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Data: 12/02/2016 17:30:00 - Autore: Valeria Zeppilli![]() di Valeria Zeppilli – La condanna per maltrattamenti in famiglia non può prescindere dall'accertamento di un atteggiamento di passiva soggezione da parte della vittima. Se questo atteggiamento manca, infatti, il reato non è configurabile. Specie se la vittima si contrappone reattivamente a tutti gli episodi di maltrattamento. Questo è quanto emerge dalla sentenza numero 5258/2016, depositata dalla sesta sezione penale della Corte di cassazione lo scorso nove febbraio (qui sotto allegata). I giudici di legittimità, in particolare, hanno confermato la sentenza con la quale la Corte d'appello aveva ribaltato la decisione del Tribunale di condanna di un uomo per maltrattamenti in famiglia e violenza privata all'esito di un giudizio abbreviato. Tra moglie e marito, infatti, nel caso di specie vi erano un'accesa conflittualità, forti tensioni e radicate contrapposizioni. Entrambi, inoltre, erano dotati di cultura, formazione professionale, condizioni sociali ed economiche superiori alla media. Dinanzi ai riscontrati atteggiamenti dell'imputato, dal temperamento irascibile e non incline alla moderazione, la moglie mostrava una capacità reattiva e nessun supino atteggiamento. Nonostante l'astratta configurabilità del reato, mancava, insomma, nella prassi la possibilità di identificare in quello tenuto dall'uomo un comportamento caratterizzato da tratti di abituale e sistematica prevaricazione e basato su una posizione di passiva soggezione di un soggetto nei confronti dell'altro, che solo avrebbe potuto configurare un'ipotesi di maltrattamenti in famiglia. Con l'occasione i giudici hanno chiarito anche che tale fattispecie criminosa deve consistere in una condotta abituale e composta da più atti, realizzati in momenti successivi, che comportano nella vittima una sofferenza sia fisica che morale nell'unica intenzione di ledere l'integrità del soggetto passivo. |
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