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Data: 01/02/2016 21:20:00 - Autore: Marina Crisafi di Marina Crisafi - La valutazione della compatibilità tra malattia e lavoro è di competenza del giudice e non del consulente tecnico d'ufficio. A stabilirlo è la Cassazione, con la sentenza n. 1186/2016 (qui sotto allegata), esprimendosi su una vicenda relativa alla domanda di assegno ordinario di invalidità da parte di una lavoratrice ammalata gravemente. La corte d'appello di Roma, in accordo con la Ctu, aveva escluso che le patologie di cui era affetta la donna (un carcinoma alla mammella) potessero determinare la assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa concludendo nel senso della compatibilità con la malattia dell'impegno psicofisico richiesto per lo svolgimento dell'impiego (nella specie, ostetrica presso un consultorio) definito non usurante, e considerando irrilevante il parere della commissione dell'Asl che aveva riconosciuto una invalidità del 100%. Disattendendo le conclusioni del giudice d'appello, gli Ermellini affermano preliminarmente che, in base all'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 1 della l. n. 222/1984, il requisito sanitario, ai fini dell'assegno ordinario di invalidità (riconosciuto per tre anni e confermabile per periodi della stessa durata) è rappresentato dalla riduzione a meno di un terzo in modo permanente "a causa di infermità o difetto fisico o mentale" della capacità di lavoro, "in occupazioni confacenti alle … attitudini" dell'interessato e deve essere verificato al momento della presentazione della domanda amministrativa. Inoltre, si legge nella sentenza, per "attività confacente" deve intendersi quella che "sia non usurante, non dequalificante e remunerativa". Tali valutazioni, a detta di piazza Cavour, vanno effettuate in concreto, avendo riguardo al possibile impiego delle energie residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto. Mentre, per "lavoro usurante" deve intendersi quello che "accelera e accentua il logoramento dell'organismo, in quanto il lavoro è sproporzionato rispetto alla residua efficienza fisiopsichica di cui il soggetto ancora dispone, non identificandosi l'usura in questione con quella ‘normale', dipendente cioè non dalla protrazione dell'attività lavorativa, bensì dalla naturale evoluzione in senso peggiorativo delle infermità", trattandosi di un lavoro atto a determinare, nel suo perdurare, gravi pregiudizi per l'efficienza fisica dell'interessato e quindi da ritenere invalidante ai fini del diritto all'assegno (cfr. Cass. n. 15817/2002; Cass. n. 2031/1995). Ne consegue, che queste valutazioni non possono essere effettuate dal consulente tecnico d'ufficio ma sono di pertinenza esclusiva del giudice. "La consulenza tecnica – ha chiosato infatti la S.C. – ha un limite intrinseco consistente nella sua funzionalità alla risoluzione di questioni di fatto presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicchè così come i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica di fatti e la conformità al diritto di comportamenti, analogamente se, per ipotesi, il consulente effettua, di propria iniziativa, simili valutazioni non se ne deve tenere conto, a meno che esse vengano vagliate criticamente e sottoposte al dibattito processuale delle parti". Ciò non è avvenuto nel caso di specie, in cui la corte d'appello si è "appiattita" sulle valutazioni della Ctu, senza indagare oltre, per cui la sentenza va cassata e la parola passa al giudice del rinvio che dovrà tenere conto dei principi affermati, riconoscendo alla lavoratrice il diritto all'assegno di invalidità.
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