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Data: 27/01/2016 16:00:00 - Autore: Giovanni Tringali di Giovanni Tringali - Con la sentenza del 25 settembre 2014 n. 11170 la suprema Corte, nel decidere una complessa vicenda, stabiliva alcuni punti di diritto. Ecco la storia in sintesi: il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna disponeva in danno di due S.p.A. il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente, di ingenti somme di danaro ai sensi degli artt. 19 e 53 del decreto legislativo n. 231 del 2001 (responsabilità amministrativa degli enti); per una di queste società veniva ipotizzato la violazione dell'art. 2632 c. c., ossia la formazione fittizia di capitali, mentre per l'altra era contestato l'aggiotaggio previsto dall'articolo 2637 del c.c.. I reati-presupposto sarebbero stati commessi dagli organi apicali delle due società. Il Tribunale del riesame di Bologna annullava i decreti di sequestro preventivo per la ritenuta sussistenza della causa di esonero da responsabilità prevista dall'art. 5, comma 2[1], del decreto legislativo n. 231 del 2001, ovvero per non avere le due società ricavato alcun profitto dalle operazioni incriminate poste in essere ad esclusivo vantaggio degli indagati, vertici apicali delle stesse. Tali decisioni, su ricorso del Pubblico Ministero, venivano annullate dalla Corte di cassazione per erronea applicazione del citato art. 5, comma 2, decreto legislativo 231 del 2001, essendo stato ritenuto ravvisabile nella vicenda, insieme all'interesse delle persone fisiche indagate al conseguimento di benefici personali, un concorrente vantaggio dell'ente determinato dall'incremento artificioso del capitale e per non aver considerato la c.d. confisca in funzione di riequilibrio di cui all'art. 6, comma 5, del decreto 231 del 2001[2], consentita anche in caso di esclusione di responsabilità amministrativa dell'ente. Sennonché, pochi giorni prima della decisione della Cassazione le due società erano ammesse al concordato preventivo; ciò induceva il Pubblico Ministero a modificare, nel corso dell'udienza preliminare, le imputazioni nei confronti degli indagati, ai quali veniva contestata la violazione degli artt. 236, comma secondo n. 1[3], e 223, comma secondo[4], della legge fallimentare, sul presupposto che la commissione dei reati societari contestati - violazione degli artt. 2621, 2622 e 2632 c.c. - aveva concorso a cagionare il dissesto e a lasciare invariati i capi di incolpazione nei confronti delle due società (artt. 2632 – formazione fittizia di capitali - e 2637 c.c. – aggiotaggio - previsti nell'elenco dei "reati-presupposto" della responsabilità amministrativa all'art. 25-ter rispettivamente lettera i) e lettera r)). Il Tribunale del riesame di Bologna, quale giudice di rinvio, ripristinava il sequestro preventivo in danno delle due società ritenendo irrilevante l'ammissione delle stesse al concordato preventivo ed il conseguente mutamento delle imputazioni a carico degli organi apicali delle stesse. In particolare, il Tribunale rilevava che il capo d'imputazione nei confronti di una delle due S.p.A. era rimasto immutato e che pertanto, la responsabilità dell'ente, era riconducibile sempre all'art. 2632 c.c. (formazione fittizia di capitali) in applicazione del principio di autonomia della responsabilità dell'ente di cui all'art. 8 del richiamato decreto legislativo n. 231 del 2001. Le ordinanze di ripristino del sequestro preventivo emesse dal Tribunale del riesame venivano impugnate, con ricorso per Cassazione, dalle curatele delle due società fallite, le quali presentavano anche una istanza al G.i.p. del Tribunale di Bologna di revoca del sequestro. La Seconda Sezione penale della Corte di cassazione rigettava i ricorsi, ritenendo infondati i motivi concernenti la pretesa insussistenza del profitto confiscabile. Intanto, prima di queste due ultime decisioni della Corte di cassazione, il G.i.p. del Tribunale di Bologna accoglieva l'istanza di revoca del sequestro proposta dalle curatele perché gli effetti del sequestro erano garantiti dalla procedura fallimentare; il G.i.p., inoltre, demandava agli organi del fallimento l'accertamento della possibile mancanza di buona fede dei creditori insinuati. Infine, il Tribunale di Bologna, quale giudice di appello del provvedimento di revoca del sequestro del G.i.p., accoglieva l'impugnazione del Pubblico Ministero e disponeva il ripristino della misura cautelare reale. Il Tribunale, in particolare, rilevava la inidoneità della procedura fallimentare ad assorbire la funzione della misura cautelare reale e poneva in evidenza la sub-valenza delle ragioni dei terzi creditori rispetto alle esigenze di tutela della collettività; ricordava, il Tribunale, la natura obbligatoria dei sequestri, e della conseguente confisca, di cui all'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001. Avverso quest'ultima ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione le curatele delle società deducendo la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., sotto vari profili. Sequestro c.d. impeditivo e sequestro funzionale alla confiscaPrima di affrontare la questione principale relativa ai rapporti tra procedura fallimentare, procedura penale e responsabilità amministrativa degli enti si ritiene fondamentale richiamare alcuni concetti di base partendo proprio da quanto previsto in materia di sequestro e di confisca a livello penale. La prima norma che esamineremo è la seguente: Art. 321 c.p.p. - Oggetto del sequestro preventivo. «1. Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato. Prima dell'esercizio dell'azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari. 2. Il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca. Omissis» E' necessario distinguere tra: 1) sequestro c.d. impeditivo (art. 321 c.p.p. comma 1); 2) sequestro funzionale alla confisca (art. 321 c.p.p. comma 2). Nel caso di sequestro c.d. impeditivo, presupposto della misura cautelare è il "pericolo" che la libera disponibilità di una "cosa pertinente al reato" possa: a) aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero b) agevolare la commissione di altri reati, per cui il sequestro è "finalizzato" ad interrompere quelle situazioni di pericolosità che possono crearsi con il possesso della "cosa". Cose pertinenti al reato sono le cose che servono, anche indirettamente, ad accertare la consumazione dell'illecito, il suo autore e le circostanze del reato. Si ritiene che tale sequestro sia compatibile con il "fallimento" nel senso che il giudice - a fronte di una dichiarazione di fallimento del soggetto a cui il bene appartenga - ben può disporre l'applicazione, il mantenimento o la revoca del sequestro previsto dal comma 1 dell'art. 321 c.p.p., senza essere vincolato dagli effetti di cui all'art. 42[5] L.F.. Lo stesso giudice, però, nel discrezionale giudizio sulla "pericolosità della res", dovrà effettuare una valutazione di bilanciamento del motivo della cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale. Alla stregua di tale valutazione, il bene sequestrato potrà anche essere restituito all'ufficio fallimentare, ferma restando, ovviamente, la possibilità di nuova applicazione della misura di cautela reale nei casi in cui ritorni attuale la sussistenza dei presupposti. E' da sottolineare l'ampiezza della locuzione "cosa pertinente al reato" che è tale da ricomprendere ogni cosa che si trovi in qualche modo collegata al delitto (ovviamente non è sufficiente un rapporto di mera occasionalità tra la res e la commissione del delitto). La differenza tra corpo del reato e cosa pertinente al reato (di cui agli artt. 253 e 354 c.p.p.) sta nel fatto che mentre il primo presuppone un rapporto di immediatezza tra cosa e l'illecito, la seconda comprende le cose in qualsiasi modo connesse al reato, rilevanti ai fini dell'accertamento del fatto crimonoso, delle circostanze e del suo autore. Nel sequestro funzionale alla confisca, invece, il pericolo non è collegato alla libera disponibilità della cosa ma si ricollega alla "confiscabilità" del bene (cfr. art. 321 c. 2 c.p.p. "Il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca"). Vi è cioè un rinvio alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, ovvero alle cose che ne sono il prodotto, il profitto, il prezzo e le altre cose previste dall'art. 240 c.p. di cui si dirà oltre (confisca facoltativa e confisca obbligatoria). Per quanto riguarda i presupposti applicativi, valgono i principi generali secondo i quali il provvedimento di sequestro preventivo, anche se adottato ai sensi dell'art. 321 c.p.p., comma secondo, deve essere adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza del presupposto del "fumus commissi delicti". Il compendio probatorio non deve avere la consistenza dei "gravi indizi di colpevolezza"[6] richiesta per l'applicazione delle misure cautelari personali, ma non può essere del tutto assente e anzi occorre che il pubblico ministero dimostri l'esistenza di "concreti elementi" per riferire il reato alla persona dell'indagato. Appare utile valutare il requisito del fumus commissi delicti previsto per il sequestro preventivo, delineandone la consistenza mediante un raffronto con la misura cautelare del sequestro probatorio ex art. 354 c.p.p. [7]. Come noto, i due sequestri sono molto diversi tra loro, infatti, il sequestro probatorio è un mezzo di ricerca della prova volto all'accertamento dei fatti ed all'assicurazione delle fonti di prova, il sequestro preventivo è una misura cautelare reale finalizzata ad impedire l'aggravamento o il protrarsi delle conseguenze di un reato ovvero l'agevolazione della commissione di altri illeciti di natura penale o, ancora, a garantire la confiscabilità della cosa. Nonostante il requisito del fumus commissi delicti sia prescritto dalla legge per entrambi questi vincoli reali, diverse sono le modalità dell'accertamento a seconda della finalità del provvedimento di sequestro. Il fumus del sequestro probatorio deve essere valutato in base alla congruità dei riscontri materiali sui cui si fonda la notizia di reato per rendere utile l'espletamento di ulteriori indagini sull'oggetto dell'illecito ipotizzato o su cose ad esso pertinenti, al fine di acquisire prove certe sulla sua commissione: le indagini successive dovranno essere possibili solo mediante lo spossessamento coattivo del bene e l'acquisizione della sua disponibilità da parte della Autorità Giudiziaria. Non è necessario, in definitiva, che sussistano indizi di colpevolezza nei confronti di un certo soggetto, ma è sufficiente che siano presenti elementi tali da permettere di configurare l'esistenza di una fattispecie penalmente rilevante. Il fatto, di conseguenza, non deve essere accertato, ma deve risultare ragionevolmente probabile in base a questi specifici elementi. Quando questo fumus appare dalle indagini iniziali espletate, il sequestro probatorio è, non solo legittimo, ma, altresì, opportuno, in quanto volto a stabilire, mediante le successive operazioni investigative, l'esistenza o meno del nesso pertinenziale tra il bene vincolato e l'illecito penale ipotizzato. Nel sequestro preventivo il giudice mira sì all'individuazione di elementi concreti idonei a configurare la sussistenza del reato, ma il fine di questa misura cautelare non è quella di stabilire un nesso tra la res e l'illecito o più in generale quello di proseguire le indagini ed assicurare le fonti di prova, ma di prevenire un pericolo (art. 321 c.p.p. comma 1) o di anticipare l'effetto della confisca (art. 321 c.p.p. comma 2). Recentemente si va affermando il principio di diritto secondo cui i giudici del Riesame, nel valutare la sussistenza del fumus del reato, devono analizzare non solo le prospettazioni della Pubblica Accusa, ma, altresì, le contestazioni difensive che possano avere un'effettiva influenza sull'astratta configurabilità dell'illecito contestato, non solo in tema di sequestro preventivo, ma anche per il sequestro probatorio. Altra norma in gioco è la seguente: Art. 240 c.p. - Confisca «1. In caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose, che ne sono il prodotto o il profitto. 2. E' sempre ordinata la confisca: 1) delle cose che costituiscono il prezzo del reato; 1bis) dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione dei reati di cui agli articoli 615-ter, 615-quater, 615-quinquies, 617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies, 640-ter e 640-quinquies) 2) delle cose, la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione o l'alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna. Omissis» Occorre distinguere tra: 1) confisca obbligatoria (art. 240 c.p. comma 2); 2) confisca facoltativa (art. 240 c.p. comma 1). Le ipotesi di confisca obbligatoria e facoltativa, presuppongono l'accertamento di un necessario rapporto di pertinenzialità tra prodotto, profitto, prezzo e le altre cose indicate nel comma 2 e il reato. Di particolare interesse è la seguente norma: Art. 322-ter c.p. - Confisca «1. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati nell'articolo 322-bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. 2. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall'articolo 321, anche se commesso ai sensi dell'articolo 322-bis, secondo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell'articolo 322-bis, secondo comma. 3. Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato». Si tratta sostanzialmente di alcuni dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione previsti dal Titolo II – Capo I – Libro II del codice penale (314 Peculato, 316 Peculato mediante profitto dell'errore altrui, 317 Concussione, 318 Corruzione per l'esercizio della funzione, 319 Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, 320 Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio, 321 Pene per il corruttore). Questa confisca (diretta e per equivalente) era stata estesa ai reati tributari dalla legge 244/2007 con il comma 143. Il comma è stato abrogato per effetto del d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158 che ha introdotto l'art. 12-bis nel d.lgs. 74/2000. La cosa interessante di questa norma è la previsione della confisca per equivalente che affianca la confisca diretta. Come detto, il legislatore ha ritenuto opportuno inserire, nel corpo del decreto legislativo dedicato ai reati tributari, la seguente norma che in pratica ricalca l'art. 322-ter c.p.: Art. 12-bis – d.lgs. 74/2000 – Confisca «1. Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. 2. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta». Queste ultime due norme considerate, che sono molto simili, stabiliscono: 1) La confisca diretta (che riguarda il profitto o il prezzo del reato); 2) La confisca per equivalente (che riguarda beni per un valor corrispondente al profitto o il prezzo del reato). In particolare, la nozione di "profitto diretto" elaborata dalle Sezioni Unite in ambito tributario è quella secondo cui il profitto confiscabile può essere costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguente alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario (Sent. Cass. Sez. Un. 31/01/2013, n. 18374). Il problema, nel caso dei reati tributari, è che normalmente il profitto del reato rimane nella disponibilità della persona giuridica (es. i conti correnti utilizzati nell'ambito dell'attività d'impresa). Se si presta attenzione al testo della norma, si vedrà che quando si parla di profitto o di prezzo del reato non si fa menzione al reo né tantomeno alla persona giuridica, mentre quando si parla di confisca per equivalente si fa espresso riferimento al reo (la persona fisica). Ciò confermerebbe la linea seguita dalla giurisprudenza che, in tema di reati tributari, ha ritenuto applicabile il sequestro e la confisca diretta sia nei confronti della persona fisica sia nei confronti della persona giuridica, mentre la confisca per equivalente è confinata ai beni nella disponibilità delle persone fisiche. Ma i problemi non sono finiti, infatti vi è la questione temporale che complica comunque le cose. Veniamo a un caso concreto e poniamo la seguente domanda: è possibile eseguire un sequestro preventivo di una somma di denaro depositata sul conto corrente di una società il cui rappresentante legale ha commesso il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti? Se, per ipotesi, il reato è stato commesso nel 2010 e quindi la somma evasa/risparmiata che costituisce il profitto del reato è storicamente lontana nel tempo rispetto all'esecuzione del provvedimento di sequestro preventivo, si può sostenere la legittimità del sequestro a prescindere da qualsiasi valutazione probatoria? In linea teorica sarebbe possibile che il reo, una volta realizzato il profitto del reato, lo abbia depositato nel conto corrente della persona giuridica e magari lo abbia vincolato talché, al momento del sequestro, sarebbe ben possibile aggredire esattamente la somma evasa che costituirebbe, invero, il profitto diretto del reato. Viceversa, come è ovvio pensare, nel caso in cui la somma evasa, depositata nel conto corrente, sia stata utilizzata per le varie operazioni societarie e quindi lo stesso conto corrente abbia avuto dei saldi magari negativi, è possibile sequestrare solamente una somma di denaro che corrisponde (rectius equivale) nel quantum al profitto diretto del reato: si tratterebbe cioè di un sequestro per equivalente nei confronti di beni nella disponibilità della "persona giuridica" non ammesso dal tenore letterale dell'art. 12-bis in questione (in linea, tra l'altro, con il d.lgs. 231/2001 che non prevede tra i "reati-presupposto" della responsabilità amministrativa degli enti, i reati tributari e quindi il sequestro e la confisca per equivalente del profitto del reato tributario nei confronti della persona giuridica). Le Sezioni Unite, con riferimento alla responsabilità da reato degli enti - ma il principio ha una validità più generale - hanno chiarito che nel caso di illecito plurisoggettivo, una volta perduta l'individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, ma l'espropriazione non può comunque eccedere nel quantum l'ammontare complessivo dello stesso. Le norme sopra richiamate (art. 322-ter c.p. e art. 12-bis – d.lgs. 74/2000) disciplinando la c.d. confisca per equivalente (la confisca per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato) fanno espresso riferimento al concetto di disponibilità. Questo determina che la confisca per equivalente può riguardare non solo denaro o cespiti di cui il soggetto sia "formalmente" titolare, ma anche quelli rispetto ai quali egli possa vantare una disponibilità informale sebbene diretta ed oggettiva. La definizione di disponibilità dell'indagato, al pari della nozione civilistica del possesso, è riferibile a tutte quelle situazioni nelle quali i beni ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (Cass. Sent. Sez. 3, dell'08/03/2012, n. 15210). Rileva, pertanto, l'interposizione fittizia, vale a dire quella situazione in cui il bene, pur formalmente intestato a terzi, sia nella disponibilità effettiva dell'indagato o condannato. Ai fini dell'operatività della confisca per equivalente, non è di ostacolo all'ablazione dei beni il deposito di una somma di denaro su conto corrente bancario cointestato con un soggetto estraneo al reato (Cass. Sent. Sez. 3, 19/10/2011, n. 45353), l'inclusione dei beni nel fondo patrimoniale familiare (Cass. Sent. Sez. 3, 19/09/2012, n. 40364) o l'intestazione di un bene in comproprietà tra l'indagato ed un terzo estraneo. Le norme che disciplinano la confisca per equivalente non pongono nessun obbligo di previa individuazione dei beni da colpire a carico del giudice del sequestro, né all'omissione di siffatto adempimento è ricollegabile alcuna lesione di diritti soggettivi, posto che il provvedimento cautelare ha natura provvisoria che rinviene la sua necessità nell'esigenza di assicurare, col vincolo posto sul bene, la futura esecuzione della confisca. Non sussistendo alcun vincolo di pertinenzialità tra il bene e l'illecito, non sarebbe possibile prevedere quali dei beni preventivamente individuati dal pubblico ministero al momento della richiesta sarà poi effettivamente presente nel patrimonio dell'indagato durante l'esecuzione. La confisca per equivalente prescinde del tutto dal nesso tra prodotto, profitto, prezzo e reato. Anzi, costituisce proprio una condizione di operatività della confisca per equivalente la circostanza che nella sfera giuridico-patrimoniale della persona colpita dalla misura non sia rinvenuto il prezzo o il profitto del reato per cui si procede, ma di cui sia ovviamente certa l'esistenza. Una volta accertata la sussistenza dei presupposti - tra cui l'equivalenza di valore tra beni confiscati e prezzo o profitto del reato – la confisca per equivalente ha natura obbligatoria (gli articoli in questione dicono espressamente "è sempre ordinata la confisca"). Principio di legalità nell'ambito del d.lgs. 231/2001Una delle questioni da affrontare per decidere la vicenda in premessa prende le mosse dal fatto che mentre i reati societari rientrano nell'elenco dei reati-presupposto che consentono di verificare e ritenere la responsabilità dell'ente, i reati fallimentari non sono compresi nel predetto elenco di cui al d.lgs. n. 231 dell'8 giugno 2001. I presupposti che legittimano l'affermazione di responsabilità degli enti sono due: a. è necessario che il fatto commesso dagli organi apicali dell'ente sia previsto da una legge entrata in vigore prima della commissione dello stesso; b. che il fatto commesso sia previsto nel tassativo elenco dei reati presupposto. Vi è, quindi, un doppio livello di legalità. La norma del d.lgs. 231/2001 che stabilisce detto principio è la seguente: Art. 2. Principio di legalità «1. L'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto». L'elenco tassativo dei reati presupposto è invece previsto dal Capo I – Sezione III - intitolata "Responsabilità amministrativa da reato". Ma venendo al caso concreto deciso con la sentenza n. 11170/2014, occorre dire che il delitto di "bancarotta impropria societaria" assorbe il reato societario - nel caso di specie manipolazione del mercato, peraltro mai contestato all'ente, al quale, invece, era stato contestato il reato di formazione fittizia di capitale - ed assume una connotazione del tutto propria e particolare, essendo necessario che quella condotta abbia cagionato o aggravato il dissesto della società dichiarata fallita. In tema di bancarotta societaria il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico. Il reato di bancarotta societaria di cui all'art. 223 comma 2 n. 1, L.F. è reato complesso in senso lato: diversamente dal reato complesso in senso stretto, caratterizzato da due o più reati che operano come elementi costitutivi o circostanze aggravanti di altro reati, nel reato complesso in senso lato ad integrarlo è sufficiente un solo reato con l'aggiunta di elementi ulteriori non costituenti reato, quali il dissesto e la dichiarazione di fallimento. Trattandosi di una norma a più fattispecie (e non di una disposizione a più norme) in considerazione dell'unicità dell'eventi-dissesto, saremo sempre in presenza di un solo reato anche se l'agente abbia commesso più reati societari. La natura di fattispecie complessa comporta che, nonostante la perseguibilità a querela di alcuni reati societari es. l'indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633) o l'infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.) il delitto di bancarotta societaria sia perseguibile d'ufficio. I giudici di legittimità hanno affermato che le specificità e le peculiarità del delitto di bancarotta societaria non consentono l'ardita operazione di scomposizione della condotta di bancarotta contestata per far derivare dal reato societario (questo sì compreso nel catalogo dei reati presupposto), la responsabilità amministrativa della società. Di conseguenza, non essendo la "bancarotta fraudolenta" compresa nel catalogo dei "reati presupposto", è illegittimo qualsiasi sequestro finalizzato alla confisca ex artt. 19 e 53 del d.lgs. 231/2001. Tra l'altro, vi è da aggiungere che non rientrano tra i reati-presupposto previsti dal d.lgs. 231/2001 neppure i reati tributari, pur essendo strettamente connessi ai reati di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., recentemente riformati per effetto della Legge 27 maggio 2015 n. 69. Tutto ciò, ovviamente, permea il sistema di una certa incoerenza, soprattutto per quanto riguarda l'impossibilità di eseguire i provvedimenti di sequestro e confisca previsti dagli artt. 19 e 53 già menzionati, ma che invece sono possibili grazie all'art. 321 c.p.p. (sequestro preventivo) o per effetto del nuovo art. 12-bis – d.lgs. 74/2000 (confisca). I provvedimenti di sequestro e confisca del prezzo o del profitto di reatoLe norme in gioco sono principalmente l'art. 53 e l'art. 19 del d.gs. 231/2001:Art. 53 Sequestro preventivo – d.lgs. 231/2001 «1. Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell'articolo 19. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323 del codice di procedura penale, in quanto applicabili. 1-bis. Omissis» Le cose di cui è consentita la confisca sono il prezzo o il profitto del reato o qualora questi manchino la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato (si vedrà meglio la confisca infra). Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca è prodromico all'applicazione di una sanzione principale (appunto la confisca), che può essere applicata solo a seguito dell'accertamento della responsabilità dell'ente. Il "fumus delicti" richiesto per l'adozione del sequestro non può che coincidere con i "gravi indizi" di responsabilità dell'ente. Solo dopo la verifica della sussistenza dei gravi indizi, il giudice potrà poi procedere ad accertare il requisito del "periculum", che riguarda esclusivamente l'individuazione e la quantificazione del profitto o del prezzo assoggettabile a confisca. Varie sono le differenze rispetto al sequestro preventivo previsto dall'art. 321 c.p.p.. Si osservi innanzitutto che in tema di responsabilità amministrativa degli enti, dipendente da reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il "periculum" richiesto per il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. (la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato che possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati), nel senso che nel caso degli enti è sufficiente constatare la confiscabilità del prezzo o del profitto del reato non essendo necessario fare alcuna verifica circa il pericolo che la disponibilità della res possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati. Ciò che è necessario per la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto del reato-presupposto è unicamente la sussistenza di gravi indizi di responsabilità dell'ente stesso, il che si raccorda con la natura di sanzione principale di detta confisca. Il sequestro preventivo di cui si discute non deve essere preceduto dall' informazione di garanzia e dalla informazione sul diritto di difesa prevista dall'art. 369-bis c.p.p., in quanto atto "a sorpresa", diretto alla ricerca della prova, per il quale non è previsto il previo avviso al difensore. Il "profitto del reato" va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito e a questo strettamente pertinenti ossia quei vantaggi economici di diretta e immediata derivazione causale dal reato. Va evitata un'estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire da un reato, nel senso che occorre considerare solo il profitto di diretta derivazione causale dall'attività del reo. Ovvio che nel caso di confisca per "equivalente", qualora il profitto tratto da taluno dei reati sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'ente, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare. Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto di un "reato-presupposto" può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell'ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso, con l'unico limite per cui il vincolo cautelare non può eccedere il valore complessivo del suddetto profitto. Qualora sia stata raggiunta la soglia indiziaria in ordine alla consumazione nell'interesse dell'ente di un reato presupposto contemplato dal d.lgs. 231/2001 ed emerga altresì dagli atti il "fumus" degli elementi costitutivi della fattispecie fondante la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, è possibile procedere al sequestro per equivalente delle somme depositate sui conti bancari di pertinenza dell'ente, considerata la natura fungibile del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento che non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, ma consente di sottoporre a vincolo la somma corrispondente al loro valore nominale (si veda Uff. Indagini preliminari Milano, 22 maggio 2007). Qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. U, Sentenza n. 31617 del 26/06/2015). Le somme di denaro, depositate su conto corrente bancario cointestato con un soggetto estraneo al reato, sono soggette a sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, in quanto quest'ultimo si estende ai beni comunque nella disponibilità dell'indagato, non ostandovi le limitazioni provenienti da vincoli o presunzioni operanti, in forza della normativa civilistica, nel rapporto di solidarietà tra creditori e debitori (art. 1289 cod. civ.) o nel rapporto tra istituto bancario e soggetto depositante (art. 1834 cod. civ.) (Sez. 3, Sentenza n. 45353 del 19/10/2011). Nell'ambito della criminalità d'impresa, qualora ricorrano i presupposti della responsabilità della persona fisica e della responsabilità amministrativa dell'ente si verte in ipotesi di responsabilità cumulativa dell'individuo e dell'ente collettivo, sussistendo un nesso tra le due forme di responsabilità che, pur non identificandosi con la figura tecnica del concorso, a essa è equiparabile, in quanto da un'unica azione criminosa scaturiscono una pluralità di responsabilità. Da ciò consegue che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per valore ben può incidere contemporaneamente sia sulle persone fisiche indagate per il reato-presupposto sia sull'ente societario che ha tratto profitto dal reato (Cass. penale, sez. VI, del 06 febbraio 2009 n. 19764). Venendo più in particolare ai rapporti tra questo particolare sequestro e la disciplina fallimentare, appare utile richiamare le seguenti sentenze: «È legittimo il mantenimento del sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni di una società nei cui confronti pende un procedimento per responsabilità amministrativa nascente da reato anche quando sopravviene a carico dell'ente una procedura concorsuale, poiché tale vicenda giuridica non sottrae al giudice penale il potere di valutare, all'esito del procedimento se disporre la confisca, e, in caso positivo, con quale estensione e limiti (Fattispecie in tema di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di società ammessa, dopo l'applicazione della misura, alla procedura di concordato preventivo) (Cass. pen. Sez. II, 12 marzo 2014, n. 25201)». «In tema di responsabilità da reato degli enti, è ammissibile il sequestro preventivo a fini di confisca di beni in misura equivalente al profitto derivante dal reato anche quando la società cui gli stessi appartengono sia fallita, ma spetta al giudice dare conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle che implicano la tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare (Cass. pen., sez. V, 08 luglio 2008 n. 33425)». Vediamo da vicino la norma che dispone la confisca: Art. 19 Confisca – d.lgs. 231/2001 «1. Nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede. 2. Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato». Il prezzo del reato è costituito dalle cose, dal denaro o da altre utilità date o promesse per determinare o istigare alla commissione del reato, mentre il profitto del reato è da intendersi come la conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato. La confisca "per equivalente" di cui al secondo comma ha invece ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato. Essa opera, ovviamente, solo quando non è possibile l'apprensione del prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale e permette così di evitare che l'ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato. Essa trova la sua ratio nell'esigenza di privare il reo o l'ente di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa: oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, non ha neppure alcun collegamento diretto con il singolo reato. Nel caso di sentenza di condanna per un reato (tra quelli tassativamente previsti come presupposto) per i quali è stata riconosciuta la responsabilità amministrativa dell'ente, la confisca del profitto è obbligatoria (si noti la differenza con quanto previsto dall'art. 240 c.p. comma 1 in cui la confisca del profitto del reato è facoltativa). Secondo la giurisprudenza della Cassazione, ha natura obbligatoria, anche nella forma per equivalente, atteso che il ricorso da parte del legislatore alla locuzione "può", nel secondo comma dell'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, deve essere ricondotto non già all'intenzione di configurare la suddetta confisca di valore come meramente facoltativa, bensì alla volontà di vincolare il giudice di procedervi previa verifica dell'impossibilità di provvedere alla confisca diretta del profitto del reato. Occorre precisare che la confisca prevista dall'art. 19 si differenzia da quella configurata dall'art. 6, comma 5[8], del medesimo decreto, applicabile nel caso in cui difetti la responsabilità della persona giuridica, e che quindi, piuttosto che costituire una sanzione, si atteggia invece a strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti sono comunque andati a vantaggio dell'ente. I legittimati ad impugnareL'art. 53, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001 rimanda agli articoli del codice di procedura penale sui mezzi di impugnazione contro i sequestri, in particolare il comma 1 dice testualmente: "Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323 del codice di procedura penale, in quanto applicabili".A tale proposito si consideri la seguente pronuncia: «In materia di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, avverso il provvedimento di sequestro preventivo sono consentiti sia il riesame che l'appello (giusto l'espresso richiamo all'art. 322, che a sua volta rinvia agli art. 324 e 322 bis c.p.p., contenuto nell'art. 53 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231), ma anche il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in sede di riesame e di appello e il ricorso per cassazione "per saltum" avverso il provvedimento impositivo della misura, senza che a ciò osti il mancato espresso richiamo dell'art. 325 c.p.p., in quanto la previsione del riesame del provvedimento di sequestro preventivo e dell'appello avverso gli altri e diversi provvedimenti in materia comporta il rinvio al complessivo regime delle impugnazioni previsto al riguardo dal codice di rito (Cass. penale, Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654)». La richiesta di riesame – disciplinata, quanto a procedura, dall'art. 324 c.p.p. – è un mezzo di tutela approntato dall'ordinamento contro: · l'ordinanza con la quale viene disposto il sequestro conservativo (art. 318 c. 1 c.p.p.); · il decreto con cui viene disposto il sequestro preventivo (art. 322 c. 1 c.p.p.). Il riferimento testuale agli atti con cui "viene disposto" il sequestro rende chiaro come, similmente a quanto accade per le misure cautelari coercitive, il rimedio del riesame non è esperibile contro i provvedimenti che incidono su un sequestro già in essere, ma unicamente contro quelli che determinano la nascita di vincolo (per il sequestro conservativo) ovvero la materiale apprensione della res (in caso di sequestro preventivo). I soggetti legittimati alla richiesta di riesame ex art. 322 c.p.p.[9] sono: · l'imputato, anche nel caso in cui il bene colpito dalla misura cautelare non sia di sua proprietà ma ne abbia comunque la disponibilità[10]; · il difensore; · la persona alla quale le cose sono state sequestrate, anche se estranea all'iter criminis o comunque assolutamente estranea al procedimento penale; · la persona che avrebbe diritto alla restituzione delle cose sequestrate. L'elenco dei legittimati è un numero chiuso insuscettibile di estensione analogica. Si noti che non sono legittimati né il P.M. né la parte civile. La richiesta di riesame deve essere presentata entro un termine molto breve, individuato, dall'art. 324 c.p.p. comma 1, in 10 giorni decorrenti, rispettivamente: 1) dalla data di esecuzione del sequestro, ovvero 2) dalla diversa data in cui l'interessato ne ha avuto conoscenza. I soggetti legittimati all'appello ex art. 322-bis c.p.p.[11] sono: · il pubblico ministero; · l'imputato; · il difensore dell'imputato; · la persona alla quale le cose sono state sequestrate; · la persona che avrebbe diritto alla restituzione delle cose sequestrare. Riguardo la legittimazione alla presentazione dell'istanza di riesame o di appello da parte del del creditore del soggetto inciso dal sequestro o in particolare del curatore fallimentare, vi sono stati pareri contrastanti in giurisprudenza. Secondo la Sentenza del 24/05/2004 n. 29951 (c.d. Focarelli) il curatore del fallimento ha facoltà di proporre sia l'istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo, sia quella di revoca della misura, ai sensi dell'art. 322 c.p.p., nonché di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 325 dello stesso codice avverso le relative ordinanze emesse dal Tribunale del riesame in quanto egli agisce, previa autorizzazione del giudice delegato, per la rimozione di un atto pregiudizievole ai fini della reintegrazione del patrimonio, nell'espletamento della sua funzione istituzionale rivolta alla ricostruzione dell'attivo fallimentare. Con la Sentenza del 25 settembre 2014 n. 11170, invece, si stabilisce la mancanza di legittimazione ad agire del curatore fallimentare partendo dalla considerazione che egli, essendo terzo rispetto al procedimento sequestro/confisca dei beni già appartenuti alla fallita società, non può agire in rappresentanza dei creditori per opporsi al sequestro e alla confisca di cui al d.lgs. 231/2001. In verità la questione presenta due aspetti distinti: 1) un discorso è quello relativo alla prevalenza dell'interesse in gioco. Questo interesse è rappresentato da una parte dalle esigenze cautelari delle varie misure (art. 321 c.p.p., 322-ter c.p., art. 12-bis d.lgs. 74/2000, art. 53 d.lgs. 231/2001 ecc…) e dall'altra l'interesse della curatela fallimentare che è quello di attrarre nella massa fallimentare il bene suscettibile (o già sottoposto) a sequestro; 2) un altro discorso è quello relativo alla sussistenza delle esigenze cautelari. Per il primo aspetto si può anche sostenere che alcune misure cautelari (come ad es. il sequestro probatorio ex art. 253 che mira all'accertamento della verità) prevalgano sugli interessi della curatela e di conseguenza verrebbe meno la legittimazione del curatore a impugnare perché non avrebbe nessuna possibilità di acquisire il bene al fallimento. Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, la legittimazione del curatore deriverebbe dalla possibilità di ottenere una pronuncia che stabilisca proprio l'insussistenza delle esigenze cautelari: in questo senso il curatore sarebbe legittimato a impugnare tutte le misure cautelari. Quello che sappiamo di certo è che il fallimento priva il "fallito" dell'amministrazione e della disponibilità dei beni esistenti alla data della dichiarazione di fallimento, trasferendo l'una e l'altra alla curatela, ma non della proprietà sugli stessi (cfr. art. 42 L.F.[12]). Il creditore che non abbia ancora ottenuto l'assegnazione del bene a seguito della procedura concorsuale non può assolutamente essere considerato "terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede" perché prima della conclusione di detta procedura il creditore vanta una semplice pretesa, ma non certo la titolarità di un diritto reale su un bene. Allo stesso modo il curatore fallimentare, non può agire in rappresentanza dei creditori perché non è titolare di alcun diritto sui beni, avendo esclusivamente compiti gestionali e mirati al soddisfacimento dei creditori: egli è un soggetto gravato da un compito "pubblico", di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato al fallimento ed il tribunale per consentire il perseguimento degli obiettivi propri della procedura fallimentare. Natura della confiscaLa questione più problematica che la Cassazione ha dovuto dirimere nella questione in premessa è quella relativa alla possibilità che i provvedimenti di sequestro/confisca riguardino beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento. Essa viene così riassunta dalla stessa Corte: "Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma dell'art. 19, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest'ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente affidando al potere discrezionale del giudice la conciliazione dei contrapposti interessi, ovvero di quelli propri della tutela penale (impedire che i proventi di illecito potessero giovare all'indagato) e di quelli tipici della procedura concorsuale (tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare)". La Cassazione osserva come il legislatore abbia previsto varie ipotesi di confisca obbligatoria che non hanno per oggetto cose "intrinsecamente pericolose" e uno dei casi è proprio quello della confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001. Stando a un indirizzo prevalente, ciò che conta, al fine di stabilire la insensibilità o meno al fallimento della confisca, è la natura della res. Si parte dalla distinzione tra: a) confisca obbligatoria, per cui il sequestro di cose pericolose è insensibile al fallimento così come è insensibile al fallimento anche il sequestro del profitto diretto del reato trattandosi di beni "oggettivamente" pericolosi, stante la loro pertinenza al reato; b) confisca per equivalente, che consiste in un prelievo pubblico a compensazione di un profitto illecito. Se in materia di confisca obbligatoria sembrano non esserci dubbi circa la sua insensibilità al fallimento, in materia di confisca per equivalente si sono avute contrastanti pareri da parte della giurisprudenza. Ad esempio, la sentenza Fazzalari del 08/07/2008 n. 33425, afferma che: a) i beni oggetto di confisca per equivalente non sono intrinsecamente pericolosi e quindi, spetta al giudice dare conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle che implicano la tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare; b) la confisca per equivalente prevista dall'art. 19, comma 2 del d.lgs. n. 231/2001, diversamente da quella del profitto diretto di cui al primo comma, sarebbe prevista come facoltativa in virtù del termine "può" contenuto nella disposizione. In realtà, come affermato dalla stessa Corte con la sentenza n. 11170/2014 in commento, quest'ultima costituisce affermazione isolata e non condivisibile perché il dato lessicale "può" valorizzato dalla sentenza segnala non la facoltatività o discrezionalità, ma il "carattere eventuale" della confisca per equivalente nel caso della non sussistenza dei due presupposti per procedere alla confisca diretta (obbligatoria nel caso di cose pericolose e di profitto diretto del reato). In questo senso, anche la confisca di valore prevista nel secondo comma dell'art. 19 del d.lgs. 231/2001 sarebbe obbligatoria, sebbene nella norma si usi il verbo "potere" e non "dovere". La sentenza del 09/10/2013 n. 48804 della Quinta Sezione, invece, punta sul necessario bilanciamento delle esigenze di tutela penale e quelle dei creditori che sarebbe espresso nel dettato dell'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, il quale fa salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede; secondo questa sentenza terzo in buona fede rispetto alle vicende personali del fallito è certamente il curatore, come pure i creditori insinuati. Anche in questo caso la Corte non ritiene condivisibile la drastica affermazione che il curatore ed i creditori insinuati siano i terzi in buona fede indicati dalla norma per il semplice fatto che essi non sono certamente titolari di «diritti acquisiti sui beni»: coloro che si insinuano nel fallimento vantando un diritto di credito non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare. Il curatore individuerà tutti i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento, arricchendola degli eventuali esiti favorevoli di azioni revocatorie, e soltanto alla fine della procedura si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori. Inoltre, il curatore, come messo in evidenza dalla giurisprudenza civilistica oltre che da quella penale, non può essere considerato come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei singoli creditori o del comitato dei creditori, ma deve essere visto come organo che svolge una "funzione pubblica" ed affianca il tribunale ed il giudice delegato per il perseguimento degli interessi dinanzi indicati. Secondo la Corte occorre partire dalla natura della confisca, così come configurata dal citato art. 19 e dalla stretta connessione funzionale tra il sequestro e la confisca. Il sequestro, previsto dall'art. 53 in relazione all'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, è disciplinato, infatti, in prospettiva della futura confisca, anche per equivalente, del prezzo e del profitto del reato. La confisca disciplinata dal decreto legislativo n. 231/2001, come è stato chiarito dalla prevalente dottrina, è una vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma, quando è disposta in danno di un ente ritenuto responsabile di un illecito amministrativo dipendente da reato. Nel caso di confisca per equivalente, per la verità, sembra essere più adeguato definire la confisca come uno strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti economici sono comunque andati a vantaggio dell'ente collettivo. In ogni caso, il d.lgs. 231/2001 tende a stabilire uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare e questo rapporto è ravvisabile, non solo per la confisca del prezzo e del profitto del reato, ma anche per la confisca per equivalente prevista dal comma 2 dell'art. 19: la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che quando sia stata accertata la responsabilità dell'ente, la confisca ex art. 19 d.lgs. 231/2001 è "obbligatoria" sia riguardo al profitto o al prezzo del reato sia nei confronti di beni a questi equivalenti.
Clausola di salvaguardiaLa clausola di salvaguardia "sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede" non è ripetuta nel comma 2 dell'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, ma secondo la Cassazione è fuori contestazione che essa si riferisca anche al sequestro di valore perché con il secondo comma si estende soltanto la possibilità di confisca di danaro e beni di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato, fermi restando, quindi, i limiti fissati dal comma 1 dello stesso articolo: gli enti, resisi responsabili di illeciti amministrativi derivanti da reato, devono essere perseguiti e puniti con la confisca degli illeciti proventi al fine di ristabilire il turbato equilibrio economico, ma ciò non deve avvenire in pregiudizio di terzi che siano titolari di diritti acquisiti in buona fede sui beni oggetto di sequestro e confisca. Nel caso pratico all'attenzione della Corte, poi deciso con la sentenza 11170/2014, era accaduto che nel corso del procedimento teso ad accertare la responsabilità dell'ente, quest'ultimo era stato dichiarato fallito. I beni appartenenti alle due società sono stati acquisiti alla massa attiva fallimentare, ma su detti beni gravava già il vincolo imposto dal sequestro, anche per equivalente, adottato dal competente giudice per l'udienza preliminare ai sensi degli artt. 19 e 53 d.lgs. n. 231 del 2001 (per la violazione degli artt. 2632 c.c. e 2637 c.c., rispettivamente formazione fittizia di capitali e aggiotaggio previsti, a differenza della bancarotta fraudolenta, come reati-presupposto nel d.lgs. 231/2001). Da questa situazione è sorto il problema del rapporto tra i due vincoli (sequestro e fallimento) e cioè quale dei due dovesse prevalere sul presupposto, implicito e non dimostrato, che non fosse consentito apporre due vincoli diversi sugli stessi beni. A tal proposito, la Cassazione ha avuto modo di chiarire che: 1) è escluso che il fallimento della società determini l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001, 2) non esiste alcuna norma che vieti l'apposizione di più vincoli sugli stessi beni e la logica del sistema, al contrario, consente e prevede l'apposizione di più vincoli. In particolare, è ben possibile disporre il sequestro su beni sui quali sia già stato apposto tale vincolo in altro procedimento penale. Con riferimento specifico alla ipotesi di beni facenti parte della massa del fallimento si è ritenuto che il sequestro preventivo nel corso di un procedimento per "bancarotta fraudolenta" per distrazione dei beni del fallito è legittimo quando il pericolo derivante dalla libera disponibilità delle cose sottratte o delle risorse economiche frutto della loro alienazione presenti i requisiti della concretezza ed attualità, nel senso che in seguito alla consumazione del reato possano prodursi conseguenze ulteriori (ricordiamo che l'art. 321 c.p.p. dice espressamente "quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati"). La Suprema corte osserva che le finalità dei due vincoli - quello imposto dall'apertura della procedura fallimentare e quello derivante dal sequestro e/o dalla confisca - sono del tutto differenti e tra loro non confliggenti: a) il sequestro dei beni ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 mira a preservare i beni da sparizioni ed occultamenti e che si presume siano stati acquisiti illecitamente (in questo senso presenta analogie con il "sequestro conservativo" penale perché posto a tutela di beni sui quali possa essere esercitata la pretesa dello Stato in caso di condanna dell'ente);b) b) il vincolo apposto sui beni del fallito mira a spossessare il fallito o la società fallita dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, ad evitare ulteriori depauperamenti del patrimonio stesso, a garantire cioè la par condicio creditorum. Per questo motivo i due vincoli possono coesistere e l'uno non ostacola l'altro, anzi si può dire che il sequestro prima e la confisca poi, eseguiti ai sensi del d.lgs. 231/2001, oltre a tutelare la pretesa dello Stato tutelano anche, in misura rafforzata, gli interessi del ceto creditorio. Prova dell'acquisizione dei diritti da parte del terzoRiguardo alla questione della prova dell'acquisizione da parte del terzo di diritti sui beni oggetto di sequestro/confisca è bene chiarire che l'art. 19 del d.lgs. 231/2001 non pone alcun limite temporale alla prova della acquisizione del diritto, nel senso che non è vero che la titolarità del diritto debba essere riconosciuta al terzo prima che venga disposta la confisca; può benissimo accadere, infatti, che al terzo venga riconosciuta l'acquisizione in buona fede del diritto dopo che sia stata disposta la confisca. E' il giudice penale che, nel disporre il sequestro o la confisca, dovrà valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede; e in caso di esito positivo il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non sarà sottoposto né a sequestro né a confisca. La Corte ha avuto modo di chiarire però, che la valutazione della sussistenza della buona fede del terzo non spetta al giudice fallimentare bensì al giudice penale. Nel procedimento da cui è scaturita la già richiamata sentenza n. 11170/2014, i ricorrenti eccepivano che ai sensi dell'art. 1147 comma terzo del c.c., la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al momento dell'acquisto (la regola giurisprudenziale che fa carico al creditore di dimostrare la sua buona fede troverebbe giustificazione solo nel contesto delle misure antimafia). La Corte respingeva tale tesi dichiarandola infondata affermando che terzo è la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità, pertanto soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l'insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca: veniva precisato che il concetto di buona fede per il diritto penale è diverso da quello di buona fede civilistica a norma dell'art. 1147 c.c.. In particolare, da un punto di vista strettamente penale: 1) anche la colposa inosservanza di doverose regole di cautela esclude che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare; 2) è demandato al giudice l'accertamento dei fatti sicché egli disporrà il sequestro ed ordinerà la confisca sui beni provento dell'illecito appartenenti alla società, ma non potrà apporre il vincolo su beni acquisiti dai terzi in buona fede; pertanto dovrà necessariamente accertare quale sia la titolarità dei beni e quali le modalità di acquisizione da parte dei terzi. Infine, la Corte afferma che l'inversione dell'onere della prova in tema di "buona fede" non trova fondamento in norme giuridiche ma che, tuttavia, sembra del tutto ragionevole pretendere un onere di allegazione a carico del terzo, infatti, se la confisca dei beni di cui all'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 è disposta perché viene accertato, a seguito di un processo penale, che i beni oggetto del provvedimento costituiscono profitto di un illecito amministrativo derivante da reato, appare logico e conseguenziale che per vincere una tale situazione è l'interessato, che si proclama estraneo al reato, che deve fare emergere la regolarità del suo titolo di acquisto e la buona fede che soggettivamente lo caratterizzava. Il sequestro di beni provento di attività illecitaAl fine di chiarire i rapporti tra procedura fallimentare e varie misure cautelari, può essere utile ricordare i principi stabiliti dalla Suprema corte con la sentenza del 09 luglio 2004 n. 29951. Il curatore è organo che svolge una funzione pubblica nell'ambito dell'amministrazione della giustizia, incardinato nell'ufficio fallimentare a fianco del tribunale e del giudice delegato, quale "ausiliario di giustizia" e, di conseguenza, è sempre e costantemente "terzo rispetto a tutti", perfino quando agisce per la tutela di un diritto già esistente nel patrimonio del fallito e che avrebbe potuto essere fatto valere da quest'ultimo se non fosse intervenuto il fallimento. Il curatore è investito dei propri poteri dalla legge ed è nominato dal tribunale fallimentare, in maniera del tutto autonoma rispetto alla volontà del fallito ed il fatto che tuteli indirettamente anche gli interessi di quest'ultimo, oltre che quelli dei creditori, non può significare che gli si debba riconoscere una funzione di rappresentanza, dal momento che tale tutela è comunque rivolta all'esecuzione forzata del patrimonio sottoposto alla procedura concorsuale. (Anche nei casi in cui viene considerato avente causa del fallito, ad esempio quando esercita un diritto già presente nel patrimonio di questi, è sempre l'interesse della procedura ad essere tutelato dall'ufficio fallimentare e non quello del fallito o dei creditori). Non sono pertanto corrette le tesi che considerano il curatore un rappresentante del fallito, rappresentante dei creditori o dell'ente fallimentare, ovvero sostituto del fallito, dei creditori o dell'uno e degli altri. Il fallimento priva l'imprenditore dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, trasferendoli alla curatela, ma tale "spossessamento" non si traduce in una perdita della proprietà in capo al fallito, risolvendosi, invece, nella destinazione della totalità dei beni a soddisfare i creditori. I beni entrano nella disponibilità amministrativa del curatore, sotto il controllo del giudice delegato e del tribunale fallimentare. Se, in pendenza dell'esecuzione collettiva, il fallito compie atti di disposizione dei suoi beni ovvero di assunzione di obbligazioni, tali atti sono soltanto inopponibili al fallimento, inefficaci per i creditori che partecipano alla procedura ma validi nei confronti del contraente e dei terzi estranei al fallimento; in ogni caso, a liquidazione concorsuale esaurita, spetta al fallito il sopravanzo. 4.1 Nel caso del sequestro probatorio (di cui all'art 253 c.p.p.) [13] non vi è alcuna coincidenza di funzioni tra il provvedimento di sequestro e la procedura fallimentare. Il sequestro probatorio persegue interessi differenti da quelli considerati dal fallimento, in particolare tutela direttamente il processo, acquisendo cose (corpo del reato e cose pertinenti al reato) necessarie per l'accertamento dei fatti; si tratta, quindi, di una misura strumentale alle esigenze processuali, che persegue il superiore interesse della "ricerca della verità" nel procedimento penale. Esso, pertanto, senza alcun dubbio, può legittimamente essere disposto su beni già appresi al fallimento e, se anteriore al fallimento, manterrà la propria efficacia anche in seguito alla sopravvenuta apertura della procedura concorsuale ed indipendentemente da questa. La procedura concorsuale non può ostacolare l'accertamento dei reati, quindi il mantenimento del sequestro penale dipenderà esclusivamente dal permanere delle esigenze probatorie e solo quando non sarà più necessario ai fini di prova, si procederà alla restituzione dei beni sequestrati 4.2 Nel caso di sequestro c.d. impeditivo (di cui all'art. 321 c.p.p., 1° comma) secondo la Cassazione il giudice - a fronte di una dichiarazione di fallimento del soggetto a cui il bene appartenga - ben può disporre l'applicazione, il mantenimento o la revoca del sequestro anzidetto, ma tuttavia, nel discrezionale giudizio sulla pericolosità della res, dovrà effettuare una valutazione di bilanciamento del motivo della cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori. Alla stregua di tale valutazione, il bene sequestrato potrà anche essere restituito all'ufficio fallimentare, ferma restando, ovviamente, la possibilità di nuova applicazione della misura di cautela reale nei casi in cui ritorni attuale la sussistenza dei presupposti. 4.3 Nel sequestro funzionale alla confisca, (di cui all'art 321 c.p.p., 2° comma), il periculum si ricollega la "confiscabilità" del bene, che non è correlata alla pericolosità sociale dell'agente ma a quella della res. Occorre distinguere: a) il sequestro preventivo funzionale alla confisca "facoltativa" (cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e che ne sono il prodotto o il profitto) di beni provento di attività illecita dell'indagato e di pertinenza di un'impresa dichiarata fallita, è consentito a condizione che il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare; b) il sequestro avente ad oggetto un bene confiscabile in via "obbligatoria" è assolutamente insensibile alla procedura fallimentare. Nel caso di confisca obbligatoria (prevista dall'art 240, 2° comma c.p.[14] ovvero da leggi speciali) il rapporto di pertinenzialità tra bene e reato è interamente assorbito nella verifica della "confiscabilità" del bene. La valutazione che viene richiesta al giudice sulla pericolosità della cosa non contiene margini di discrezionalità, in quanto la res è considerata pericolosa in base ad una presunzione assoluta: la legge vuole escludere che il bene sia rimesso in circolazione per cui non può consentirsi che il bene stesso sia restituito all'ufficio fallimentare per essere venduto e il ricavato distribuito ai creditori. Le finalità del fallimento non sono in grado di assorbire la funzione svolta dal sequestro, pertanto, le ragioni di tutela dei terzi sono destinate ad essere pretermesse rispetto alla prevalente esigenza di tutela della collettività. 4.4 Quanto al sequestro conservativo penale, l'art. 316 c.p.p. subordina l'emissione del provvedimento cautelare al presupposto che vi sia fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, oltre che per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario. Il sequestro conservativo rientra, in caso di fallimento dell'obbligato, nell'area di operatività del divieto di cui all'art. 51 L.F. (secondo cui "dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento"). Vi è quindi l'inefficacia del sequestro di cui all'art. 316 c.p.p. qualora sia disposto in pendenza di fallimento, anche se il reato è stato commesso prima dell'apertura della procedura concorsuale; dall'altro, la caducazione della misura qualora il fallimento intervenga successivamente. Non si giustifica, infatti, il mantenimento di un sequestro conservativo in presenza dell'acquisizione fallimentare dei beni, che garantisce in modo eguale tutti i creditori, senza compromettere l'interesse di eventuali rivendicanti, che potranno far valere i loro diritti nei modi, nei tempi e nelle forme previste dal processo fallimentare (art. 103 Procedimenti relativi a domande di rivendica e restituzione e art. 24 Competenza del tribunale fallimentare, L.F.). La situazione dell'imprenditore fallito si pone in rapporto di specialità rispetto a quella dell'imputato tenuto alle obbligazioni civili scaturenti dal reato, per cui trova applicazione la normativa speciale del fallimento: il curatore è ammesso a chiedere la revoca del sequestro conservativo, ottenuto nei confronti del fallito dalla parte civile costituita in un procedimento penale prima della dichiarazione di fallimento, indipendentemente dal fatto che all'epoca del sequestro il fallito non versasse in stato di insolvenza e che il sequestro sia posto a garanzia di crediti privilegiati. Sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativaIl sequestro preventivo di somme di denaro che costituiscono profitto diretto del reato è sicuramente ammissibile sia allorquando la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l'attività criminosa sia ogni qual volta sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare (vedi Cass., Sez. VI, 25 marzo 2003, n. 23773, Madaffari). Come già detto (infra) il sequestro deve essere adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza del presupposto del "fumus commissi delicti". Il compendio probatorio non deve avere la consistenza dei "gravi indizi di colpevolezza" richiesta per l'applicazione delle misure cautelari personali, ma non può essere del tutto assente e anzi occorre che il pubblico ministero dimostri l'esistenza di "concreti elementi" per riferire il reato alla persona dell'indagato. Dubbi sorgono, in questo specifico caso, circa l'esatta delimitazione del concetto di profitto diretto del reato: si ritiene che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non imponga che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale. Si afferma, tuttavia, che deve sussistere il "rapporto pertinenziale", quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il denaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito. Nella questione all'attenzione della Suprema corte (Sent. n. 29951/2004 richiamata), il G.I.P. del Tribunale di Asti aveva giustificato la scelta con cui aveva applicato la misura cautelare ai fini preventivi, con l'esigenza di evitare che il denaro confiscabile venisse disperso o utilizzato, anche mediante l'assegnazione ai creditori del fallimento tra i quali figuravano alcuni dei soggetti indagati nel procedimento e delle società a vario titolo coinvolte nelle indagini. Rispetto a tali somme — applicando i principi di diritto dianzi affermati — il Tribunale del riesame avrebbe dovuto valutare: · la relazione delle somme in oggetto con i reati dei quali costituirebbero profitto illecito, · le concrete conseguenze della eventuale restituzione, nella prospettiva di conciliazione degli interessi connessi alla confisca con quelli della procedura fallimentare e dei creditori. Siccome tale "valutazione di bilanciamento" a parere della Cassazione non era stata effettuata, si procedeva all'annullamento dell'impugnata ordinanza, limitatamente al sequestro delle somme depositate sui conti correnti oggetto del ricorso, con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Asti. GiurisprudenzaIl sequestro preventivo di beni appartenenti a terzi, quando ne sia certa la "pertinenza" al reato di bancarotta fraudolenta per effetto del carattere meramente fittizio della loro intestazione e della effettiva riconducibilità degli stessi all'indagato, non è impedito dal fatto che il giudice delegato al fallimento, accogliendo la domanda di rivendicazione, ne abbia disposto la restituzione al formale intestatario, attesa la reciproca autonomia fra procedura fallimentare e procedimento penale, sul quale incidono con efficacia di giudicato le sole sentenze civili che abbiano deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza (Sez. 5, Sentenza n. 19078 del 22/01/2015). In tema di responsabilità da reato degli enti, il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita (In motivazione la Corte ha precisato che il curatore, in quanto soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare, non è titolare di diritti sui beni in sequestro, nè può agire in rappresentanza dei creditori, non essendo anche questi ultimi, prima assegnazione dei beni e della conclusione della procedura concorsuale, titolari di alcun diritto sugli stessi) (Sez. U, Sentenza n. 11170 del 25/09/2014). La procedura di prevenzione patrimoniale diretta alla confisca di beni prevale su quella fallimentare, sia quando il fallimento sia stato dichiarato prima del sequestro preventivo, sia quando sia stato dichiarato successivamente, dovendo essere privilegiato l'interesse pubblico perseguito dalla normativa antimafia rispetto all'interesse meramente privatistico della "par condicio creditorum" perseguito dalla normativa fallimentare (Sez. 1, Sentenza n. 16797 del 22/03/2011). In tema di responsabilità da reato degli enti, è ammissibile il sequestro preventivo a fini di confisca di beni in misura equivalente al profitto derivante dal reato anche quando la società cui gli stessi appartengono sia fallita, ma spetta al giudice dare conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle che implicano la tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare (Sez. 5, Sentenza n. 33425 del 08/07/2008). In tema di bancarotta fraudolenta (art. 216 L. fall.), è legittima l'ordinanza che applica la misura cautelare del sequestro preventivo prima della sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto la previsione di cui all'art. 238 L. fall. consente lo svolgimento di attività di indagine in relazione al reato in questione anche prima della sentenza dichiarativa di fallimento, a condizione che ricorrano indizi dello stato di insolvenza (art. 7 L. fall.) o che concorrano gravi motivi e sia stata presentata domanda per ottenere la dichiarazione di fallimento. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la sentenza del giudice di merito che aveva ravvisato i gravi motivi di cui all'art. 238 L. fall. in consistenti debiti nei confronti di innumerevoli soggetti nonché nella creazione di una fitta rete di società collegate preordinate al raggiungimento di finalità aventi rilievo penale) (Sez. 5, Sentenza n. 43871 del 09/11/2005). In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca di beni appartenenti alla società fallita, la curatela fallimentare non è "terzo estraneo al reato", in quanto il concetto di appartenenza di cui all'art. 240 comma 3 c.p. ha una portata più ampia del diritto di proprietà, sì che deve intendersi per terzo estraneo al reato soltanto colui che non partecipi in alcun modo alla commissione dello stesso o all'utilizzazione dei profitti derivati. (In motivazione la Corte ha precisato che la sentenza che dichiara il fallimento priva la società fallita dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori, ma che tale effetto di spossessamento non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare). (Conf. Sez. un., 24 maggio 2004, curatela fall. in proc. Romagnoli, non massimata sul punto) (Sez. U, Sentenza n. 29951 del 24/05/2004). Contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo, legittimato a proporre appello, ai sensi dell'art. 322-bis c.p.p., è anche il curatore del fallimento che, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, chieda la restituzione delle somme di denaro sequestrate, riferibili alla società fallita, ancorché derivanti da condotte illecite poste in essere dall'imprenditore (la Corte ha in sostanza riconosciuto che il curatore può essere qualificato come persona che, secondo la previsione dell'art. 322-bis c.p.p., avrebbe diritto alla restituzione delle cose sequestrate) (Sez. 2, Sentenza n. 24160 del 16/05/2003). In tema di bancarotta fraudolenta, può farsi luogo a sequestro preventivo anche nella ipotesi in cui la distrazione dei beni sia già stata consumata, atteso che, da un lato, è possibile che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato ne aggravi o ne protragga le conseguenze e, dall'altro, le conseguenze del reato stesso vanno oltre il semplice atto dispositivo, mentre la predetta misura cautelare reale svolge la funzione di vincolare - proprio dopo il fallimento - il patrimonio del fallito alla garanzia spettante alla intera massa dei creditori (Sez. 5, Sentenza n. 44818 del 26/10/2001). Il fallimento priva il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione del fallimento trasferendo l'una e l'altra alla curatela, tenuta alla gestione del patrimonio ai fini di soddisfacimento dei creditori; detta privazione (il c.d. spossessamento) non si traduce tuttavia in una perdita della proprietà in capo al fallito e si risolve, invece, nella destinazione della totalità dei beni a soddisfare i creditori, oltre che nell'assoluta insensibilità del patrimonio all'attività svolta dall'imprenditore successivamente alla dichiarazione di suo fallimento. Alla curatela fallimentare, che ha un compito esclusivamente gestionale e mirato al soddisfacimento dei creditori, non si attaglia pertanto il concetto di appartenenza. Ne consegue la legittimità del sequestro preventivo disposto sui beni del fallito in forza della disposizione di cui al secondo comma dell'art.321 c.p.p., relativo alla sottoponibilità a sequestro delle cose di cui è consentita la confisca ex art. 240 c.p. (Nella fattispecie la Corte ha rigettato il ricorso del curatore circa la applicabilità del terzo comma dell'art.240 c.p. sulla non confiscabilità delle cose appartenenti all'estraneo) (Sez. 5, Sentenza n. 1926 del 30/03/2000).
Considerazioni finaliLe argomentazioni su esposte portano a delineare alcuni punti sufficientemente certi: 1) esistenza di un doppio principio di legalità per l'affermazione di responsabilità degli enti ossia che il fatto commesso dagli organi apicali dell'ente sia previsto da una legge entrata in vigore prima della commissione dello stesso e che il fatto commesso sia previsto nel tassativo elenco dei reati presupposto; 2) illegittimità di qualsiasi sequestro e confisca ex artt. 19 e 53 del d.lgs. 231/2001 di beni profitto diretto o indiretto del reato di bancarotta fraudolenta, atteso che nessun reato fallimentare rientra tra quelli previsti come presupposto per le citate misure cautelari reali; 3) le finalità dei due vincoli - quello imposto dall'apertura della procedura fallimentare e quello derivante dal sequestro e/o dalla confisca previsti dal d.lgs. 231/2001 - sono del tutto differenti e tra loro non confliggenti, pertanto i vincoli possono coesistere; 4) la verifica delle ragioni dei terzi, al fine di accertarne la buona fede, spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare; 5) terzo è la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità; 6) l'inversione dell'onere della prova in tema di buona fede non trova fondamento in norme giuridiche, tuttavia sembra del tutto ragionevole pretendere un onere di allegazione a carico del terzo; 7) la confisca di cui all'art. 19 comma 2 del d.lgs. 231/2001 (c.d. per equivalente), nonostante l'uso della parola "può" è da considerare obbligatoria nel senso che il "può" starebbe a significare il "carattere eventuale" della confisca per equivalente nel caso di insussistenza dei presupposti per procedere alla confisca diretta; 8) il curatore e i creditori insinuati non possono essere considerati terzi in buona fede ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. 231/2001, per il semplice fatto che essi non sono certamente titolari di "diritti acquisiti sui beni" ma vantano un diritto di credito che solo la procedura fallimentare stabilirà se possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare; 9) il curatore deve essere visto non come terzo ma come organo che svolge una "funzione pubblica" ed affianca il tribunale ed il giudice delegato per il perseguimento degli interessi del suo ufficio – la curatela fallimentare; 10) inidoneità della procedura fallimentare ad assorbire la funzione della misura cautelare reale e quindi sub-valenza delle ragioni dei terzi creditori rispetto alle esigenze di tutela della collettività.
[1] Art. 5 Responsabilità dell'ente – d.lgs. 231/2001 1. L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). 2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi. [2] Art. 6 comma 5 d.lgs 231/2001 È comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente. [3] Art. 236. Concordato preventivo e amministrazione controllata - L.F. 1. È punito con la reclusione da uno a cinque anni l'imprenditore, che, al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo di amministrazione controllata, siasi attribuito attività inesistenti, ovvero, per influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti. Nel caso di concordato preventivo o di amministrazione controllata, si applicano: 1) le disposizioni degli artt. 223 e 224 agli amministrato i, direttori generali, sindaci e liquidatori di società, omissis [4] Art. 223. Fatti di bancarotta fraudolenta – L.F. 1. Si applicano le pene stabilite nell'art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo. 2. Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell'art. 216, se: 1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile; 2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società. 3. Si applica altresì in ogni caso la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 216. [5] Art. 42. Beni del fallito – L.F. 1. La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento. 2. Sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi. 3. Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi. [6] Art. 273 c.p.p. - Condizioni generali di applicabilità delle misure 1. Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza. 1-bis. Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articoli 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1. [7] Art. 354 c.p.p. Accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone. Sequestro 1. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria curano che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell'intervento del pubblico ministero. 2. Se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente, ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose. In relazione ai dati, alle informazioni e ai programmi informatici o ai sistemi informatici o telematici, gli ufficiali della polizia giudiziaria adottano, altresì, le misure tecniche o impartiscono le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne l'alterazione e l'accesso e provvedono, ove possibile, alla loro immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una procedura che assicuri la conformità della copia all'originale e la sua immodificabilità. Se del caso, sequestrano il corpo del reato e le cose a questo pertinenti. Omissis [8] Art. 6 - d.lgs. 231/2001 Soggetti in posizione apicale e modelli di organizzazione dell'ente 5. E' comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente. [9] Art. 322 c.p.p. - Riesame del decreto di sequestro preventivo 1. Contro il decreto di sequestro emesso dal giudice l'imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre richiesta di riesame, anche nel merito, a norma dell'articolo 324. 2. La richiesta di riesame non sospende l'esecuzione del provvedimento. [10] In tema di riesame del sequestro preventivo, va riconosciuta la legittimazione all'impugnazione in favore dell'indagato che, sebbene non sia proprietario del bene, ne abbia comunque la disponibilità. Ed invero, l'interesse diretto ed attuale ai sensi dell'art. 568 c.p.p., sussiste quando vi sia la possibilità di ottenere un beneficio dalla rimozione del provvedimento impugnato, nella finalità di evitare che dalla misura derivino o possano derivare lesioni di un diritto o di una situazione giuridica comunque tutelata" (Cass. Penale, Sezione V, 21 gennaio 1999, n. 365) Pur non potendosi disconoscere la generica legittimazione dell'indagato o dell'imputato alla proposizione della richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo, anche se concernenti beni formalmente appartenenti a terze persone, deve, tuttavia, pur sempre individuarsi, in capo a lui, un concreto interesse alla proposizione dell'impugnazione, enucleabile soltanto in base alla fattispecie considerata e alle prospettazioni dell'interessato (Cass. Penale, Sezione I, 18 settembre 1997, n. 5039). [11] Art. 322-bis c.p.p. - Appello 1. Fuori dei casi previsti dall'articolo 322, il pubblico ministero, l'imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, possono proporre appello contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo e contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal pubblico ministero. 1-bis. Sull'appello decide, in composizione collegiale, il tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l'ufficio che ha emesso il provvedimento. 2. L'appello non sospende l'esecuzione del provvedimento. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell'articolo 310. [12] Art. 42 L.F. - Beni del fallito - 1. La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento. [13] Art. 253 c.p.p. - Oggetto e formalità del sequestro 1. L'autorità giudiziaria dispone con decreto motivato il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti. 2. Sono corpo del reato le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo. 3. Al sequestro procede personalmente l'autorità giudiziaria ovvero un ufficiale di polizia giudiziaria delegato con lo stesso decreto. 4. Copia del decreto di sequestro è consegnata all'interessato, se presente. [14] Art. 240 c.p. - Confisca 2. E' sempre ordinata la confisca: 1) delle cose che costituiscono il prezzo del reato; 1-bis) dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione dei reati di cui agli articoli 615-ter, 615-quater, 615-quinquies, 617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies, 640-ter e 640-quinquies) 2) delle cose, la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione o l'alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna. |
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