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Data: 28/02/2016 16:19:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Non commette reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio ex art. 321 del codice penale l'avvocato che paga i commessi giudiziari per ottenere favori come la prenotazione di udienze, il rilascio informale di copie o per essere informati sul contenuto di atti e provvedimenti, anche prima del deposito. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza n. 8070/2016 (qui sotto allegata) spiegando che manca in capo a tali soggetti la qualità soggettiva richiesta per la configurabilità del reato: neppure l'occasionalità a margine di mansioni di per sé di tipo esecutivo, può attribuire a costoro tale qualità, occorrendo in tal senso la tolleranza o l'acquiescenza o il consenso, almeno tacito, della pubblica amministrazione. Nel caso di specie, tre commessi giudiziari venivano chiamati a rispondere del delitto previsto dall'art. 319 c.p., "Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio" per aver ricevuto da alcuni legali, a loro volta imputati ex art. 321 c.p., somme di denaro in cambio di favori e informazioni inerenti lo svolgimento dell'attività forense. Per il G.U.P., tuttavia, in capo ai commessi giudiziari non era ravvisabile la qualità soggettiva richiesta per la configurazione del contestato reato proprio e, nonostante la pur abusiva attività, non si realizzava un effetto di legale conoscenza di provvedimenti. Secondo la procura però il giudice avrebbe dovuto valutare la configurabilità in capo agli imputati della qualifica di "funzionari di fatto", vagliando l'ipotesi di reato di cui all'art. 320 c.p., qualificando i soggetti come incaricati di pubblico servizio. I commessi, infatti, avevano svolto in modo sistematico e para-professionale le funzioni di comunicatori di dispositivi e costituito punto di riferimento per le altre attività oggetto di contestazione, cosicché era stato normale per loro lo svolgimento di mansioni di fatto equiparabili a quelle dei titolari dei rispettivi uffici, senza investitura formale. I giudici di legittimità, evidenziano in prima battuta che il commesso giudiziario non rientra nelle categorie dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio delineate dagli artt. 357 e 358 c.p., in quanto costoro non esercitano una pubblica funzione amministrativa caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della Pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. I loro compiti sono caratterizzati, non solo dalla mancanza dei poteri tipici della pubblica funzione, ma anche dallo svolgimento di mansioni d'ordine e di prestazioni di opera meramente materiale: in tal senso il G.U.P. ha operato un richiamo pertinente e condivisibile alla giurisprudenza relativa allo svolgimento di mansioni meramente esecutive e non di incaricato di pubblico servizio. Secondo quanto ritenuto dal Procuratore della Repubblica, tuttavia, si sarebbe dovuto aver riguardo alle mansioni di fatto concretamente svolte, eccedenti quelle assegnate e tali da far assumere ai commossi la qualità di funzionari di fatto o almeno di incaricati di pubblico servizio: il funzionario di fatto non si sarebbe potuto, secondo l'accusa, equiparare all'usurpatore e, d'altronde, nel caso di specie i commessi avevano dato vita a una sorta di "agenzia interna all'amministrazione della giustizia", con attività comunque equiparabili a quelle dei titolari dei rispettivi uffici. In realtà, precisano i giudici, nonostante la veste soggettiva sia di pubblico ufficiale sia di incaricato di pubblico servizio, possa essere riconosciuta nel caso di esercizio di fatto delle rispettive funzioni, il significato della nozione va individuato "nella concreta possibilità di attribuire l'attività del funzionario di fatto alla pubblica amministrazione di riferimento, nel quadro di un'apparenza che non si risolva in una mera usurpazione di funzioni". La nozione deve dunque essere qualificata da un dato aggiuntivo che è in genere individuato nello svolgimento di fatto accompagnato dall'acquiescenza o dalla tolleranza o dal consenso, almeno tacito della P.A. di riferimento. Nel caso di specie non sono stati offerti dai ricorrenti elementi idonei a sovvertire il giudizio su cui si è basata la pronuncia del G.U.P., non essendo stato dedotto che l'attività attribuita ai commessi avvenisse sulla base di un concerto inserimento di fatto della stessa nell'assetto organizzativo dell'ufficio in modo che potesse parlarsi di acquiescenza o tolleranza di quell'attività che è invece risultata abusiva e priva di qualsivoglia concreta legittimazione. Quell'attività non ha mai dunque assunto il crisma della sua attribuibilità all'ufficio, ma si è risolta nel compimento di atti materiali di comunicazione del tutto extra ordinem non riconducibili al tipo di attività imputabile ai titolari della funzione o del pubblico servizio. Vedi anche: la guida legale sul reato di corruzione
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