Data: 24/01/2016 12:00:00 - Autore: Dott. Stefano Tamagna

Dott. Stefano Tamagna - Come noto, l'art. 609 bis c.p. statuisce che ‘chiunque, con violenza o minaccia o mediante uso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni'.

Tale norma tutela la libertà di autodeterminazione sessuale riconosciuta ad ogni individuo e punisce chi, mediante le sopracitate condotte, costringa la vittima a compiere o subire atti sessuali.

La nozione di atto sessuale si ricava dalla sommatoria dei concetti –ormai superati- di congiunzione carnale ed atti di libidine (in precedenza costituenti due autonome figure di reato); di talchè in tale nuova definizione vengono ricompresi tutti quegli atti che esprimano o stimolino la concupiscenza sessuale del soggetto agente mediante invasione dell'altrui sfera sessuale (Cass. N. 44246/05).

Tanto premesso, scopo del presente contributo è esaminare, da un punto di vista processuale, ed in particolare sul piano probatorio, come la giurisprudenza risolva quei casi in cui ci si trovi a dover basare la decisione sulle sole dichiarazioni della persona offesa, con tutte le difficoltà che ne conseguono. Ciò perché, normalmente, la vittima di violenza viene aggredita all'infuori di un contesto nel quale l'agente possa essere visto o comunque nel rischio di un intervento da parte di terzi che possa interrompere la condotta criminosa.

Il problema centrale è quindi porre in luce come la giurisprudenza valuti, ai fini probatori, la testimonianza della persona offesa, qualora la stessa sia, di fatto, l'unico mezzo di prova sul quale fondare un'eventuale condanna.

Sul punto, autorevoli pronunce della Corte di Cassazione statuiscono che ‘in tema di valutazione della prova testimoniale il giudice può fondare il proprio convincimento anche sulla sola deposizione della persona offesa, previo adeguato controllo sulla credibilità della stessa, da effettuarsi con ogni cautela e cioè con un esame particolarmente penetrante e rigoroso attraverso la conferma di altri elementi probatori di modo che possa essere assunta, da sola, come fonte di prova' (Cass. N. 4946/96 e 43303/01).

Nel confortare quanto appena richiamato, si precisa che ‘in casi di violenza sessuale le dichiarazioni accusatorie sono quasi sempre singole, poichè l'aggressore tende ad approfittare delle condizioni di solitudine e di minore possibilità di difesa della vittima' (Cass. N. 593/98).

Pertanto, giacchè le dichiarazioni della persona offesa sono da un lato da considerarsi ‘di parte' (provenendo, le stesse, dalla vittima del reato, quindi da un soggetto che certamente ha un'interesse a vedere la punizione del colpevole) e dall'altro unica fonte di prova (per le condizioni ambientali in cui viene consumata la condotta), le stesse dovranno subire un'attento ed accurato vaglio da parte del giudice, il quale dovrà sottoporre le dichiarazioni ad un rigoro esame oggettivo e soggettivo.

Da un punto di vista oggettivo occorrerà quindi valutare la presenza o meno di certificati medici, il contesto ambientale e lo stato dei luoghi nel quale è avvenuto il fatto, la proposizione o meno della querela (ancorchè tale reato venga perseguito d'ufficio), l'esame delle dichiarazioni rese dall'indagato; mentre da un punto di vista soggettivo dovrà esaminarsi il racconto della persona offesa al fine di verificarne la credibilità, la mancanza di contraddizioni, la precisione nella descrizione e la presenza o meno di rapporti personali con l'aggressore al fine di escluderne eventuale astio o ritorsioni.

Tale assunto è confermato dal recente orientamento della Cassazione il quale ha ribadito che ‘nell'ambito dell'accertamento di reati sessuali, la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella di un testimone estraneo, può essere assunta da sola come fonte di prova della colpevolezza ove venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa dato che in tale contesto processuale il più delle volte l'accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi' (Cass. N. 44644/11). La Corte ribadisce quindi la necessità di un'imprescindibile controllo sulle dichiarazioni della vittima.

Un'isolata pronuncia, addirittura, nega la necessità di riscontri esterni volti a valutare le dichiarazioni della persona offesa: ‘Le dichiarazioni della persona offesa, vittima di violenza sessuale, possono essere assunte, anche da sole, come prova della responsabilità dell'imputato, non necessitando le stesse di riscontri esterni' (Cass. N. 1818/10); nel caso di specie la Corte, precisando che poichè al fatto non assistono testi, possono assumere rilievo anche le confidenze rese dalla vittima a terzi.

Di rilievo, infine, una recente sentenza del Supremo Collegio che attribuisce legittimità alla "valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa e all'eventuale giudizio di inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, in quanto non inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista un'interferenza fattuale e logica tra gli aspetti del narrato per i quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità e quelli che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrabili" (Cass. N. 3256/13).

Dott. Stefano Tamagna, patrocinatore legale del Foro di Parma

Specializzato in professioni legali

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