Data: 03/02/2016 14:00:00 - Autore: Avv. Marcella Ferrari

di Avv. Marcella Ferrari – marciferrari@gmail.com

Con la sentenza del 23 novembre 2015 n. 23868, la Corte di Cassazione subordina l'operatività della clausola risolutiva espressa alla valutazione del comportamento del debitore secondo buona fede.

In linea generale, la clausola di cui si tratta, disciplinata dall'art. 1456 c.c., prevede un'ipotesi di risoluzione di diritto e dispone che il contratto si risolva automaticamente allorché una determinata obbligazione non sia adempiuta. La parte non inadempiente gode di un diritto potestativo nei confronti dell'altro contraente e può decidere di valersi o meno della clausola[1]. Qualora intenda fruirne, tale comunicazione produce i medesimi effetti della domanda giudiziale di risoluzione[2] con una significativa differenza: non è necessario provare la gravità dell'inadempimento giacché le parti hanno già valutato preventivamente, con la redazione della clausola, quale violazione sia sufficiente a cagionare la risoluzione.

L'operatività della clausola, secondo quanto argomentato dalla sentenza in commento, va calibrato sulla scorta del principio di buona fede contrattuale, giacché, in caso contrario, si potrebbe palesare un'ipotesi di abuso del diritto, vale a dire un uso distorto, da parte del titolare del diritto, delle prerogative che la legge gli riconosce.

Nel caso di specie, tra le parti era stato concluso un contratto di licenza di marchio, la licenziante contestava l'inadempimento della licenziataria, rea di non aver comunicato, come invece previsto nel contratto, il listino dei prezzi alla fine della campagna di vendita, lamentando anche altre carenze; per contro, la licenziataria contestava tale inadempimento.

La Corte di Cassazione, nel suo percorso argomentativo, afferma che pur in presenza di una clausola risolutiva espressa le parti siano tenute ad un comportamento secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1375 c.c., ed al divieto di abuso del diritto.
Il diritto di risolvere il contratto mercé la clausola di cui all'art. 1456 c.c. è governato dal principio di bona fides[3] che rappresenta «una direttiva fondamentale per valutare l'agire dei privati e una concretizzazione delle regole di azione per i contraenti in ogni fase del rapporto». In buona sostanza, la buona fede rappresenta un canone di valutazione per l'inadempimento onde escludere quelle circostanze in cui il diritto di domandare la risoluzione del contratto si fondi solo su ragioni pretestuose; in caso contrario, l'esercizio del diritto potestativo concesso alla parte non inadempiente risulterà frutto di un abuso, in quanto volto a tutelare un interesse non protetto dall'ordinamento.
Pertanto, secondo i supremi giudici, per ottenere la risoluzione del contratto, non è sufficiente che la condotta del debitore integri materialmente il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, ma occorre valutare se la sua condotta sia conforme a buona fede.

Avv. Marcella Ferrari – Avvocato del Foro di Savona

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[1] L'atto con cui la parte non inadempiente si avvale della clausola ha natura negoziale e funzione di autotutela; trattasi di un atto unilaterale, ricettizio e stragiudiziale. C.M. BIANCA, Diritto civile. La responsabilità, 5, Milano, Giuffrè, 1994, 316 ss.

[2] In tal senso A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, 650 ss.

[3] Articoli 1175, 1375, 1356, 1366, 1371 c.c.


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