Data: 29/02/2016 11:00:00 - Autore: Avv. Paolo Accoti

Avv. Paolo Accoti - Il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c.: "è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

In altri termini, a carico del datore di lavoro, esiste un obbligo contrattuale teso a tutelare la salute e la sicurezza dei propri dipendenti suoi luoghi di lavoro, pertanto, qualora egli ometta di adottare tutte le cautele e le misure necessarie a salvaguardare l'integrità, fisica e morale, del dipendente, risponde dei danni da questi eventualmente subiti.

Sulla scorta di ciò un datore di lavoro, a seguito di una rapina subita presso una propria dipendenza, è stato condannato a risarcire il danno subito dal dipendente, a seguito della "prolungata soggezione a minaccia a mano armata", in assenza delle necessarie misure atte a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro.

La vicenda giudiziaria

A cagione dei pesanti carichi di lavoro e delle ripetute rapine – quattro in circa un anno – un dipendente evocava in giudizio il proprio datore di lavoro, al fine di vedersi risarcito il danno alla salute, conseguenza di un infarto acuto del miocardio, nonché quello morale, in virtù della tensione accumulata durante le riferite rapine, nel corso delle quali aveva dovuto soggiacere alle minacce portate dai rapinatori, armi in pugno.

La domanda in primo grado veniva rigettata, tuttavia, a seguito dell'interposto gravame da parte del lavoratore, la Corte d'Appello di Firenze, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno morale, subito dal lavoratore, in considerazione della "prolungata soggezione a minaccia a mano armata, in assenza delle misure protettive a carico datoriale ai sensi dell'art. 2087 c.c.", una volta accertato che la ditta datrice, aveva "omesso di adottare le adeguate protezioni poste a tutela del proprio dipendente".

Veniva, al contrario, respinta la domanda relativa al risarcimento de danno biologico, in virtù del fatto che, la disposta consulenza tecnica, aveva escluso il nesso di causalità tra le rapine subite e l'infarto del miocardico patito dal lavoratore, a seguito degli episodi ipertensivi occorsigli.

La Corte di Cassazione – Sez. Lavoro, successivamente adita dal datore di lavoro, con la sentenza del 19 febbraio 2016, n. 3306, respingeva il ricorso, confermando, pertanto, integralmente la decisione assunta in secondo grado.

I motivi della decisione

Il ricorrente lamenta, tra l'altro, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2059 c.c., nonché il difetto di motivazione, sulla scorta del fatto che le misure di sicurezza concretamente predisposte, risultavano assolutamente conformi agli standard di sicurezza ed alla tipologia di piccolo ufficio periferico, la cui ubicazione ed il volume d'affari lo rendevano non soggetto ad apprezzabili rischi.

Si lagnava, inoltre, della mancanza di prova in ordine al supposto danno morale, mancando il nesso causale tra il presunto inadempimento del datore di lavoro e le lesioni all'integrità psichica asseritamente subite dal lavoratore.

La Corte, in coerenza con i propri precedenti, ritiene che il lavoratore che agisca in giudizio per il risarcimento dei danni da infortunio sul lavoro, abbia l'onere di provare il fatto generatore del danno ed il nesso causale esistente tra l'anzidetto danno e l'inadempimento del datore di lavoro, ma non anche l'eventuale colpa datoriale.

Ed invero, in simili fattispecie, la colpa del datore di lavoro si presume in ragione del disposto di cui all'art. 1218 c.c., per il quale: "Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile".

Pertanto, per superare la presunzione di colpa, spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte quelle misure e cautele atte ad evitare il danno, in virtù dell'attività in concreto espletata ed ai rischi alla stessa connessi, potendo risultare insufficiente il generico rispetto delle misure universali di protezione individuale disposte per legge (In tal senso: Cass. 11.04.2013, n. 8855; Cass. 19.07.2007, n. 16003).

Ed invero, le tecniche di sicurezza, devono essere parametrate all'ambiente in cui viene effettivamente esercitata l'attività di impresa, anche in ragione della tipologia della stessa ed alle possibili aggressioni conseguenti all'attività criminosa cui potrebbe essere soggetta una determinata attività imprenditoriale.

In altri termini, nelle attività strettamente connesse all'utilizzo di denaro, esercitate in zone dove i fenomeni criminali risultano particolarmente sentiti, non risulta idoneo e sufficiente, per andare esenti da responsabilità, apprestare sistemi di sicurezza generici, quand'anche conformi al dettato normativo.

Ricorda a tal proposito, la Corte di Cassazione, i propri precedenti specifici in materia di rapina sul luogo di lavoro, per cui il disposto dell'art. 2087 c.c., deve essere interpretato nel senso della necessità di fornire ai propri dipendenti: "adeguati mezzi di tutela dell'integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell'attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale (In tal senso: Cass. 20.11.2015, n. 23793; Cass. 13.04.2015, n. 7405).

Pertanto, il datore di lavoro per non incorrere in responsabilità contrattuali, deve provare di aver adottato tutte quelle misure protettive idonee, in considerazione della effettiva situazione di pericolo, a salvaguardare l'incolumità del personale dipendente, specie quando è stato già in passato vittima di simili episodi criminosi.

Per quanto concerne, infine, la paventata carenza di prova in ordine al danno subito, questo risulta comprovato nonché allegato "dalla sofferenza emotiva, indubbiamente intensa, conseguita dal dipendente dalle due rapine subite sul posto di lavoro. Tale danno trova positivo riscontro anche nell'episodio ipertensivo insorto il giorno successivo alla seconda rapina e per cui il lavoratore fu ricoverato cinque giorni in ospedale ed è stato correttamente liquidato in via equitativa, in relazione "alle modalità della vicenda"" (Cass. 19.12.2016, n. 3306. Nello stesso senso: Cass. 26.06.2013, n. 16041).


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