|
Data: 08/01/2016 20:00:00 - Autore: Avv. Paolo Accoti Avv. Paolo Accoti - A seguito dell'investimento di un pedone, deceduto in conseguenza del sinistro, gli eredi del defunto convenivano in giudizio il proprietario del mezzo nonché la compagnia di assicurazioni, per vedersi riconosciuti il risarcimento dei danni subiti. Nel giudizio interveniva l'Inail con azione di surroga per la rendita erogata. In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda liquidando il danno (iure proprio e iure hereditatis). Impugnavano la decisione i medesimi eredi, chiedendo la liquidazione di una maggior somma rispetto a quella richiesta originariamente, sostenendo a tal uopo l'applicazione delle cd. tabelle milanesi, comunemente in uso sin dall'anno 2011. La Corte d'Appello, pur riconoscendo l'applicabilità delle tabelle adottate dal Tribunale di Milano, affermava tuttavia che "ex art. 345 c.p.c., non è ammissibile, come richiesto in questo grado dall'appellante, l'incremento del risarcimento oltre l'importo indicato nell'originario atto di citazione". In sostanza, il giudice di appello, riteneva la domanda nuova e, come tale, inammissibile, giusto disposto di cui all'art. 345 c.p.c., per il quale: "Nel giudizio d'appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d'ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d'ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, e non possono essere prodotti nuovi documenti salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio". Propongono ricorso per cassazione gli eredi del de cuis, affidando lo stesso ad un unico motivo: la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., nonché il vizio di motivazione per la liquidazione del danno non patrimoniale in maniera assolutamente inadeguata, anche con riferimento alla omessa personalizzazione del risarcimento del danno morale. In particolare, sostengono i ricorrenti che il giudice di secondo grado pur riconoscendo l'applicabilità della tabelle del Tribunale di Milano, avrebbe errato nel ritenere inammissibile la richiesta di un importo superiore rispetto a quello originariamente indicato in citazione, in ragione del fatto che la diversa quantificazione della pretesa non costituisce "domanda nuova" preclusa dalla previsione dell'art. 345 c.p.c. Rilevano inoltre il difetto di personalizzazione del danno, atteso che la peculiarità del caso consentirebbe "l'attribuzione del massimo valore risarcitorio previsto dalle tabelle di Milano 2011 per la perdita del congiunto". La giurisprudenza di legittimità si è più volte espressa in siffatta materia, evidenziando come: "Si ha domanda nuova - inammissibile in appello - per modificazione della "causa petendi" quando i nuovi elementi, dedotti dinanzi al giudice di secondo grado, comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio" (Cass. civ., 23/07/2015, n. 15506. Tra le altre: Cass. civ., 10/09/2012, n. 15101; Cass. civ., 28/01/2013, n. 1861; Cass. civ., 27/11/2012, n. 21002). Il discrimine, pertanto, tra domanda nuova inammissibile in appello e la consentita specificazione della domanda ovvero la diversa quantificazione della stessa, risiede nella immutabilità dell'oggetto. Pertanto, solo quando viene allargato il tema di indagine o si fonda la domanda su un titolo diverso, rispetto a quello originariamente dedotto, questa risulta inammissibile perché viola il disposto dell'art. 345 c.p.c. Ciò posto, con specifico riferimento ai danni da circolazione stradale, è stato ritenuto che: "In caso di domanda di risarcimento "di tutti i danni" (nella specie, conseguenti alla morte di una persona), la quale è indicativa della volontà di conseguire l'integrale risarcimento di tutte le voci di danno legittimamente ricollegabili all'evento lesivo, la successiva specificazione dei singoli danni di cui si invochi la liquidazione (nella specie, nella memoria ex art. 183, quinto comma, cod. proc. civ.) ha valore meramente esemplificativo e non può essere interpretata come volontà di delimitare il "petitum"" (Cass. civ., 17/12/2009, n. 26505); "In caso di illecito da circolazione stradale, non possono essere qualificate domande nuove le specificazioni delle singole componenti del danno subìto formulate, nel corso del giudizio d'appello, dai congiunti conviventi della vittima tenendo conto del diritto giurisprudenziale vivente, anche al fine di resistere ai motivi di gravame della parte appellante, una volta che la domanda originaria sia comprensiva di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, "iure proprio" e "iure successionis"" (Cass. civ., 28/11/2007, n. 24745); "L'azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere, in quanto l'applicabilità dell'una o dell'altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi di indagine. Proposta, dunque, in primo grado una domanda ex art. 2043 c.c., non è consentito alla parte in appello fondare la medesima domanda sulla violazione dell'obbligo di custodia, perché ciò finirebbe per stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate. Di talché la domanda ex art. 2051 c.c. può non essere considerata nuova in appello rispetto a quella fondata ex art. 2043 c.c., solo se l'attore abbia, sin dall'atto introduttivo del giudizio, enunciato in modo sufficientemente chiaro, situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare le fattispecie contemplate dalle predette disposizioni" (Cass. civ., 21/09/2015, n. 18463); "Nell'assicurazione obbligatoria per responsabilità civile da circolazione dei veicoli, la domanda di condanna dell'assicuratore al risarcimento del danno per "mala gestio" cosiddetta impropria deve ritenersi implicitamente formulata tutte le volte in cui la vittima abbia domandato la condanna al pagamento di interessi e rivalutazione, anche senza riferimento al superamento del massimale o alla condotta renitente dell'assicuratore. Ne consegue che non costituisce domanda nuova quella con cui in appello i danneggiati chiedano la condanna dell'assicuratore al pagamento della differenza tra danno liquidato e superamento del massimale di polizza, che va intesa quale riproposizione della domanda originaria nei limiti del riconoscimento di interessi moratori e rivalutazione oltre il massimale di legge" (Cass. civ., 27/06/2014, n. 14637). La Suprema Corte, nella sentenza oggi in commento, non si discosta affatto dai suddetti principi. La stessa, infatti, richiamando in propri precedenti, evidenzia come: "la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i suoi fatti costitutivi, non comporta prospettazione di una nuova "causa petendi" in aggiunta a quella dedotta in primo grado e, pertanto, non da luogo ad una domanda nuova, come tale inammissibile in appello ai sensi degli artt. 345 e 437 c.p.c." (Cass. n. 14961/2006; cfr. Cass. n. 9266/2010 e Cass. n. 4828/2006), cosicchè, "in tema di risarcimento danni (nella specie, danni non patrimoniali per morte di un prossimo congiunto), la circostanza che l'attore, nel domandare il ristoro del danno patito, dopo aver quantificato nell'atto di citazione la propria pretesa, all'udienza di precisazione delle conclusioni domandi la condanna del convenuto al pagamento di una somma maggiore, al fine di tenere conto dei nuovi criteri standard di risarcimento (c.d. "tabelle") adottati dal tribunale al momento della decisione, non costituisce mutamento inammissibile della domanda, sempre che attraverso tale mutamento non si introducano nel giudizio fatti nuovi o nuovi temi di indagine" (Cass. n. 1083/2011; cfr. Cass. n. 17977/2007)" (Cass. civ. Sez. III, Sent., 17/12/2015, n. 25341). Nel caso concreto, il Supremo Collegio, rileva che i termini della controversia sono rimasti immutati, non trovandosi al cospetto di un nuovo tema di indagine ma di una mera richiesta di adeguamento degli importi richiesti, in virtù dei nuovi parametri tabellari, pertanto, la variazione quantitativa del petitum non comportando l'introduzione di una domanda nuova, risulta pienamente ammissibile. La Corte di Cassazione, quindi, ritiene la sentenza impugnata da cassare "laddove ha ritenuto di non potere superare il limite economico segnato dalle conclusioni prese nell'atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado", con l'assorbimento dei restanti dedotti profili di illegittimità, in considerazione del fatto che il rinvio ad una nuova sezione della Corte d'Appello, comporta comunque una nuova complessiva valutazione del quantum dovuto. Ricorda, a tal proposito, che l'anzidetta nuova decisione in merito all'entità dei danni subiti, dovrà essere adottata in conformità delle tabelle vigenti al momento della decisione. Ed invero: "Se le "tabelle" applicate per la liquidazione del danno non patrimoniale da morte di un prossimo congiunto cambino nelle more tra l'introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice (anche d'appello) ha l'obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione" (Cass. civ. Sez. III, 11/05/2012, n. 7272). |
|