Giuffré Antonino, capo mandamento di Caccamo e componente effettivo della Commissione Provinciale di Cosa Nostra, arrestato il precedente 16 aprile 2002 — riguarda fatti attinenti:

1) innanzitutto, a plurimi episodi di propalazioni di notizie riservate in merito alle indagini dirette alla cattura dei due più importanti esponenti dell'associazione mafiosa Cosa Nostra, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, che hanno coinvolto sia infedeli servitori dello Stato sia esponenti politici, tra cui Cuffaro;

2) successivamente, ad indagini concernenti la posizione dell'imprenditore Aiello Michele sia con riferimento alla sua partecipazione all'associazione mafiosa e a rapporti con infedeli servitori dello Stato, sia con riferimento a fatti-reato commessi con danno per la sanità siciliana per decine di miliardi di lire per avere l'Aiello ottenuto, quale proprietario di due società esercenti in Bagheria terapia radio-oncologica di alta tecnologia, rimborsi non dovuti, indagini che hanno coinvolto anche funzionari e impiegati dell'A.U.S.L. di Palermo.

Si procedeva nei confronti di Cuffaro:

a) per il delitto di cui agli artt. 110 e 378 c.p.[11] , per avere aiutato Aiello, che sapeva sottoposto ad indagini per più ipotesi delittuose, a eludere le investigazioni, informandolo di notizie riservate;

b) per il delitto di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 326 c.p.[12] per avere - con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso in concorso con altri soggetti ignoti, rivelato ad Aiello e altri, notizie che dovevano restare segrete perché concernenti i procedimenti e le attività di investigazione in corso nei confronti degli stessi soggetti destinatari delle fughe di notizie.

Il 18 gennaio 2008 nel processo di primo grado per le "talpe' alla Dda" di Palermo, Cuffaro Salvatore viene dichiarato colpevole dei reati ascrittigli, unificati sotto il vincolo della continuazione. La pena è di 5 anni di reclusione nonché all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La sentenza veniva impugnata (sentenza n. 187).

Il 23 gennaio 2010 la Corte d'Appello di Palermo riteneva nei confronti di Cuffaro, in relazione ai reati di cui ai capi P e Q (capi d'imputazione nel processo di primo grado per i quali era stata inizialmente esclusa la continuazione interna e l'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. 152/2011[13]) la sussistenza della suddetta circostanza aggravante, così come originariamente contestata, per cui elevava la pena inflitta ad anni sette di reclusione (sentenza n. 189)

Il 21 gennaio 2011 con la sentenza 15583 la Cassazione rigetta il ricorso (che si articola in dodici motivi del 5/6/2010, più un motivo ulteriore del 7/6/2010, ad integrazione dei precedenti tre motivi nuovi del 23/12/2010 e cinque motivi nuovi del 30/12/2010) proposto da Cuffaro avverso la menzionata sentenza della Corte di Appello di Palermo del 23 gennaio 2010 (la sentenza di appello diviene irrevocabile).

Occorre fare un passo indietro per dire che in origine il Cuffaro era stato iscritto nel registro degli indagati della Procura della Repubblica di Palermo nell'ambito del procedimento n. 2358/99 con l'accusa di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso.

Il 16 marzo 2005 i magistrati requirenti richiedevano l'archiviazione del suddetto procedimento dando atto di avere iniziato nei confronti del Cuffaro (e di altre persone) un diverso procedimento penale con la accusa di rivelazione di segreti di ufficio e favoreggiamento personale aggravato ex art. 7 di cui alla legge 203/91.

Il 21 maggio 2007, su richiesta del medesimo ufficio di Procura, era stata però autorizzata dal G.I.P., ai sensi dell'art. 414 c.p.p., la riapertura delle indagini, in esito alle quali, con richiesta depositata il 20 novembre 2009, era stata poi esercitata l'azione penale nei confronti del Cuffaro in ordine all'imputazione di concorso esterno nell'associazione mafiosa "cosa nostra".

Il 28 giugno 2010 i pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene hanno chiesto la condanna a 10 anni di reclusione per Cuffaro, imputato con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa in un altro processo con rito abbreviato noto come «Cuffaro bis». Tra le vicende al centro di questo ulteriore processo, quella delle candidature di Mimmo Miceli e Giuseppe Acanto, detto Piero, nelle liste del Cdu e del Biancofiore alle elezioni regionali del 2001. Entrambi, secondo l'accusa, furono sponsorizzati da Cosa nostra e Cuffaro per questo motivo li accettò come candidati nelle liste a lui collegate.

Il 16 febbraio 2011 il GUP al termine del rito abbreviato del secondo processo di Cuffaro, per concorso esterno in associazione mafiosa, emette il non luogo a procedere nei confronti dell'ex Presidente della Regione Siciliana perché per gli stessi reati è già stato giudicato. La decisione è impugnata dalla Procura della Repubblica.

Il 20 giugno 2012, la Corte di Appello di Palermo conferma la decisione del GUP e assolve Cuffaro per "ne bis in idem".

Nonostante ciò, la Procura ricorre in Cassazione, dove, per la terza volte su tre gradi di giudizio, viene affermata la sussistenza del "ne bis in idem", con il conseguente proscioglimento di Salvatore Cuffaro.

La Procura sosteneva che la Corte d'Appello avesse affermato l'esistenza della preclusione processuale derivante dal "ne bis in idem" in un'ipotesi di concorso formale eterogeneo di reati sul solo presupposto dell'identità delle fonti probatorie e una parziale coincidenza delle contestazioni mosse nei capi di imputazione, senza adeguatamente apprezzare l'esistenza di una ontologica diversità delle fattispecie di reato contestate. L'ufficio ricorrente poneva in particolare evidenza come tra il reato di favoreggiamento aggravato dall'art. 7 1egge 203/91 (oggetto dell'imputazione mossa al Cuffaro nel c.d. processo "Talpe" definito con sentenza 15583/2011 della Corte di cassazione) e quello di cui agli artt. 110, 416 bis cp, oggetto di contestazione nella presente sede, pur nella sostanziale identità delle prove, e pur essendo manifestazione di un'ipotesi di concorso formale eterogeneo, intercorrono differenze sostanziali per le quali il giudicato dell'uno non può estendere effetti preclusivi sull'accertamento penale dell'altro. La Procura Generale, a dimostrazione della "diversità" del fatto oggetto di addebito in questa sede rispetto a quello già giudicato, mette ancora in evidenza la non coincidenza del tempsu commissi delicti.

In definitiva, il ricorrente ritiene che la preclusione ex art. 649 c.p.p.[14] si manifesta solo nel caso in cui i fatti contestati nei due diversi procedimenti penali presentino caratteristiche di medesimezza nel senso che devono essere identici la condotta, l'evento e il nesso di casualità da relazionarsi a medesime condizioni di tempo, di luogo, di persona. Nel caso di specie i fatti contestati nei due diversi procedimenti presentano differenze oggettive e tali da non potersi ritenere che ricorra l'applicazione dell'art. 649 c.p.p..

In data 21 marzo 2013 con sentenza n. 18376 la Cassazione stabilisce che:

1) in primo luogo, sul piano ermeneutico, nell'alternativa se per "medesimo fatto" (espressione testualmente adoperata dal legislatore nell'art, 649 c.p.p.) si debba intendere l'idem factum o l'idem legale, va osservato che l'opzione privilegiata nella giurisprudenza di legittimità, è quella c.d. storico-naturalistica (idem fàctum) in base alla quale la preclusione prevista dall'art. 649 c.p.p. opera nella sola ipotesi in cui vi sia (nelle imputazioni formulate in due diversi processi, nei confronti della medesima persona) corrispondenza biunivoca fra gli elementi costitutivi dei reati descritti nelle rispettive contestazioni (condotta, evento, nesso causale) che vanno riguardate anche con riferimento alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass. Sez. V L7.2010 n. 28548; Cass. Sez. IV 20.1.2006 n. 15578; Cass. SU 28.6.2005 n. 34655).

E' legittima la prospettazione della "diversità" del fatto anche in ipotesi di concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza che una persona giudicata per un reato ben può essere sottoposta ad un successivo giudizio per l'ulteriore e diverso reato contestualmente commesso con il primo (Cass. Sez. I 24.1.1995 n. 3354).

2) in secondo luogo, nella perimetrazione del concetto di "fatto" giudicato (ex art. 649 c.p.p.) esso non coincide (secondo criteri puramente formali) solo con quanto descritto nel capo di imputazione, ma conformemente al principio della contestazione sostanziale, il "fatto" (oggetto del giudizio) ricomprende tutti quegli aspetti che, nella progressione della vicenda processuale, sono stati via via oggetto di contestazione e di puntualizzazione della originaria accusa che risulta così compiuta attraverso atti diversi e successivi rispetto a quelli tipicamente preposti a tal fine [v. In tal senso Cass. Sez. 119.9.1995 n. 10684].

Il "fatto" giudicato, va considerato non solo sotto il profilo della sua "materialità storica", ma anche con riferimento alla ritenuta "qualificazione giuridica" conferitagli nel giudizio, con la conseguenza che anche quest'ultima è oggetto di "giudicato"; tale considerazione è il necessario corollario derivante dall'ultima parte del primo comma dell'art. 649 c.p.p. ove è prevista la preclusione del "ne bis in idem" quando il medesimo fatto sia oggetto di un secondo giudizio per un "diverso" titolo.

In definitiva, la Cassazione conclude che la preclusione ex art. 649 c.p.p. ricorre ogni qualvolta il "fatto" oggetto di contestazione sostanziale (comprensivo di tutti gli elementi strutturali del reato: condotta evento, nesso causale, circostanze di tempo e di luogo), nei due diversi procedimenti penali, promossi contro la stessa persona, presenta caratteri di identità nei suoi elementi costitutivi, sì che, indipendentemente dal nomen iuris attribuito, i contenuti delle due diverse contestazioni sono pienamente sovrapponibili.

Nel caso in specie, la Procura della Repubblica censura la decisione dei giudici di merito affermando che:

1) sarebbero rinvenibili, nelle imputazioni formulate nei due processi, differenze sostanziali determinate da diversità spazio/temporali dei fatti ascritti;

2) sarebbero rinvenibili differenze nel "contenuto delle contestazioni" e che taluni degli "episodi" relativi al delitto di cui all'art. 416 bis c.p. (secondo la formulazione dell'imputazione riportata nell'epigrafe della presente decisione) non sarebbero mai stati contestati.

Entrambe le affermazioni non vengono ritenute fondate dalla Cassazione. La prima viene ritenuta del tutto generica, la seconda non è ritenuta conforme alle risultanze processuali illustrate nelle decisioni di merito: i fatti addebitati vengono in toto richiamati dalla sentenza della Corte d'Appello che le ha recepite, quindi le accuse "sostanziali" sostenute nei due diversi processi vengono a sovrapporsi.

La terza questione di diritto posta dalla Procura riguardava la tesi che l'inammissibilità di un secondo giudizio non preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso fatto - reato. La premessa è ritenuta corretta dalla Cassazione che, tuttavia, evidenzia come dalla lettura integrata delle sentenze di merito emerge che è stata fatta la ricostruzione comparativa fra le due diverse imputazioni ed è stato accertato che i fatti integranti i delitti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento aggravati (processo talpe) non sono prove dell'ulteriore e diverso delitto di cui agli artt. 110, 416 bis c.p., ma sono i medesimi fatti, solo diversamente qualificati.

Nel caso in esame, il Cuffaro ha compiuto atti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento personale aggravati ex art. 7 1egge 203/91, non solo nell'interesse di singoli soggetti (collocati in posizione di rilievo) aderenti ad associazione mafiosa, ma anche al fine di agevolare l'attività dell'organizzazione mafiosa "cosa nostra". Il Cuffaro ha agito favorendo persone che, in quanto aderenti all'associazione mafiosa "cosa nostra", stavano compiendo il delitto di cui all'art. 416 bis c.p.; di qui consegue che in virtù del limite posto dal testo dell'art. 378 c.p. (fuori dei casi di concorso), lo stesso Cuffaro non può più essere ritenuto, nel contempo favoreggiatore di coloro che violano l'art. 416 bis c.p. e concorrente esterno nel medesimo delitto associativo.

E' necessario che l'azione del c.d. favoreggiatore non si traduca in un atto di sostegno o di incoraggiamento alla prosecuzione dell'attività delittuosa da parte del favorito, perché in tal caso la condotta integrerebbe non già la violazione dell'art. 378 c.p., ma quella di partecipazione al delitto associativo.

Le due diverse accuse sono fra loro incompatibili, per cui la loro coesistenza è illegittima.

Dato per scontato che l'art. 378 c.p. è una disposizione giuridicamente incompatibile con il concorso con il reato presupposto commesso dal soggetto che viene favorito, si deve allora esaminare se la condotta di favoreggiamento personale dispiegata dal Cuffaro a vantaggio di alcuni soggetti mafiosi ed anche nell'interesse dell'intero sodalizio, abbia esaurito l'intero disvalore penale nei termini statuiti con l'accertamento dibattimentale oramai irrevocabile, ovvero se questa stessa condotta, valutata unitamente al contesto di relazioni e rapporti intrattenuti nel tempo dal Cuffaro nel corso della sua carriera politica, possa essere emblematica (anche) di un comportamento "più radicato" (sintetizzabile nel paradigma dell'accordo politico mafioso instaurato con la consorteria criminale), cioè se tale condotta possa comportare un effetto giuridico ulteriore in modo rilevante per l'integrazione (anche) dell'autonomo reato di concorso esterno nel reato associativo mafioso (sent. Corte di Appello 20 giugno 2012 n. 3824).

Il principio del ne bis in idem è previsto anche nell'articolo 4 del protocollo n. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo (entrata in vigore l'1 novembre 1988) che, con espressione equivalente a quella del vigente codice di rito, afferma: "Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato".

In ogni caso, per tornare all'oggetto principale del discorso ossia all'individuazione delle condotte che astrattamente possono configurare il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, nella sentenza del 20 giugno 2012, la Corte di Appello di Palermo confermando la decisione del GUP che assolveva Cuffaro per "ne bis in idem", affermava che nel c.d. "processo talpe" "non si è affatto dato atto dell'esistenza di un patto politico — mafioso o di scambio — elettorale nel quale il Cuffaro, in questa sorta di "partita a scacchi" giocata a distanza con il mafioso Guttadauro, ha assunto dei precisi impegni nell'interesse di "cosa nostra" o in favore di questo o quell'altro associato mafioso per soddisfare gli interessi riferibili alla consorteria, né, tanto meno, si è affermato che il predetto imputato si sia successivamente attivato per la realizzazione di quanto concordato in virtù di un simile progetto delittuoso, ma si è unicamente valutato questo inquietante, ma pur sempre circoscritto, fatto (vicenda relativa alla candidatura di Miceli Domenico alle elezioni regionali del 2001) per attribuirgli, unitamente a tutto il resto del coacervo probatorio, un valore di riscontro rispetto alla sussistenza del dolo specifico dell'aggravante dell'art. 7 della legge 203/91 riferita a dei fatti (questi sì assolutamente concreti) come quelli legati alle fughe di notizie investigative ed al favoreggiamento personale in favore del mafioso Guttadauro.

Il Cuffaro avrebbe favorito alcuni soggetti (mafiosi o concorrenti esterni) senza che tale iniziativa agevolasse al contempo anche l'organizzazione mafiosa.

Il GUP osservava che astrattamente al Cuffaro si sarebbe potuto contestare fin dall'inizio il reato di cui all'art. 110 e 416 bis c.p., così come la contestazione poteva essere modificata nel corso del dibattimento penale ex art. 516 c.p.p., ma certamente ciò che non risulta ammissibile è decidere nuovamente sulla stessa tematica accusatoria per attribuire adesso una diversa valutazione quanto al titolo del reato. Delle due l'una: o si agevola dall'esterno il sodalizio favorendo questo o quel sodale con una condotta tale da integrare il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.; ovvero si favorisce il mafioso agevolando al contempo l'organizzazione integrando il delitto aggravato di cui agli artt. 378 commi 1 e 2 c.p. e 7 Legge 203/91.


Approfondimenti

L'espressione "far parte" indica che il reato in questione è "a forma libera" e che pertanto la condotta del partecipe può assumere forme e contenuti diversi. Non basta la condivisione meramente psicologica del programma criminoso e delle relative metodiche, ma occorre anche una concreta assunzione di un ruolo materiale all'interno della struttura criminosa, manifestato da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla struttura e all'attività dell'organizzazione criminosa (in questo elemento si può cogliere la differenza con l'essere concorrente esterno). La condotta di partecipazione può assumere forme e contenuti diversi e variabili e consiste nel contributo, apprezzabile e concreto sul piano causale, all'esistenza e al rafforzamento dell'associazione. Non è necessario che ciascuno dei partecipanti utilizzi la forza di intimidazione né consegua direttamente, per sé o per altri, il profitto o il vantaggio da realizzare attraverso l'associazione.

Far parte dell'associazione significa, sul piano soggettivo, innanzitutto affectio societatis (volontà di essere soci), ma anche dare un consapevole contributo alla vita del sodalizio di cui si conosca le caratteristiche. I contributi che i singoli possono dare all'associazione possono essere i più disparati purché siano apprezzabili, concreti e diretti al mantenimento in vita o al rafforzamento dell'associazione. Va inteso che i contributi devono svilupparsi nel tempo nel senso che non sarebbe sufficiente la volontà di essere soci o un singolo contributo occasionale. Si è puniti per il solo fatto di partecipare ma non è richiesto che ogni singolo compia attività mafiosa come ad esempio la realizzazione di singoli delitti. Ciò che rileva ai fini penali è la situazione di fatto per cui un soggetto risulta affiliato (cioè il ruolo effettivamente svolto), non essendo necessario la prova della sua formale iniziazione.

Con la sentenza della Cassazione del 30 gennaio 1992 n. 6992 (maxi processo) si ribadisce quanto affermato dalla Corte di merito e cioè che la distinzione tra appartenenza e partecipazione pur teoricamente configurabile, è superata e ritenuta evanescente. Il concetto di "uomo d'onore", è significativo non già di una semplice adesione morale, ma addirittura, di una formale affiliazione alla cosca mercé apposito rito (la c.d. "legalizzazione"), della coeva ed assoluta accettazione delle regole dell'agire mafioso e della messa a disposizione del sodalizio di ogni energia o risorsa personale per qualsiasi, richiesto impiego criminale, nell'ambito delle finalità di quella. In ciò, va ravvisato non soltanto l'accertata appartenenza alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo cui l'associato viene ad appartenere anche sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole ed ai suoi comandi, ma anche la prova del contributo causale che, seppure mancante nel caso della semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece, nell'obbligo solenne di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca.

Sempre con riguardo all'elemento oggettivo occorre dire che il c.d. metodo mafioso, pur non essendo componente della condotta, è l'elemento caratterizzante il delitto e sostanzialmente si estrinseca in:

1) Forza di intimidazione

2) Assoggettamento e omertà

La forza di intimidazione di cui gli associati si avvalgono (c.d. "metodo mafioso") è data dalla capacita di incutere timore di gravi danni, senza che ciò comporti necessariamente la realizzazione di specifiche minacce o violenze. Questa deve essere usata concretamente nel senso che non è sufficiente che l'associazione abbia programmato di avvalersi di essa; inoltre, è sufficiente l'intimidazione indiretta tipo quella che si ottiene con frasi allusive o comportamenti che comunque sono in grado di suscitare una forma di sudditanza psicologica nei destinatari di essa che quindi ritengono il pericolo concreto ed ineludibile.

E' necessario che l'associazione abbia conseguito nell'ambiente circostante una reale capacità di intimidazione e che gli aderenti si siano avvalsi in modo effettivo di tale forza al fine di realizzare il loro programma criminoso. Ad esempio, se in una data determinata zona vari componenti il sodalizio criminale hanno realizzato numerose estorsioni, il metodo mafioso sussisterebbe qualora le vittime fossero convinte di essere esposte ad un ineludibile pericolo, anche in assenza di specifiche minacce e violenze nei singoli episodi. In tal caso, infatti, l'associazione criminale si avvarrebbe di una carica intimidatoria già acquisita nel tempo.

La condizione di assoggettamento[15] e quella di omertà, cumulate fra loro, devono entrambe essere conseguenza della forza di intimidazione del vincolo associativo. Non basta l'uso della violenza e della minaccia (tutte le associazioni criminali che se ne servissero diventerebbero di tipo mafioso) ma occorre che la forza intimidatrice crei nel territorio e nei confronti dei terzi una situazione di assoggettamento e di omertà.

L'omertà si sostanzia nel rifiuto di collaborare con organi dello Stato scaturente dalla paura di subire una danno alla integrità della persona o anche solo la paura dell'attuazione di minacce che possono comportare danni rilevanti (es. la perdita del lavoro, l'esclusione da una gara d'appalto a favore di altre imprese contigue all'associazione di tipo mafioso)

Per quanto riguarda, invece, la mera "promessa" del politico, essa non potrebbe esplicare una reale efficacia in termini di "rafforzamento" dell'associazione, in difetto della concreta esecuzione della prestazione pattuita. A ritenere diversamente, cioè che possa bastare un impegno seriamente assunto dal politico, si finirebbe inevitabilmente con l'ammettere che l'impegno del politico, di concedere benefici all'organizzazione, determinerebbe comunque un aumento del credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento e, nello stesso tempo, un accrescimento del senso di superiorità e del prestigio dei capi e del sentimento di fiducia dei partecipi.


Giurisprudenza


Differenza tra associazione per delinquere e concorso di persone

L'elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato va individuato nel carattere dell'accordo criminoso, che nel concorso di persone nel reato continuato si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati – anche nell'ambito di un medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei quali si esaurisce l'accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmata (Cass. Sez. II, Sent. n. 933/2014).

Differenza tra connivenza e concorso nel reato

La distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo – morale o materiale – alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito. Il concorso ex art. 110 cod. pen. esige infatti un contributo causale in termini, sia pur minimi, di facilitazione della condotta delittuosa, mentre la semplice conoscenza o anche l'adesione morale, l'assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la configurabilità del concorso nell'altrui illecita detenzione di stupefacente di un soggetto che si era limitato ad accompagnare un amico in treno, pur consapevole che quest'ultimo doveva acquistare droga) (Cass. Sez. IV, Sent. n. 4055/2014).

Caratteristiche dell'apporto

In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di "concorrente esterno" il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'"affectio societatis", fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come "condizione necessaria" per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala come "Cosa nostra", di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la misura cautelare emessa nei confronti dell'amministratore giudiziario di una società sottoposta a confisca di prevenzione, in quanto il "contributo esterno" non poteva desumersi solo dall'aver consentito al precedente titolare, aderente al sodalizio, di intromettersi nella gestione aziendale, senza verificare l'intenzionalità di tale comportamento e la sua incidenza causale sul contesto associativo) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 33885 del 18/06/2014).

In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, il rafforzamento del sodalizio, quale "evento del contributo" causale del concorrente, può consistere oltre che nell'incremento della potenza finanziaria della cosca, anche nel solo aumento del prestigio e dell'importanza di quest'ultima nell'ambito dei rapporti con le altre consorterie criminali, indipendentemente dai risultati economici conseguiti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17894 del 08/04/2014).

Dolo specifico

L'elemento soggettivo del delitto di associazione di tipo mafioso consiste nel dolo specifico, avente ad oggetto la prestazione di un contributo utile alla vita del sodalizio ed alla realizzazione dei suoi scopi, sia nel caso della partecipazione all'ente associativo che nel caso del cosiddetto "concorso esterno", così accomunando i responsabili nell'intenzione di commettere il "medesimo reato" secondo il postulato dell'art. 110 cod. pen. Il dolo del partecipe si distingue da quello del concorrente sotto il diverso profilo che il primo vuol fornire il descritto contributo dall'interno dell'associazione, mentre il secondo, in corrispondenza del carattere atipico di una condotta rilevante per effetto del citato art. 110, intende prestarlo senza far parte della compagine sociale (Cass. Sentenza n. 4043 del 25/11/2003).

Dolo generico

Ai fini della configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, non è richiesto per l'estraneo il dolo specifico proprio del partecipe (consistente nella consapevolezza di essere inserito nel sodalizio e nella volontà di far raggiungere allo stesso gli obiettivi che si è prefisso), bensì quello generico, rappresentato dalla coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato, del cui dolo tipico si è al corrente. (Fattispecie relativa alla condotta di imprenditore, che, essendo consapevole della appartenenza di alcuni soggetti ad una associazione mafiosa, aveva posto in essere una attività economica realizzata - di fatto - in società con costoro e con la piena consapevolezza della provenienza del denaro fornito dai suddetti) (Sez. 5, Sentenza n. 6929 del 22/12/2000).

Considerazioni conclusive

In sintesi, il concorso esterno in associazione di tipo mafioso sembra basarsi sui seguenti punti:

1) l'elemento oggettivo consiste nel dare un contributo morale o materiale idoneo al potenziamento ovvero al consolidamento o in generale al mantenimento dell'associazione. Il contributo deve, normalmente, essere episodico, deve riguardare l'intera organizzazione;

2) l'elemento soggettivo è dato dalla consapevolezza e dalla volontà di contribuire ad agevolare e rafforzare l'associazione. Non rileva il contributo dato perseguendo fini propri dell'agente, ma solo il contributo finalizzato ad aiutare l'organizzazione. Il concorrente deve "sapere" e "volere" che il suo contributo è diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio;

3) per sostenere che vi sia "concorso eventuale esterno" all'associazione mafiosa, occorre dimostrare che il contributo sia stato causale alla vita associativa nel senso che il contributo sia condizione necessaria dell'evento (condicio sine qua non) secondo un giudizio ex post (aiuto effettivamente prestato nel caso di "contributo episodico") oppure secondo un giudizio ex ante (aiuto potenziale che deriva da un "apporto stabilmente prestato").

Negli anni che ci separano dall'introduzione della fattispecie penale in materia di mafia[16], dottrina e giurisprudenza hanno fornito varie soluzioni al problema della delimitazione giuridica del concorso esterno all'organizzazione mafiosa di un soggetto. Come spesso accade in diritto, dopo un certo periodo di tempo si sono consolidate delle posizioni dominanti, che, di fatto, creano una sorta di diritto penale giurisprudenziale. Nel nostro sistema ciò è inaccettabile oltre che per ragioni di principio incorporate nel nullum crimen sine lege, anche per l'assenza di meccanismi ordinamentali in grado di assicurare stabilità e certezza applicativa ai precedenti giurisprudenziali. Nessuno, d'altra parte, potrebbe garantire che un diritto di origine giurisprudenziale sia migliore di un diritto di origine parlamentare.

L'articolo 416 bis del codice penale punisce chi fa parte di un'associazione di tipo mafioso, ma non si occupa di coloro che, pur non essendo membri a pieno titolo dell'organizzazione malavitosa, ne favoriscono o agevolano l'attività. Per questo motivo si è di fatto "creata" una nuova figura di reato, non prevista da una specifica norma di legge, quella di "concorso esterno in associazione di tipo mafioso", che appare in contrasto con il principio di tassatività della norma penale, che è uno dei cardini dello Stato di diritto, come ribadito anche in numerose sentenze della Corte costituzionale.

Dobbiamo accontentarci del combinato disposto di cui all'art. 110 c.p. e 416-bis, delle numerose sentenze di merito e di legittimità, nonché dei pareri della più autorevole dottrina, per capire i confini del concorso esterno in associazione di tipo mafioso.

Ma dobbiamo innanzitutto ricordarci che come insegna la nostra costituzione, "tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge", dove per "tutti" si intendono anche i mafiosi o coloro che con essi concorrono o che semplicemente li agevolano.


Note:

[1] Articolo introdotto con la legge 13 settembre 1982, n. 646 c.d. Rognoni - La Torre, in vigore dal 29/09/1982

[2]Art. 238-bis. c.p.p. Sentenze irrevocabili

1. Fermo quanto previsto dall'articolo 236, le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli articoli 187 e 192, comma 3.

[3]La forza di intimidazione deve promanare dal vincolo associativo in quanto tale e può manifestarsi, pur in assenza di concreti atti di minaccia o violenza, anche in forme subdole e diverse (cfr. Cass. sez. I 30/1/1985 - sez. I 13/6/1987- sez. II sent. n. 05386 del 10/05/1994).

Sul piano probatorio ciò comporta che, una volta accertata la rispondenza di un sodalizio criminoso al modello legale di cui all'art. 416 bis c.p. non è indispensabile provare che i singoli affiliati diano concreta esecuzione ad atti diretti ad intimidire essendo necessario e sufficiente dimostrare oggettivamente il clima di intimidazione diffusa scaturente dall'associazione, del quale, come una sorta di " patrimonio comune" tutti i soci si avvantaggiano (cfr. Corte di Assise di Palermo 16/12/1987- Cass. sez. I 13/6/1987 - sez. I 6/4/1987).

[4] E' solo con la sentenza della Suprema Corte, Prima Sezione, del 25 ottobre 1983 (Arancio e altri) che si ha una prima "consacrazione giuridica" del concorso esterno nel reato associativo.

[5] Cfr. G. SPAGNOLO, L'associazione di tipo mafioso, cit., p. 138, secondo il quale "per fare parte di un'associazione non basta che il soggetto lo voglia (affectio societatis) e che metta a disposizione il suo contributo all'organizzazione. Il contributo spontaneo e unilaterale, o la promessa di darlo, sufficiente ad integrare il concorso eventuale di persone, non è sufficiente per diventare membro del sodalizio. Altro è offrirsi come socio, altro esserlo diventato. Per "far parte" dell'associazione è necessario che questa, tramite i suoi organi, abbia accettato il soggetto come socio, o comunque gli abbia riconosciuto, per facta concludentia, tale qualità".

[6]Cass. Sez. U, Sentenza 05 ottobre 1994 n. 16 (Demitry Giuseppe) "l'elemento soggettivo del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso è il dolo specifico, consistente "sia nella cosciente volontà di partecipare con il fine di realizzare il particolare programma che la associazione si è prefisso, sia nella permanente consapevolezza di ciascun associato di fare parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l'attuazione del comune programma con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa".

[7] Tale inserimento ben può prescindere da formalità o riti che lo ufficializzino potendo risultare "per facta concludentia" attraverso comportamenti che, sul piano sintomatico sottolineino la partecipazione alla vita dell'associazione.

[8] Art. 40. Rapporto di causalità

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.

[9] Investite della questione, le Sezioni Unite annullano senza rinvio la sentenza d'appello, ritenendo inutilizzabili, ex art. 191 c.p.p., le testimonianze degli altri magistrati membri della Prima Sezione aventi ad oggetto le discussioni e le decisioni intervenute in camera di consiglio, rientrando il segreto delle deliberazioni di tale collegio nel segreto d'ufficio, con conseguente applicabilità della norma di cui all'art. 201 c.p.p., la quale stabilisce l'obbligo di astensione dalla deposizione la decisione di annullamento. La decisione, quindi, non è dipesa dal superamento della teorica del concorso esterno bensì dalla ritenuta inutilizzabilità di alcune prove su cui si fondava la sentenza impugnata.

[10] Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16883 del 13/04/2010 (che ha ritenuto sussistente l'aggravante nel caso di un gruppo criminale dedito alle estorsioni, che era stato ricondotto alla fattispecie di cui all'art. 416 c p. piuttosto che a quella di cui all'art. 416-bis c. p., in quanto non aveva ancora conseguito l'egemonia sul territorio).

[11] Art. 378. Favoreggiamento personale

Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena di morte o l'ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell'autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti, è punito con la reclusione fino a quattro anni.

Quando il delitto commesso è quello previsto dall'art. 416-bis, si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni.

Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena è della multa fino a euro 516.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto.

[12] Art. 326. Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d'ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se l'agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie d'ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni.

[13] D.L. 13 maggio 1991, n. 152 convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203 – Art. 7

1. Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416- bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

2. Le circostanze attenuanti, ((diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114)) del codice penale, concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante. [14] Art. 649. Divieto di un secondo giudizio

1. L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.

2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.

[15] Assoggettamento è uno stato di soggezione, derivante dalla convinzione di essere esposti ad un concreto ed ineludibile pericolo di fronte alla forza dell'associazione.

[16] Legge 13 settembre 1982, n. 646 c.d. Rognoni – La Torre


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