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Data: 03/02/2016 08:15:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Il figlio può legittimamente rifiutare di sottoporsi al test del DNA per il riconoscimento della paternità se manchi un principio di prova, documentale od orale, sulla veridicità del riconoscimento. Lo ha disposto la Corte di Cassazione, prima sezione civile, nella sentenza 1859/2016 (qui sotto allegata). Ricorrono dinnanzi alla Corte due uomini, citandone in giudizio un altro per contestare la sua qualità di figlio di un loro parente. I ricorrenti ritengono che il riconoscimento effettuato dal loro congiunto sia privo di veridicità: la loro domanda trova accoglimento in primo grado, sulla base del rifiuto del figlio a sottoporsi al prelievo di materiale biologico. La situazione cambia in sede di gravame in quanto la Corte d'Appello sostiene che l'uomo non avrebbe dovuto sottoporsi ad alcun esame per accertare la sussistenza o meno di compatibilità genetica con suo cugino. Questo porta al ricorso dinnanzi alla Suprema Corte dei parenti. Gli Ermellini propongono una lettura aggiornata dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale sulle azioni di stato, giungendo alla conclusione che il ricorso dei parenti vada respinto. Per i giudici la CTU genetica poteva dunque ammettersi, ma solo in presenza, quantomeno, di un principio di prova documentale od orale. La Corte territoriale, proseguono gli Ermellini, con valutazione circostanziata e approfondita dell'istruttoria testimoniale, ha escluso la sussistenza di un principio di prova mentre i ricorrenti tendono a proporne una valutazione differente, insuscettibile di controllo in Cassazione. Mancando, nel caso di specie, il principio di prova richiesto che giustifichi la sottoposizione al test, il rifiuto del figlio appare legittimo e il ricorso va rigettato, ma la difficoltà delle questioni dedotte, in parte nuove, anche alla luce della più recente disciplina, giustifica la compensazione delle spese.
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