|
Data: 29/01/2016 16:00:00 - Autore: Chiara Pezza di Chiara Pezza - La Corte Europea dei diritti dell'uomo si è pronunciata il 26 gennaio 2016 (deliberazione in data 5 gennaio 2016) sul ricorso 59474/11 presentato da un cittadino moldavo, Alexander Balakin, contro la Repubblica di Moldavia, in relazione alla supposta violazione dell'articolo 5 § 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950. Il ricorrente era stato accusato, il 21 agosto del 2009, di produzione e messa in circolazione di denaro contraffatto. Arrestato dalla polizia, veniva tradotto in custodia cautelare in attesa di giudizio, e trattenuto mentre venivano svolte ulteriori indagini. Da quel momento veniva prorogata la misura cautelare secondo modalità inizialmente mensili, e successivamente trimestrali, quando il caso è arrivato innanzi la corte distrettuale di Ialoveni. Le motivazioni fornite circa la costante reiterazione della custodia preventiva si riferivano ad un non meglio definito pericolo di reiterazione di reato, di occultamento delle prove o collusione con altri eventuali complici. Si sottolineava inoltre come il delitto di cui il signor Balakin veniva accusato costituisse un'offesa particolarmente grave, punibile con una pena detentiva fino ai quindici anni, e che il caso fosse complesso e complicato. Durante il periodo di detenzione l'indagato ha fornito alle autorità diverse argomentazioni, volte a permettergli di evitare la continua conferma della misura adottata. In particolare, il ricorrente sottolineava come, col passare dei mesi, fossero venute meno le esigenze investigative iniziali, a fronte del fatto che i testimoni erano stati sentiti e le loro dichiarazioni raccolte; le prove erano state puntualmente esaminate dalla corte presso cui la causa era stata nel frattempo istruita; non sussistevano ragioni che indicassero una sua tendenza alla reiterazione del reato. Il detenuto forniva anche la sua disponibilità agli arresti domiciliari, qualora la scarcerazione non fosse proprio ritenuta applicabile al suo caso. Argomentava inoltre come, in ottemperanza dell'articolo 186 § 8 del codice di procedura criminale, una volta che il caso venga istruito innanzi ad una corte la detenzione non può durare per un periodo di tempo superiore ai sei mesi, salvi casi eccezionali. La corte distrettuale di Ialoveni respingeva le istanze del signor Balakin, qualificando la sua situazione come eccezionale e reiterando ulteriormente la misura cautelare. In data 30 gennaio 2012 il ricorrente è stato ritenuto responsabile del reato contestato e condannato a sette anni di detenzione. Nel complesso, dal suo arresto alla sentenza di condanna, è stato trattenuto in carcere per un totale di ventinove mesi, quindi quasi due anni e mezzo. Alla luce dei fatti, nel ricorso si lamentava la violazione dell'articolo 5 § 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, secondo il quale: "ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 (c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all'udienza". Il paragrafo 1 (c) dell'articolo 5 (posto a tutela del diritto fondamentale alla libertà ed alla sicurezza), sancisce uno dei casi possibili in cui, nei modi previsti per legge, tale diritto umano può essere limitato: se la persona è stata arrestata o detenuta per essere tradotta dinanzi all'autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirle di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nella disamina del caso, riconosce fondate le istanze del ricorrente, soffermandosi sulla funzione dell'articolo 5 della Convenzione e sulla reiterazione della misura cautelare preventiva che sia priva di fondamenti giuridici specifici. Secondo quanto statuito dal collegio giudicante, che si rifà alla precedente giurisprudenza della stessa Corte EDU in materia, l'indagato deve sempre essere rilasciato in attesa di processo ("pending trial"), a meno che l'autorità nazionale mostri che sussistono ragioni rilevanti e sufficienti, atte a giustificare la detenzione continuata. Non solo, in quanto la Corte specifica come occorra che venga prestata una "particolare diligenza", da parte delle autorità, nella gestione delle attività investigative e procedimentali. In particolare, la disposizione di cui all'articolo 5 § 3 della CEDU non va intesa quale attributiva di una presunta possibilità di scelta, in capo allo Stato, fra portare a giudizio l'indagato in un tempo ragionevole, o garantirgli un rilascio provvisorio in attesa di giudizio. L'aspetto che rileva, e dal quale non può prescindersi, è sempre la presunzione di non colpevolezza dell'accusato: una volta che la detenzione reiterata non sia più supportata da idonee motivazioni giuridiche, la custodia preventiva deve cessare di essere applicata. Nell'approfondire la questione, i giudici riconoscono come il ragionevole sospetto in capo all'accusato della commissione del reato costituisce indubbiamente conditio sine qua non per la legittimità della carcerazione preventiva. Tuttavia, l'iniziale sospetto di colpevolezza non può costituire unica ragione della misura cautelare nel lungo periodo, in quanto in tali situazioni occorre che vengano di volta in volta fornite dalla pubblica autorità altre prove a sostegno della legalità della detenzione. La produzione di nuove cause giustificanti la misura (per quanto minime esse possano essere) assurge ad onere delle autorità preposte. A parere della Corte EDU è pertanto riscontrabile la violazione dell'articolo 5 § 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Si è infatti verificato, nel caso in analisi, un prolungamento automatico della detenzione preventiva, come peraltro emerge dagli atti prodotti, nei quali veniva solamente confermata la custodia cautelare operando un semplice cambio di date, senza addurre nuove prove a sostegno della misura. La corte distrettuale inoltre non ha fornito alcuna motivazione in ordine alle ragioni per le quali ritenesse ancora fondato - dopo oltre due anni dalla commisione del fatto di reato - il pericolo di inquinamento delle prove, la reiterazione del reato o la corruzione dei testimoni. |
|