|
Data: 04/01/2016 07:10:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Lo stato di carcerazione preventiva (o di custodia cautelare) del lavoratore subordinato non rientra tra le ipotesi, tutelate dalla legge, di impossibilità temporanea della prestazione, quale la malattia e le altre situazioni contemplate dall'art. 2110 c.c., e comporta la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui si protrae la carcerazione medesima. Questo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione I civile, nella recente sentenza n. 24047/2015 (qui sotto allegata). I ricorrenti sono gli eredi di un uomo che era stato dipendente della Cassa rurale e artigiana di Corigliano calabro s.c.a.r.l., in liquidazione coatta amministrativa. Viene impugnata la decisione della Corte d'appello di Catanzaro che, in riforma della decisione di primo grado, aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni da loro proposta. In realtà, i giudici d'appello avevano ribadito la dichiarazione di illegittimità della sospensione cautelare dal lavoro del de cuius, avvenuta oltre il limite massimo di dieci giorni ammesso dal contratto collettivo di categoria. Ciononostante, i giudici del gravame ritennero che l'uomo, sottoposto per almeno sessanta giorni a misura cautelare carceraria nell'ambito di un procedimento penale conclusosi poi con la sua morte per l'estinzione del reato contestato, aveva omesso di comunicare al datore di lavoro la riacquistata disponibilità della propria prestazione allorché era stato scarcerato. Pertanto i suoi eredi non potevano addebitare alla banca la mancata erogazione dei compensi non percepiti dal de cuius dopo il decimo giorno dalla sospensione. I ricorrenti deducono violazione dell'art. 2909 c.c., lamentando la violazione del giudicato di accertamento dell'illegittimità della sospensione ultradecadale del de cuius e l'aver assegnato, invece, rilevanza, in violazione dell'art. 150 c.p., alla sentenza penale di estinzione del reato contestato all'uomo. Inoltre, sostengono che i giudici di merito abbiano erroneamente escluso l'inadempimento della banca, che aveva reso impossibile la prestazione di lavoro con la sua illegittima sospensione per oltre dieci giorni. Per gli Ermellini, in realtà, correttamente la sentenza impugnata ha escluso l'esistenza del danno lamentato dagli attori ritenendo che spettasse al de cuius, "dopo avere riacquistato la libertà, l'onere di comunicare alla banca la ripristinata possibilità della sua prestazione". Nel caso in esame la perdita della retribuzione lamentata dagli eredi "dipese dalla sua incarcerazione, non dal provvedimento di sospensione adottato dalla banca", e incombeva dunque al lavoratore inadempiente per fatto a lui imputabile comunicare alla banca la ripristinata disponibilità della sua prestazione. La carcerazione preventiva del lavoratore subordinato non può ricomprendersi nelle ipotesi di impossibilità temporanea della prestazione, pertanto provoca la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui si protrae la carcerazione medesima, "senza che – ove la detenzione concorra con il provvedimento di sospensione cautelare disposto dal datore di lavoro in pendenza del procedimento penale – possa essere invocato il principio della cosiddetta priorità della causa sospensiva della prestazione lavorativa, secondo il quale si considera prevalente ai fini del trattamento retributivo la causa verificatasi prima, atteso che esso si riferisce unicamente alle suddette cause legali di sospensione con diritto alla retribuzione". Il ricorso va pertanto rigettato.
|
|